Il Partito Democratico americano è storicamente un partito moderato e pragmatico, ma dopo la crisi economica del 2008 ha vissuto la più profonda ridefinizione ideologica della sua epoca contemporanea. Gli avvenimenti di questi giorni ne sono una prova.
Dentro un partito diviso
Il terremoto politico che attraversa oggi i Democratici non nasce nel Congresso né nelle altre stanze del potere di Washington, ma nelle metropoli. È lì, tra il caro-affitti, i trasporti pubblici e le disuguaglianze, che prende forma la nuova sinistra americana. Da questo humus urbano emerge Zohran Mamdani, neo-eletto sindaco di New York e volto di un progressismo che fonde cosmopolitismo, redistribuzione e radicalità morale — la risposta opposta e speculare al trumpismo.
Già con Barack Obama il Partito Democratico aveva subito il primo scossone rispetto al tradizionale posizionamento della sua classe dirigente. Obama però non è mai stato un “socialista democratico”: la sua figura, seppure radicale in parte della proposta politica, ha rappresentato soprattutto una rottura simbolica — il primo afroamericano alla Casa Bianca — e un linguaggio empatico e inclusivo, capace di mobilitare nuove generazioni e minoranze. Tuttavia, le sue politiche — dal salvataggio degli istituti bancari alle misure economiche post-crisi fino ad Obamacare nel 2010 — sono rimaste entro i solidi confini del pensiero liberal americano prudente e pragmatico, fondato sul compromesso.
Dopo Obama, la contraddizione è letteralmente esplosa. L’ala progressista, fino agli anni precedenti fortemente minoritaria e presente con sparute percentuali o con esponenti indipendenti o marginali, ha trovato nel 2016 il modo per emergere. Le primarie tra Bernie Sanders e Hillary Clinton — vinte da quest’ultima con grande difficoltà e un margine sorprendentemente ridotto rispetto alle attese — hanno aperto una frattura che non si è più ricomposta.
La vittoria di Joe Biden nel 2020 non deve trarre in inganno: è stata frutto di un voto “contro” Trump più che di un’adesione convinta alla visione politica dell’ex Vice di Obama – frutto soprattutto dell’abilità del candidato di unire le due anime del partito contro il comune avversario. Ma il compromesso non è durato: quattro anni dopo, la disastrosa performance del ticket Harris-Walz (di fatto percepito in continuità con la presidenza Biden) ha confermato la perdita di entusiasmo e la difficoltà nel riattivare l’intero bacino elettorale democratico, con un’emorragia di voti soprattutto tra giovani e minoranze decisiva per la nuova vittoria di Trump.
Una storia americana
In questo contesto frammentato e politicamente instabile nasce e cresce la figura di Zohran Mamdani. La sua ascesa è molto più di un successo locale: rappresenta la materializzazione di un mutamento culturale e generazionale all’interno del Partito Democratico.
Mamdani è l’immagine vivente dell’“America mondo”: nato in Uganda da famiglia di origini indiane, figlio di un professore universitario della Columbia e di una celebre regista cinematografica, cresciuto nel Queens — il quartiere più etnicamente vario degli Stati Uniti.
La sua storia è la più classica delle storie americane: quella di un outsider che in soli sette anni (2018) è passato da immigrato (seppur benestante) non ancora cittadino americano, a candidato sconosciuto alle primarie con l’1% iniziale dei consensi, sino alla poltrona di sindaco della metropoli simbolo del capitalismo globale.
Ma la sua vittoria non è solo identitaria: è soprattutto un’affermazione programmatica.
Mentre gli avversari — compreso l’ex governatore Andrew Cuomo, sostenuto dall’establishment democratico e persino da settori repubblicani, e addirittura da Donald Trump in chiara funzione anti-Mamdani — puntavano tutto sul tema della sicurezza intesa come problema di polizia ed esercito, il candidato democratico ha scelto di concentrarsi su un altro tipo di sicurezza: quella sociale. La sua campagna ha battuto e ribattuto sul costo della vita e sulla crisi abitativa, i veri nervi scoperti delle grandi città americane e soprattutto di New York.
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Solo Barack Obama, tra i big del partito, ha espresso un endorsement chiaro e netto a pochi giorni dal voto per Mamdani. Altri, come Bill Clinton, hanno invece sostenuto direttamente Cuomo, mentre Chuck Schumer, ex capogruppo Dem in Senato, ha preferito non rivelare la propria preferenza.
Le proposte del neo-sindaco sono state dirette e facilmente comprensibili: aumento dell’aliquota fiscale per l’1% della popolazione più ricca di New York, innalzamento della tassazione sulle imprese all’11,5%, trasporti pubblici gratuiti per i newyorkesi, accesso gratuito ai servizi universali per l’infanzia, un piano per calmierare gli affitti, costruire case popolari, raddoppiare il salario minimo e lanciare supermercati comunali con prezzi regolamentati.
Una visione che rompe con le classiche ricette politiche e l’approccio prudente del Partito Democratico tradizionale, e segna la nascita – o forse meglio dire la ripresa, visti gli innumerevoli precedenti storici anche negli Stati Uniti – di un socialismo urbano e civico fondato su stato sociale e servizi pubblici, ancorato ai bisogni materiali della working class metropolitana.
Generazione, linguaggio e comunicazione
Mamdani, al pari della sua coetanea Alexandria Ocasio-Cortez (deputata di spicco dell’ala sinistra del partito), è anche il simbolo dell’ascesa dei millennial e segna una rottura generazionale con una politica americana che sembra occupata da una casta di vegliardi, da Joe Biden a Donald Trump, da Hillary Clinton allo stesso Bernie Sanders, tutti attorno agli ottant’anni.
Il suo stile — diretto, empatico, inclusivo — e la sua campagna di comunicazione fatta di grafiche colorate e linguaggi contemporanei riflettono una nuova grammatica politica: quella delle reti sociali, della musica (il suo passato da rapper è più che un dettaglio) e della comunicazione immediata e orizzontale. Il messaggio è chiaro: la politica non deve essere verticale, ma partecipata, vissuta, condivisa.
I suoi elettori sono giovani solitamente scettici verso la politica, immigrati o nativi ma con eredità migratorie recenti, lavoratori precari o appartenenti alla classe media impoverita dall’inflazione galoppante degli ultimi anni: categorie colpite dal caro-affitti e dalla stagnazione salariale, che vivono come uno shock le operazioni aggressive anti-immigrazione dell’ICE. Per loro, Mamdani non è un radicale, ma una voce di rappresentanza reale — qualcuno che parla la loro lingua e interpreta i loro bisogni.
Un possibile modello nazionale?
Durante l’avvio della sua campagna, lo stesso Mamdani confidava ai suoi collaboratori che l’obiettivo non era necessariamente vincere, ma rafforzare l’ala sinistra del partito e darle maggiore visibilità. Ha finito per vincere, e ora quella sinistra — dopo il senatore Sanders e la deputata Ocasio-Cortez — ha trovato il suo terzo volto dirompente su scala nazionale: il sindaco Mamdani.
Se il Partito Repubblicano con Trump ha abbandonato il suo conservatorismo liberista per un populismo identitario dalle tinte stataliste, il Partito Democratico potrebbe vivere una trasformazione analoga ma nella direzione opposta: verso un progressismo urbano, redistributivo e interclassista che parla alle città globali del XXI secolo.
La vittoria di Mamdani non è soltanto una novità politica, ma un segnale sociologico: l’America meticcia, mobile e cosmopolita che reagisce all’autarchia trumpiana fatta di dazi, supremazia e isolazionismo, rivendicando la propria diversità come forza e non come debolezza.
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Ma mentre questo modello può funzionare a New York o in altre metropoli, per le stesse ragioni non può apparire immediatamente vincente per il complesso degli Stati Uniti. Per comprendere se il Partito Democratico è sulla strada della costruzione di una proposta politica convincente alternativa a Donald Trump, bisogna indagare sulle altre due vittorie portate a casa il 4 novembre, in New Jersey e Virginia.
Messaggi da New Jersey e Virginia
Quest’ultimo risultato è particolarmente eclatante: Stato tradizionalmente repubblicano, passato ai Dem con Barack Obama ma nuovamente espugnato da Donald Trump lo scorso anno, la Virginia ha scelto la prima Governatrice donna della sua storia, Abigail Spanberger, e ha dato ai Democratici un vantaggio di 14 punti, praticamente senza precedenti.
Spanberger si è posta a metà strada tra la tradizionale postura del Partito Democratico e le novità emerse nella campagna elettorale di Mamdani. Ha ribattuto una sull’altra le proposte politiche di Trump, promettendo di difendere il diritto all’aborto e di rifiutarsi di collaborare con la Casa Bianca sull’immigrazione. E ha accolto il “vento di New York” promettendo protezione sociale sui posti di lavoro e sul costo della vita: affordability. Ma ha mantenuto un approccio moderato – tanto da guadagnarsi l’endorsement della più grande associazione di poliziotti della Virginia – particolarmente apprezzato in uno Stato dalle radici conservatrici, sebbene ora influenzato verso sinistra dalla grande e limitrofa area metropolitana di Washington DC.
Approccio, dunque, tanto più promettente per il Partito Democratico, perché vincente in una zona dove il consenso trumpiano era fino a poco tempo fa maggioritario. Nel contesto locale, ha contato senz’altro la battaglia condotta dall’amministrazione Trump contro i dipendenti pubblici della capitale federale (e acuita dallo shutdown tuttora in corso) – molti dei quali abitano appunto nella Virginia del nord – e il fatto che Spanberger fosse una di loro: ha lavorato otto anni alla CIA, che ha la sua sede proprio da quelle parti. Deputata alla Camera dal 2018, vincendo in un distretto molto spostato a destra, Spanberger ha espressamente mantenuto posizioni lontane dalle derive estremiste sia dei democratici che dei repubblicani – ha anzi criticato la sinistra del suo partito, ad esempio, sulla campagna per togliere fondi alla polizia. Gli elettori della Virginia hanno apprezzato.
Così come hanno apprezzato gli elettori del New Jersey, che hanno eletto a governatrice del loro Stato la democratica Mikie Sherrill, con un comodo vantaggio di 13 punti. Il New Jersey è un territorio abbastanza blindato per i democratici, o meglio lo era: alle scorse elezioni per governatore il candidato Dem si era imposto di un solo punto, e Donald Trump l’anno scorso aveva mangiato quasi tutto il vantaggio che i rivali mantenevano alle presidenziali, da Clinton in poi.
Sherrill prima di entrare in politica era pilota di elicotteri per la Marina, poi avvocata in un grande studio legale, e da deputata alla Camera aveva collaborato spesso proprio con Spanberger: come lei, era stata eletta vincendo in un collegio difficile. Ma nonostante le chiare differenze con Mamdani, a cominciare dall’approccio certo più terra terra, “da camminatrice di montagna”, come è stato detto, ha costruito un “ponte” politico con la prospiciente New York City, conducendo una campagna tutta sotto la bandiera dell’affordability: potersi permettere la casa, poter pagare le bollette, avere scuola e lavoro dignitosi, potersi permettere i farmaci per curarsi (un problema sentitissimo nell’America delle assicurazioni sanitarie private e dell’epidemia di fentanyl) sono state proposte particolarmente efficaci – il che ha tanto più valore dato che avviene in un momento in cui la Casa Bianca taglia l’assistenza sociale, dal cibo alle medicine. Non solo i Dem hanno riallargato il vantaggio sui Repubblicani, ma hanno anche portato alle urne 600mila persone in più rispetto alle scorse elezioni.
Insomma, una tornata elettorale che ha offerto soddisfazioni ai Democratici – includendo anche la vittoria al referendum in California sul ridisegno dei distretti elettorali per contrastare quello operato dai Repubblicani in Texas. Però è senz’altro vero che le elezioni erano poche, rispetto alla varietà del territorio degli Stati Uniti. Trump ha sminuito la portata del voto dicendo che – nonostante gli endorsement – i suoi hanno perso perché “non c’è scritto Trump sulla scheda”.
La partita più grande e più vera si giocherà dunque nel novembre dell’anno prossimo, quando si rinnoverà un terzo del Senato e tutti i seggi della Camera. Del resto, i Repubblicani dovranno abituarsi al fatto che il nome di Trump non sia sulle schede, dato che non è rieleggibile. Si è aperta, anche per questa ragione, una stagione diversa della politica americana.