Moneta e confini

tratto dal numero 90 di Aspenia

 

Partecipare all’economia globale è un requisito per la crescita e lo sviluppo: ma accedere al capitale internazionale costringe spesso a politiche in contrasto con altri obiettivi, soprattutto per i paesi più poveri. I prestiti multilaterali erogati dalle istituzioni finanziarie internazionali pongono condizioni che spesso sono viste come lesive per la sovranità nazionale. Resta la via dei prestiti bilaterali, da anni erogati soprattutto dalla Cina a condizioni eccessivamente favorevoli, che presentano però pesanti controindicazioni economiche e politiche.

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In un mondo sempre più connesso attraverso i movimenti di capitale – spesso senza alcuna restrizione – la sovranità, in particolare quella monetaria, è un concetto fluido. La definizione tradizionale la descrive come il diritto di uno Stato di emettere valuta a corso legale all’interno della sua giurisdizione, di determinarne e modificarne il valore e di regolamentarne l’uso all’interno del territorio dello Stato[1]. Tuttavia, nel corso degli ultimi quarant’anni, l’economia globale ha sviluppato forti interdipendenze, collegamenti transfrontalieri e reti globali che hanno progressivamente separato denaro e finanza dagli spazi territoriali. I governi sono diventati più attenti alle opinioni e umori degli investitori internazionali, adottando spesso misure che sembrano limitare la portata delle politiche nazionali. Cercare di essere in sintonia con la finanza internazionale può tradursi in limitazioni della sovranità di uno Stato? Oppure si tratta di un compromesso che deriva dall’appartenere a un mondo globalizzato? In altre parole, cos’è la sovranità in un mondo di liberi flussi di capitale?

 

IL COMPROMESSO DELL’ECONOMIA GLOBALE. Consideriamo per un momento la situazione in cui spesso si trovano molti paesi in via di sviluppo aperti e integrati nell’economia globale. Per questi paesi il capitale finanziario è una risorsa cruciale per lo sviluppo economico, ma come generarlo a un tasso in linea con il potenziale tasso di crescita delle loro economie? Una possibilità è attirare capitali dall’estero. I flussi di capitali in entrata diventano così un importante elemento per lo sviluppo economico. Devono, tuttavia, essere gestiti in modo da evitare la creazione di squilibri, per esempio, nel settore bancario dove un eccesso di flussi in entrata può generare una crescita eccessiva del credito con effetti potenzialmente devastanti.

Il problema che sorge in relazione alla sovranità è che gli interventi di policy che si rendono necessari per una corretta gestione dei flussi di capitale sono spesso in contrasto con le politiche orientate alla crescita dell’economia nazionale. Per esempio, un rialzo dei tassi di interesse offrirebbe agli investitori un rendimento maggiore, ma potrebbe rendere le esportazioni meno competitive se risultasse, come spesso avviene, in un rafforzamento della valuta nazionale. Inoltre, un rialzo dei tassi di interesse, alzando il costo dell’indebitamento, rischierebbe di deprimere la domanda interna. Detto altrimenti – e gli esempi che si possono citare sono numerosi – riconciliare i movimenti di capitali con le politiche necessarie al welfare e alla stabilità dell’economia nazionale pone dilemmi spesso irriconciliabili per i paesi, soprattutto quelli in via di sviluppo, che si rivolgono ai mercati di capitale.

La situazione è addirittura peggiore per quei paesi – solitamente i più poveri – che non possono emettere debito nella loro moneta. Questo è dovuto alla volatilità di tali monete e alla loro limitata liquidità e circolazione, che le rende poco attraenti per gli investitori internazionali abituati a investire in dollari o in altre valute forti. Di conseguenza, molti paesi emettono il loro debito in moneta forte – soprattutto dollari – ma questo crea una discrepanza tra la valuta nella quale il debito e gli interessi devono essere versati, e le entrate generate dalle attività produttive. Se la moneta del paese si deprezza contro la valuta nella quale è emesso il debito, l’impegno nei confronti dei creditori sarà più gravoso. Non potendo gestire il proprio debito come le economie avanzate, i paesi più poveri si trovano spesso nella condizione di dover adattare le proprie politiche interne in funzione del servizio e saldo del debito in dollari o euro.

Un modo per i paesi in via di sviluppo di stabilizzare il valore della propria valuta è collegarla al dollaro (o a un’altra valuta forte). Il cosiddetto “ancoraggio”, questo il nome della pratica, estende la stabilità della moneta forte a quella debole. Molti paesi cercano di ancorare le loro valute e le loro politiche al dollaro e alla politica monetaria degli Stati Uniti in modo da stabilizzare il cambio e anche evitare pressioni inflazionistiche. In presenza di flussi di capitale senza restrizioni, con l’ancoraggio il paese rinuncia a una politica monetaria indipendente, rimanendo esposto alle politiche monetarie del paese a cui si è ancorato.

 

LE ISTITUZIONI MULTILATERALI. C’è un’altra opzione a disposizione dei paesi che intendono accedere al capitale internazionale: chiedere un prestito a un’istituzione finanziaria multilaterale. La Banca mondiale fornisce finanziamenti per lo sviluppo e il Fondo monetario internazionale offre assistenza in caso di difficoltà finanziarie. Ci sono però tre situazioni nelle quali le pratiche delle istituzioni multilaterali sembrano essere in contrasto con la sovranità.

Prima di tutto, i finanziamenti per lo sviluppo e l’assistenza finanziaria sono subordinati a condizioni che molti paesi ritengono pregiudizievoli per la sovranità. Per esempio, l’assistenza dell’FMI spesso richiede che il governo debitore adotti misure volte a sanare le cause alla base degli squilibri finanziari, per mettere il paese in condizione di rimborsare il prestito. Queste misure consistono tipicamente in una politica fiscale prudente, mercati del lavoro flessibili e libero scambio. Nello specifico, ai paesi viene spesso richiesto di tagliare la spesa per il welfare e aumentare le tasse, perché ciò è ritenuto necessario per la sostenibilità del debito e per il rimborso del capitale e degli interessi. I governi e le popolazioni dei paesi debitori (è successo alla Grecia durante la crisi del debito sovrano in Europa, ai paesi asiatici dopo la crisi finanziaria del 1997 e all’Argentina molto di recente) mal tollerano gli interventi esterni, che considerano quasi come una riduzione della sovranità nazionale, anche se, quando arrivano a chiedere un prestito all’FMI, spesso non hanno altre alternative.

In secondo luogo, chiedere un prestito all’FMI comporta un enorme danno di immagine per il paese richiedente. Fare ricorso al Fondo può allontanare gli investitori internazionali e avere gravi implicazioni politiche, finanziarie ed economiche. Il danno può essere tale da annullare i benefici ottenuti mediante l’assistenza dell’FMI, quindi molti paesi soppesano a lungo una decisione simile. In questo caso la prevenzione è la strategia migliore ed è ciò che i paesi asiatici hanno messo in pratica dopo la crisi finanziaria del 1997. L’umiliazione di essersi rivolti all’FMI è ancora molto forte nel Sudest asiatico.

Infine, non tutti i paesi che si trovano in difficoltà – e quindi devono rivolgersi all’FMI – ricevono lo stesso trattamento. L’FMI sembra adottare criteri più restrittivi nei confronti di alcuni paesi rispetto ad altri. Consideriamo i casi dell’Argentina e del Pakistan: entrambi i paesi hanno un peso significativo all’interno della propria regione, entrambi hanno economie sbilanciate a causa di una combinazione di inflazione elevata, indebitamento e ampio disavanzo delle partite correnti. Nel corso degli ultimi due anni, entrambi i paesi si sono rivolti all’FMI e hanno dovuto attuare programmi di riforma, ma al Pakistan sono stati concessi solo 6 miliardi di dollari di aiuti mentre l’Argentina si è aggiudicata un pacchetto record da 50 miliardi. Questo è spiegato dal fatto che molte banche e istituzioni finanziarie americane sono fortemente esposte nei confronti dell’Argentina, un paese che è saldamente legato alla rete di alleanze degli Stati Uniti, mentre le relazioni fra Washington e il Pakistan sono molto fredde. Nel 2018 il rapporto cordiale fra l’allora Presidente argentino Mauricio Macri e il presidente Trump ha fruttato all’Argentina un ulteriore prestito dell’FMI da 7,1 miliardi di dollari.

 

LA DIPLOMAZIA FINANZIARIA DELLA CINA. Negli ultimi anni c’è stato un aumento dei prestiti bilaterali concessi ai paesi poveri con un accesso limitato o nullo ai mercati internazionali di capitale o che non sono disposti a rivolgersi alle istituzioni finanziarie internazionali. Questi prestiti bilaterali sono spesso senza vincoli, a differenza di quelli forniti dalle istituzioni finanziarie multilaterali, ma sono frequentemente basati su una contrattazione sbilanciata e addirittura sulla coercizione. Alcuni paesi hanno accolto con favore gli investimenti cinesi, considerandoli un’alternativa migliore rispetto all’fmi; altri invece hanno espresso preoccupazione all’idea di entrare in una relazione non paritetica, dal momento che la dimensione dell’economia cinese non è paragonabile a quella della maggior parte dei paesi in via di sviluppo.

La Cina oggi è uno dei maggiori fornitori di finanziamenti per lo sviluppo e il secondo esportatore di capitale al mondo dopo gli Stati Uniti. Si stima che fra il 2000 e il 2014 Pechino abbia erogato circa 350 miliardi di dollari di finanziamenti allo sviluppo[2]. Un canale di prestito tipico della Cina è l’investimento diretto non liquido in infrastrutture fisiche estere. La Belt and Road Initiative (BRI), il grande programma di sviluppo infrastrutturale lanciato nel 2015, ne è l’esempio più evidente. Le autorità cinesi descrivono la BRI come un programma di “mutuo vantaggio e sicurezza comune”, ma in realtà il progetto è parte integrante della loro agenda economica e di politica estera. Le finalità che soggiacciono alle prassi di prestito cinesi fanno sì che troppo spesso i prestiti siano svincolati da un rating sovrano, da criteri di governance o da obblighi di rispetto dei diritti umani e si trasformino in sostegno a regimi non democratici e dittature.

Prendiamo il caso del Regno di Tonga, un piccolo paese in via di sviluppo esposto ai disastri naturali e dipendente dagli aiuti stranieri. L’arcipelago di Tonga si trova nell’Oceano Pacifico meridionale, una regione di crescente importanza strategica nella quale Australia e Nuova Zelanda stanno estendendo la loro presenza. Per la Cina rappresenta una porta verso il Pacifico che permette di evitare il Giappone, Taiwan e le Filippine, tutti alleati degli Stati Uniti. Dal 2011 Pechino ha impegnato nella regione circa 6,9 miliardi di dollari in aiuti e prestiti a basso interesse, 1,6 miliardi dei quali sono già stati erogati[3]. Finora Tonga ha ricevuto dalla Cina circa 163 milioni di dollari, ma ripagare questo prestito non è un’impresa facile. Nel 2018 la Cina ha concesso una proroga sul prestito di cinque anni e subito dopo l’arcipelago ha annunciato il suo ingresso nella bri.

Un altro strumento di prestito adottato dalla Cina sono gli accordi bilaterali di swap in valuta (in sostanza, due banche centrali si impegnano a mettere a disposizione reciprocamente linee di liquidità) della Banca popolare cinese – la banca centrale. Dal momento che le linee di swap in valuta sono flessibili, facili da istituire e utili a formare alleanze, la Cina le usa come strumenti di diplomazia finanziaria. Il fatto che le linee di swap cinesi forniscano liquidità in renminbi è significativo, perché serve a sostenere il commercio e gli investimenti bilaterali. Nessun altro paese ha promosso accordi bilaterali di swap quanto e come la Cina, che dal 2008 ne ha siglati 36, più di qualunque altro paese al mondo, per un totale di quasi 500 miliardi di dollari[4]. Finora gli swap hanno aiutato la Cina a rafforzare le relazioni con l’America Latina, l’Asia e la Russia.

Costrizione o condivisione? In futuro possiamo solo aspettarci un aumento dei prestiti bilaterali da parte di paesi come la Cina. Quali sono le implicazioni per la sovranità? Se un paese, attratto dalle condizioni favorevoli a cui sono negoziati i prestiti destinati a promuovere gli interessi geopolitici del creditore, si indebita troppo, rischia di esporsi a una spirale di debito non sostenibile e, di conseguenza, all’instabilità finanziaria.

Il punto quindi è avere regole che permettano ai paesi di accedere ai prestiti (o di erogarli) evitando un’esposizione al rischio tale da compromettere la sovranità del debitore. I prestiti multilaterali erogati nel contesto delle istituzioni finanziarie internazionali prevedono già tali regole. I prestiti sono infatti soggetti a standard e a prassi che assicurano che il denaro vada ai paesi che ne hanno bisogno e che sia usato per promuovere e rafforzare i diritti umani, la sostenibilità ambientale e il benessere generale. Se il prestito bilaterale è guidato da considerazioni diplomatiche e serve gli interessi specifici, gli obiettivi e le preferenze geopolitiche di una nazione, il prestito multilaterale è volto ad alleviare tensioni e rivalità fra Stati concorrenti. Poiché il mondo occidentale percepisce sempre di più la crescita economica della Cina come una minaccia per il proprio benessere, è fondamentale che le istituzioni internazionali riescano a mediare fra le rivendicazioni concorrenti suscitate dal fatto che la Cina presta a paesi che, come il Pakistan, versano in condizioni precarie.

Per come stanno le cose al momento, i paesi che faticano ad avere accesso al capitale internazionale oppure sono gravati da un debito eccessivo e sono quindi a rischio di default, si sentono limitati nell’esercizio della loro sovranità. Spesso si lamentano del fatto che l’ordine globale non consente loro di esercitare la propria sovranità allo stesso modo di altri paesi in situazioni simili.

Ci sono due modifiche cruciali che potrebbero contribuire a risolvere questa situazione. La prima è un protocollo internazionale per la ristrutturazione del debito. Per come è strutturato oggi il prestito bilaterale, i default sono inevitabili, ma l’assenza di regole significa che le dispute sono risolte mediante contrattazioni fra ineguali, che non lasciano ai debitori altra scelta se non cedere al volere dei creditori, qualunque cosa ciò comporti.

La seconda e più importante modifica è la riforma delle istituzioni multilaterali. In effetti, se l’FMI fosse rafforzato e riformato in modo da rispondere adeguatamente alle necessità di tutti i paesi, i paesi in via di sviluppo non si farebbero attrarre da prestiti vantaggiosi offerti da creditori interessati a rafforzare relazioni bilaterali fondamentalmente sbilanciate. Tuttavia, poiché gli Stati Uniti hanno potere di veto sulle iniziative di riforma dell’FMI e tendono a preferire le relazioni bilaterali a quelle multilaterali, è improbabile che ciò accada presto.

 

 


Note:

[1] François Gianviti, “Current Legal Aspects of Monetary Sovereignty”, imf Seminar Paper, 2004.

[2] Aid Data, “China’s Global Development Footprint”.

[3] Lowry Institute, “Pacific Aid Map: China”.

[4] Daniel McDowell, “The (Ineffective) Financial Statecraft of China’s Bilateral Swap Agreements”, Development and Change, vol. 50, n. 1, International Institute of Social Studies, L’Aia, 2019.

 

 

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