Alcune zone della città capitale dell’Unione europea sono state il teatro di scene di guerra urbana, come si è già visto accadere in varie altre città. E come, purtroppo, era noto che potesse accadere nuovamente. Bruxelles ospita anche il Quartier Generale della NATO (l’Alleanza più potente della storia, come ci piace giustamente ricordare a volte); se ce ne fosse bisogno, questo dato rende politicamente ancora più gravi i fatti del 22 marzo 2016.
Il Medio oriente conosce oggi molte guerre, grandi e meno grandi. Non tutte uguali: guerre civili in piena regola, attacchi terroristici ripetuti contro i governi in carica, guerre per procura, azioni militari preventive o punitive per contenere l’espansione di gruppi armati. Questa conflittualità è debordata ben oltre il Medio oriente: verso l’Africa subsahariana, verso l’Asia centrale e parti di Sudest asiatico, verso gli Stati Uniti (o comunque obiettivi americani in giro per il mondo) e naturalmente verso l’Europa. Difficile dire se tutti gli europei si considerino davvero in uno stato di guerra – molti rifiutano deliberatamente di dichiararlo, anche con qualche buona ragione di prudenza e forse proprio per non generare una mobilitazione collettiva che potrebbe sfuggire di mano. Oltretutto, sappiamo che lo strumento militare (che si attiva naturalmente quando si entra in un contesto bellico) non sarà di per sé sufficiente a combattere il tipo di minaccia che incombe sull’Europa. Cautela e sangue freddo sono dunque indispensabili, soprattutto nei momenti più tragici.
Bisogna però capire se lo strumento militare può comunque avere un ruolo decisivo oppure no. E questa scelta torna ad essere urgente ogni volta che un attacco terroristico colpisce, perché è chiaro che nel campo della forza bellica l’Europa, pur con tutti i suoi limiti e le sue incertezze, è assai superiore ai suoi nemici attuali – quelli che hanno organizzato, finanziato e ispirato gli attentati di Parigi e Bruxelles. E sappiamo anche che esistono legami importanti degli attentatori con i vari gruppi attivi nei teatri di guerra e guerriglia del Medio oriente. Sono legami che si possono colpire e in alcuni casi forse recidere.
Intanto, questi nostri nemici si considerano in guerra contro gli Stati e dunque contro le popolazioni dell’Europa. Al di là delle reazioni emotive, della solidarietà per i paesi colpiti da esprimere in tutti i modi possibili, degli sforzi di maggiore cooperazione tra i servizi di sicurezza, si deve dare una risposta europea alle domande finora rimaste sospese: in che tipo di guerra ci hanno trascinati? Quali strumenti possiamo schierare che finora non abbiamo schierato in pieno? E come dobbiamo semmai usarli al meglio? Dalla Libia alla Siria, la situazione non migliorerà affatto se rimanderemo ancora questo momento della verità.
Di certo, non dare una risposta “aggregata” europea, che sia coerente con i mezzi a nostra disposizione e con la nostra volontà politica collettiva, lascerà la tentazione ad alcuni governi di muoversi in ordine sparso. E’ accaduto spesso nel recente passato, con risultati non positivi e comunque peggiori rispetto al potenziale di influenza che conserva il Vecchio continente se agisce in modo coordinato. Non si può onestamente affermare che gli europei di oggi abbiano il “grilletto facile”, né che abbiano la propensione a lasciarsi invischiare in guerre protratte di tipo post-coloniale: dunque non c’è pericolo reale di sbagliare per eccesso di zelo o di entusiasmo marziale. C’è invece il grosso rischio di rinunciare a uno degli strumenti che abbiamo, usando le forze armate (“speciali” o meno speciali) in modo clandestino solo per timore di raccontare alle opinioni pubbliche una storia di guerra. Una guerra sfuggente, nuova e forse diversa, in cui assai probabilmente siamo già.