Migranti e rifugiati: le sfide dei flussi misti nel Mediterraneo

Usano gli stessi mezzi di trasporto e le stesse reti o organizzazioni che facilitano o gestiscono i viaggi al di fuori dei canali regolari, viaggiano sulle stesse rotte, ma le loro motivazioni e bisogni di protezione sono differenti. Oltre un milione di persone è giunto in Europa in questa maniera nel 2015 – cifra quadruplicata rispetto al 2014 e decuplicata sul 2013:  la complessità delle loro vicende non ci permette di inquadrarli nella dicotomia tra migranti forzati, che cercano rifugio da guerre, violenze e persecuzioni, e migranti economici, che scelgono di spostarsi alla ricerca di migliori opportunità.

Migranti o rifugiati? Una dicotomia problematica

Nella comunità scientifica, la distinzione categorica tra i migranti volontari (o economici) e i migranti forzati (comunemente chiamati, anche se in maniera imprecisa, rifugiati) è stata da tempo messa in discussione, mostrando come questi due ideal-tipi non sono che i poli di un continuum dove si ritrovano situazioni variegate, complesse e, per molti versi, sovrapponibili.

La maggior parte di chi arriva sulle isole greche dalla Turchia proviene da Paesi che l’ONU inserisce nella top ten mondiale dei Paesi“produttori di rifugiati” (Siria, Iraq e Afghanistan in primis).I profili dei migranti in arrivo dal Nord Africa in Italia sfuggono invece a una definizione univoca. Eccezion fatta per gli eritrei e i somali, gli altri provengono da Paesi, perlopiù dell’Africa Occidentale, generalmente non considerati “produttori di rifugiati” (come Nigeria, Mali, Senegal o Gambia). Ma una distinzione basata esclusivamente sul Paese di origine non permette di dare conto della varietà delle situazioni individuali, né del loro mutare nel tempo–  principio che dovrebbe essere implicito nella natura individuale del diritto d’asilo, il cui riconoscimento non dovrebbe dipendere dalla nazionalità del richiedente.

In particolare, tra chi sbarca in Europa, sono frequenti due situazioni ibride: da un lato quella che potremmo definire dei “migranti-rifugiati”. Si tratta di persone inizialmente partite in cerca di lavoro in un altro Paese, da cui devono poi fuggire per lo scoppio di un conflitto: la loro migrazione si trasforma così da volontaria a forzata. Questa condizione è molto comune tra i migranti provenienti da Paesi sub-sahariani che hanno lasciato la Libia dal 2011 in poi. Numerosi hanno testimoniato di essere passati dalle prigioni libiche ai barconi diretti in Italia dietro minaccia delle armi dei propri stessi carcerieri.

Ma si verificano anche casi inversi, che potremmo definire di “rifugiati-migranti”. Si tratta di persone che hanno lasciato il proprio Paese in guerra per cercare rifugio nei Paesi limitrofi, dove però faticano a trovare lavoro e a vivere una vita decorosa. Il protrarsi delle situazioni di conflitto e la precarietà delle condizioni di vita li porta quindi ad intraprendere una seconda migrazione che si tramuta da forzata a volontaria. Ad esempio,molti profughi siriani dopo diversi anni passati in Turchia o in Libano hanno scelto di spostarsi verso l’Europa in cerca di migliori opportunità.

Le soluzioni politiche adottate: l’approccio hotspot

Questa complessa realtà è però tenuta in scarsa considerazione nel dibattito politico europeo, che si concentra piuttosto sulla riduzione del numero di persone da accogliere, sia disincentivandone la partenza (si vedano gli accordi presi con la Turchia e il EU Regional Trust Fund in Response to the Syrian crisis) sia scremando il più possibile il numero dei potenziali richiedenti asilo dall’insieme delle persone in arrivo.

Il cosiddetto “approccio hotspot”, seppure inserito in una strategia mirata ad attuare il programma europeo di relocation adottato lo scorso settembre, ha il preciso obiettivo di distinguere subito i potenziali richiedenti asilo dai migranti economici, questi ultimi da rimpatriare celermente. La sua applicazione pratica però si è già ampiamente dimostrata inefficace e inadeguata. Non soltanto l’attivazione degli hotspot è andata a rilento e quelli attivi sono ancora pochi (in Grecia come in Italia), ma numerose ONG e giuristi impegnati sul terreno denunciano pratiche che violerebbero sistematicamente il diritto di accesso alla protezione internazionale delle persone che transitano negli hotspot siciliani, con distinzioni arbitrarie attuate meramente sulla base della nazionalità e in assenza di un’adeguata informazione sui diritti a cui i migranti in arrivo dovrebbero avere accesso.

È chiaro come la soluzione adottata rifiuti di prendere in considerazione la complessità dei flussi e delle situazioni individuali, non solo legittimando la distinzione migrante/rifugiato ma rendendola ancora più arbitraria.

Le soluzioni più radicali: riforma del diritto d’asilo e canali di immigrazione legale

Le vie per affrontare la complessità dei flussi misti nel Mediterraneo dovrebbero essere molto più coraggiose e, per certi versi, radicali. Va tenuto presente che queste sono tra quelle più difficilmente percorribili (almeno nel breve periodo) sia per gli ostacoli pratici, sia per la difficoltà di raggiungere un consenso politico. Ma nella fase di impasse in cui ci troviamo è fondamentale pensare “out of the box”, ragionando su soluzioni che magari oggi sembrano impraticabili.

Per affrontare il problema alla radice, sarebbe auspicabile una riforma del quadro normativo internazionale ed europeo sul diritto di asilo, che lo renda capace di rispondere in maniera più adeguata ai reali bisogni di protezione.La Convenzione di Ginevra, sebbene abbia posto i principi fondamentali del diritto d’asilo, si è rivelata insufficiente alla prova dei conflitti balcanici degli anni Novanta.

Nel contesto europeo, l’introduzione della protezione sussidiaria nei primi anni 2000 ha parzialmente risposto alle esigenze di persone che, pur non presentando i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, fuggono da situazioni di conflitto, violenza indiscriminata, torture e trattamenti inumani e degradanti nel proprio Paese d’origine. Tuttavia questi strumenti giuridici non bastano a interpretare le complessità descritte in precedenza. Ad esempio non garantiscono protezione a chi fugge da situazioni di conflitto in quello che è il proprio Paese di residenza abituale, magari da decenni. Se una revisione della Convenzione di Ginevra volta ad ampliare la protezione internazionale oltre la categoria del rifugiato sembra un’ipotesi remota, una revisione normativa europea sembra più facilmente percorribile.

Pensiamo in particolare a una forma di “protezione umanitaria europea” sul modello di quella prevista dall’ordinamento italiano (e, con modalità e contenuti diversi, anche da altri Paesi europei). Questa risponderebbe ai bisogni di quelle persone che (soprattutto tra i migranti-rifugiati) pur non possedendo i requisiti per la protezione internazionale, non possono essere rimpatriate se non al costo di gravi rischi per la loro incolumità psico-fisica. A Bruxelles c’è poi chi auspica la creazione di un vero e proprio sistema di asilo europeo, con procedure e standard di protezione e accoglienza uniformi nei 28 stati membri, e un’agenzia responsabile per la loro applicazione. Sembra andare in questa direzione anche la proposta contenuta nella lettera congiunta dei Ministri dell’Interno italiano e tedesco Alfano e De Maizière alla Commissione.

Ma senza una messa in discussione delle forme di protezione esistenti e dei loro requisiti, e senza un’armonizzazione di procedure e standard nei diversi Paesi, una tale riforma servirebbe più a rispondere alla necessità di condivisione degli oneri di accoglienza che a garantire effettiva protezione a tutti coloro che ne avrebbero bisogno. Inoltre, le resistenze degli Stati membri di fronte a quella che si presenta come un’incisiva sottrazione di sovranità in una materia così sensibile fanno sembrare quest’ipotesi poco realizzabile.

Infine, appare necessario ricominciare a parlare dell’ampliamento dei canali di immigrazione legale, sia rispetto alla migrazione economica che a quella per motivi umanitari. Investire, sia politicamente che economicamente, sull’apertura di meccanismi di immigrazione legale sarebbe infatti l’unica via per ridurre il numero degli arrivi via mare, offrendo allo stesso tempo maggiori tutele a chi, pur avendo diritto alla protezione internazionale, non ha altro modo che rischiare la vita per richiederla. Politiche di cooperazione in campo educativo e nella formazione professionale, strettamente legate alle politiche di immigrazione per lavoro, servirebbero a formare e reclutare quelle risorse umane che l’inarrestabile processo di invecchiamento europeo renderà sempre più indispensabili. Offrire permessi di soggiorno per lavoro o per studio può rappresentare una misura complementare al percorso della protezione internazionale e in alcuni casi può risultare anche preferibile per il migrante/richiedente stesso, se non altro perché ne facilita una più rapida integrazione economica. La Polonia, per esempio, nel 2015 ha risposto ai numerosi arrivi di cittadini ucraini garantendo loro permessi per lavoro, anziché una forma di protezione sussidiaria o temporanea.

Programmi di resettlement ben più ampi di quelli finora previsti avrebbero infine come effetto non secondario quello di togliere l’Europa dalla posizione di debolezza in cui si trova di fronte ai governi dei Paesi di transito (ieri la Libia di Gheddafi, oggi la Turchia di Erdoğan) che usano l’esodo di massa come minaccia e arma di negoziazione politica. Un fattore importante, quello del peso negoziale, visto che la UE ha bisogno di tutti gli strumenti possibili per rendere le proprie politiche, e quelle dei suoi vicini, più efficaci e umane.