Un’atleta italiana ai Giochi Olimpici di Rio de Janeiro ha compiuto un gesto inatteso e molto inusuale: Elisa di Francisca, vincitrice della medaglia d’argento nella scherma (nella specialità del fioretto) ha mostrato una piccola bandiera della UE al momento della premiazione.
Ha subito spiegato di averlo fatto in memoria delle vittime di Parigi e Bruxelles. Un atto simbolico che in pochi secondi dovrebbe aver messo in qualche imbarazzo molti leader politici europei: il motivo dell’auspicabile imbarazzo è che quell’atleta ha saputo ricordare l’esistenza di una comunità europea (di valori, di regole, di storia), seppur in un momento (relativamente) lontano dalla concitazione di un attentato terroristico. Basterebbe che facessero altrettanto, in modo sistematico, anche i responsabili della politica estera europea nei Paesi membri per realizzare un salto in avanti dell’intera “impresa” comunitaria, nell’interesse di tutti. Il problema è infatti che quasi nessuno dimostra di ricordare davvero l’esistenza di obblighi comuni a livello europeo, se non appunto a ridosso di un attentato o di un altro tipo di crisi acuta.
La politica estera – di cui la politica di difesa e parzialmente quella di sicurezza possono solo essere ancillari – richiede investimenti, attenzione politica e risorse umane che non possono dare frutti in tempi rapidi. Tanto meno lo faranno se i Paesi membri ignorano allegramente l’impegno fondamentale che hanno assunto in forma solenne, cioè quello di non agire in diretto contrasto con gli interessi e gli obiettivi di Bruxelles e degli altri partner. Questa condizione, che potremmo definire minimale, è in realtà disattesa con grande frequenza.
Ecco allora lo stallo in cui si trova la UE: le espressioni di solidarietà – anche quando sono genuine – risultano a “costo zero” perché non comportano effetti pratici; al contrario, una silenziosa opera di condivisione di risorse tangibili (conoscenze e reti di intelligence, forze militari o di polizia da impiegare sotto comando unificato) è costosa, sebbene possa fare la differenza. Inoltre, manifestare una certa “empatia” intra-europea solo in fasi eccezionali significa di fatto relegare la solidarietà alle situazioni di crisi acuta, dimenticando che essa dovrebbe essere la normalità, invece dell’eccezione.
Con un impegno realmente comune – cioè rinunciando a un certo grado di autonomia nazionale – e continuativo – cioè contrastando la naturale tendenza ai brevissimi tempi di attenzione dei media, dell’opinione pubblica e della politica, che tra loro si autoalimentano – l’Unione Europea potrebbe aumentare notevolmente il suo peso internazionale. Ciò si realizzerebbe sia nelle aree di crisi già note, sia in zone comunque rilevanti e da monitorare con attenzione in chiave preventiva.
La piccola bandiera blu, corredata di stelle, che ha sventolato in Brasile, è davvero un piccolo oggetto, ma forse può diventare il grande simbolo di un progetto concreto, se si comprende fino in fondo che il tempo per “essere europei” (senza con ciò cessare di sentirsi italiani piuttosto che tedeschi, francesi, polacchi o lussemburghesi) è oggi, ovvero un giorno qualunque. Non il giorno in cui si deve gestire un dramma che ormai si è già consumato.
Dalla lontana Rio, dunque, è arrivato un messaggio importante a tutte le capitali europee.