Le citazioni di cui sopra non vengono da qualche manifesto idealista o nostalgico, ma dalla versione preliminare dell’accordo di coalizione tra socialdemocratici e democristiani tedeschi, preparato dai negoziatori a dicembre e infine accettato anche dai delegati dell’SPD riuniti a congresso a Bonn il 21 gennaio. E il rinnovarsi del rapporto franco-tedesco ha giocato un ruolo forse decisivo nel portare la politica tedesca al punto in cui si trova oggi.
Nel suo ambizioso discorso alla Sorbona del 26 settembre (proprio due giorni dopo le elezioni tedesche e il loro incerto risultato) Emmanuel Macron aveva riportato nell’arena pubblica della Germania il tema che era stato quasi rimosso durante la campagna elettorale appena finita: l’Europa. In particolare “l’Europa sovrana”, alla cui costruzione il presidente francese prometteva di dedicarsi. Mossa azzeccata, come dimostra la decisione presa – con molta sofferenza – dalla SPD tedesca. Infatti, nella bozza di accordo di coalizione, quello dedicato all’Europa è il capitolo iniziale e principale (mentre gli affari nazionali sono relegati in secondo piano); ed è caratterizzato dalla scelta di non porre nessun “paletto”, nessuna “linea rossa”, alla futura azione riformatrice.
L’accordo tra democristiani e socialdemocratici, piuttosto che una qualsiasi delle alternative finora emerse senza concretizzarsi, gioca a favore dei propositi e della strategia di Macron. La coalizione Jamaika, considerata a lungo unica opzione possibile dato l’iniziale categorico diniego di Martin Schulz a rinnovare l’alleanza con Angela Merkel, tra i suoi punti deboli comprendeva proprio l’Europa: uno dei temi su cui i Verdi, l’ala sinistra della coalizione, e i Liberali (ala destra) erano più in disaccordo.
Se Jamaika fosse andata in porto, quindi, gli equilibri della maggioranza a Berlino non avrebbero consentito nessun volo pindarico, nessuna particolare ambizione riformatrice, nessun fieno in cascina per Parigi, nessuna garanzia di fronte alla riluttanza di altre parti dell’Unione a procedere verso quello che nelle intenzioni è il compimento politico-statuale della UE. Non solo il radicalismo economico-sociale dei Verdi tedeschi avrebbe potuto costituire un problema, per il campione dell’establishment continentale Macron. Ma soprattutto i Liberali, in Germania, avrebbero dovuto mantenere accesa la competizione elettorale con i contigui – ma ben più nazionalisti e xenofobi – membri di Alternative für Deutschland; e avrebbero dovuto soddisfare un elettorato di tendenze isolazioniste: i “paletti” e le “linee rosse” a qualsiasi proposta non sarebbero mancati. In novembre, a riprova del vento che si sentiva tirare da Berlino, il primo ministro olandese Mark Rutte (sostenuto da un’eterogenea coalizione di sei partiti) mandava al parlamento dell’Aia una lettera in cui garantiva che nessuna sostanziale riforma, né politica né tantomeno economica, sarebbe stata portata avanti prossimamente nell’UE.
Far convivere Jamaika e Macron avrebbe portato più di qualche scomodità ad Angela Merkel, che della crescita dell’integrazione europea è stata sempre una (prudente) promotrice. Al contrario, il rilancio dell’Europa, per varie ragioni, è il cuore del nuovo patto con la SPD. Il nucleo di queste ragioni sta nella mossa di Schulz per preservare la stessa esistenza del suo partito – di cui in questi giorni sono emerse tutte le divisioni, il nervosismo e lo scontento.
L’ex presidente del parlamento europeo ha deciso di puntare su Bruxelles come cardine su cui ricompattare i suoi – e non perdere altro terreno tornando al voto (una preoccupazione condivisa dalla CDU). Ma non solo: Schulz vuole trasformare Macron in un vero e proprio “convitato di pietra” della Grosse Koalition, per non essere di nuovo, semplicemente, “il socio di minoranza” dell’accordo con la Cancelliera, la parte debole che poi, nelle urne, paga per tutti. Il riferimento al bilancio comune dell’Unione Europea, inserito dopo ardui negoziati con i democristiani da Schulz nell’accordo, è una prova di questa intenzione: si tratta di un punto su cui i conservatori tedeschi erano stati sempre reticenti, ma è uno dei cardini della proposta di Macron – con l’unico caveat di un’applicazione graduale.
L’abbraccio con il presidente francese, in effetti, potrebbe essere più ingombrante del previsto per Merkel, che per la prima volta non ha del tutto in mano le chiavi delle trattative con Parigi e della sua stessa alleanza di governo. En Marche!, il partito del “solista” Macron – non va dimenticato – non è affiliato a nessuna formazione politica europea (nonostante i tre anni passati con i socialisti francesi): una condizione che avrà anche i suoi “contro”, ma che tra i “pro” annovera la possibilità di tenersi alla larga dalla logica di accordi, alleanze e influenze della politica brussellese. Al vertice della quale, oggi, siedono il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e il presidente del Parlamento Antonio Tajani, entrambi del Partito Popolare Europeo (di cui proprio la CDU di Angela Merkel è la forza più grande): due uomini le cui decisioni non possono stonare con la volontà della Cancelliera tedesca. Tanto più che quando la Commissione pubblicò le sue proposte di riforma dell’Unione Europea nemmeno nominò il bilancio comune dell’UE: all’epoca (inizio ottobre) ancora si pensava che la CDU avrebbe governato con i Liberali, e quella proposizione era politicamente scomoda per Merkel. Meglio accantonarla.
L’SPD, da parte sua, ha molto bisogno di essere ricompattata. I sondaggi mostrano senza pietà il malessere degli elettori e il distacco dall’opinione pubblica, fotografando il partito a una quota inferiore al 20%, mai toccata dalla fine dell’800, dall’epoca di Bismarck. I socialdemocratici sono spaccati tra una destra e una sinistra interna – quest’ultima non vorrebbe mai più sentir parlare di alleanze con i democristiani, dopo l’ultima doppia esperienza (2005-09 e 2013-17). L’Europa, pensa Schulz, dovrebbe invece mettere tutti d’accordo, almeno per cominciare: e allora si parli di quello.
Se alla prova dei fatti la pacificazione del partito non è ancora riuscita (a Bonn 279 delegati hanno comunque votato contro l’accordo, di fronte ai 362 favorevoli), il testo fa ogni sforzo per mostrare un motore franco-tedesco pronto a rombare armoniosamente verso nuovi traguardi, glissando sui punti in cui la posizione francese e quella tedesca divergono di più. Uno di questi è la riforma delle istituzioni europee: più poteri al parlamento, come da idea (e tradizione politica) della Germania, o un super-presidente con grandi poteri, magari eletto direttamente, secondo il modello della V Repubblica francese? Le diverse parabole storico-diplomatiche dei due Paesi influenzano anche un altro punto importante: l’obiettivo della nuova Difesa europea unificata. Per SPD e CDU (e questo è detto nero su bianco), lo scopo dell’armata europea dev’essere “il mantenimento della pace”; a Parigi, invece, il motto si vis pacem para bellum va ancora per la maggiore – la Francia mantiene 30.000 uomini, più un numero imprecisato di forze speciali, in missioni di carattere militare in vari teatri (Siria, Iraq, Libano, Mali e altri paesi del Sahel, Repubblica Centraficana, Libia…), e non ha certo intenzione di rinunciarvi.
Ciononostante, il testo tedesco di compromesso è stato accolto molto bene a Parigi. Il commento del portavoce di Macron (“è un buon accordo per la Germania, per la Francia e soprattutto per l’Europa”) sottolinea un altro aspetto: Berlino e Parigi guardano al futuro. Nemmeno una menzione per la Brexit, data ormai per assodata, vada come vada; e nemmeno una parola per gli Stati Uniti di Donald Trump, o per le relazioni transatlantiche. Non si tenta nemmeno di nascondere la freddezza, poi mutata in imbarazzo e infine in assoluta diffidenza, che le istituzioni dell’Europa continentale provano per l’attuale inquilino della Casa Bianca.
Il rilancio dell’Unione Europea, tutto considerato, sembra allora meno utopico che negli anni passati. Ma davvero l’accordo a Berlino e il volontarismo di Emmanuel Macron bastano per lasciarsi alle spalle le crisi, i sospetti e le accuse reciproche, i fallimenti, i ritardi e i regressi degli ultimi anni? Se l’intesa politica appare solida – e inoltre dalle elezioni del 2019 anche Macron disporrà di una “truppa” di europarlamentari a Bruxelles – è dal punto di vista del consenso popolare che i conti potrebbero non tornare.
SPD e CDU vengono da un risultato preoccupante in settembre (disastroso quello dei socialdemocratici, comunque non brillante quello dei democristiani), e per la prima volta il totale dei loro voti quasi scende sotto il 50% dei suffragi espressi. Considerando la spaccatura interna al partito di Schulz, molto meno della metà dei tedeschi sembra schierarsi in favore di una nuova Grosse Koalition. Il partito di Angela Merkel, dal canto suo, ha perso l’8% rispetto alle elezioni del 2013. Allo stesso tempo, in Francia, è vero che i deputati macroniani hanno una maggioranza parlamentare enorme, ma ciò si è verificato dopo la conquista dell’Eliseo di Macron. Prima che ciò accadesse, al primo turno presidenziale, la somma dei candidati variamente euroscettici, eurofobi, sovranisti o nazionalisti aveva superato il 46% dei voti.
Dunque, il pericolo a cui può andare incontro il progetto riformatore franco-tedesco è che l’opinione pubblica consideri “l’Europa” il pretesto con cui una classe dirigente impopolare cerca di perpetuare se stessa al potere. E magari, alle prossime scadenze elettorali, decida di buttare il bambino con l’acqua sporca.