Ma, anzitutto, è davvero corretto dare Marine Le Pen per sconfitta? La candidata del Front National, per arrivare alla presidenza, deve infrangere due ferree “leggi” della politica francese: 1) Nessun candidato dell’estrema destra ha mai vinto un ballottaggio importante (per i seggi in Parlamento, le elezioni Regionali o le Presidenziali). 2) Nessun candidato dell’estrema destra ha mai accresciuto in maniera considerevole i suoi voti tra il primo turno e uno di questi ballottaggi.
Candidati del Front National – o sarebbe meglio dire membri della famiglia Le Pen – sono stati vicinissimi a conquistare una Presidenza regionale due anni fa. Ci stava riuscendo proprio Marine nella nuova regione Hauts-de-France (fusione tra Nord-Passo di Calais e Piccardia, roccaforti del partito): ma dopo il 40,6% del primo turno, con gli avversari indietro di almeno 15 punti, si fermò al 42,2% al ballottaggio. Sua nipote Marion Maréchal-Le Pen, classe 1989, ci andò anche più vicino in Provenza-Alpi-Costa Azzurra – altra roccaforte frontista: con lo stesso punteggio della zia al primo turno (40,6), si fermò al ballottaggio poco sopra il 45%.
Negli ultimi due anni l’immagine di Marine Le Pen è stata resa ancora più “potabile” e ha continuato a penetrare nella politica e nella società francese. Ciononostante, non sembra possibile che il 21,3% raccolto il 23 aprile dalla ri-fondatrice del Front National possa bastare per vincere, dato che nel 2015, nelle roccaforti, non bastò una percentuale doppia.
La stessa Marine Le Pen, anche a giudicare dall’ultimo faccia a faccia televisivo a meno quattro giorni dal voto, ne appare consapevole. Marine ha attaccato subito e con aggressività il suo rivale, senza mai mollare nel suo tentativo di scontro frontale e di delegittimazione. Se il dibattito fosse sfociato in rissa verbale, in muro contro muro, in lite da cortile, i due candidati sarebbero potuti apparire in qualche modo sullo stesso piano, due avversari alla pari. Ma così non è stato: Emmanuel Macron ha saputo mantenere una distanza e una alterità che il pubblico ha certamente – almeno questa è la nostra impressione – percepito.
D’altronde, il passaggio di Marine Le Pen al secondo turno nasconde in realtà un fallimento. Il Front National puntava a essere l’unica forza “anti-sistema” e contro la “vecchia politica” in Francia, monopolizzando l’opposizione e il malcontento così diffuso nel paese.
Non è andata così: da un lato, la candidatura di Macron ha portato al voto molti elettori moderati, non entusiasti dei candidati ufficiali del centrodestra (François Fillon) e del centrosinistra (Benoît Hamon). Dall’altro, soprattutto, il grande successo di Jean-Luc Mélenchon ha impedito alla Le Pen l’affermazione sperata. Il 21,3% di Marine, cioè un aumento del 3,4 e circa un milione di voti in più rispetto al 2012, sfigura relativamente davanti al 19,6 di Mélenchon: il candidato della sinistra radicale è cresciuto dell’8,5 dalle elezioni di cinque anni fa, ottenendo oltre tre milioni di voti in più. Non si tratta di elettori strappati al Front National: i frontisti ormai compongono un blocco elettorale solido e rigido: chi ha votato Marine Le Pen era sicuro della sua scelta già da mesi. La campagna di Mélenchon ha invece riportato al voto delusi e astensionisti, che hanno diminuito il peso relativo del Front National in alcuni gruppi sociali: Mélenchon è stato il più votato nella fascia tra i 18 e i 24 anni, tra i disoccupati, e nelle periferie disagiate delle grandi città. Marine Le Pen resta la preferita dagli operai e dalle famiglie monoreddito, ma con uno scivolamento lontano dai centri urbani e verso le classi di età medio-alte.
La Le Pen ha mancato l’approccio alle fasce più affluenti del Paese, che hanno scelto Macron. Ma ha fallito al primo turno (un risultato migliore del 24% di Macron era effettivamente a portata di mano) perché l’elettorato cittadino l’ha rifiutata. L’umiliante 4,99% raccolto a Parigi lo certifica, ma anche a Lione, Nantes, Tolosa, Strasburgo la musica non è cambiata. Tutto ciò non significa che il Front National è morto. Tutt’altro: la mappa del disagio e dell’esclusione economico-sociale in Francia tuttora coincide quasi alla perfezione con quella delle province in cui Marine Le Pen è stata più votata.
Ciò pone in realtà un vero problema a Emmanuel Macron, cioè un problema di rappresentatività e legittimità che non potrà essere cancellato da un buon risultato domenica (un 65-70% sarebbe oltre le aspettative). Il primo turno ci ha mostrato una Francia che ha votato divisa in quattro blocchi quasi equivalenti per numero: otto milioni di elettori abbondanti per Macron, e tra i sette e gli otto per Le Pen, Fillon, Mélenchon. Perciò, la differenza di consenso tra gli esclusi e gli inclusi nel ballottaggio è molto piccola. In più, il consenso di Macron è tutt’altro che trasversale. Geograficamente, si dirada all’avvicinarsi al Nord Est e al Sud Est del Paese, vaste regioni dove Marine Le Pen potrebbe essere la candidata più votata al ballottaggio. E socialmente prevale nelle classi sociali agiate, tra i laureati, tra i dirigenti e i quadri, tra i professionisti, e come detto nelle città e nelle loro zone più centrali; all’allontanarsi da queste categorie, scompare sempre più.
Inoltre, la classe dirigente di Macron, l’ossatura del suo movimento En Marche!, è estranea ai partiti come voleva l’elettorato, così tanto però da essere fatta quasi esclusivamente da amici di famiglia ai livelli più alti della società francese e dalle conoscenze dirette accumulate dal candidato negli anni spesi nelle università d’élite, nelle banche d’affari, nell’ispettorato della finanza. L’entourage di Macron comprende alcuni professionisti che hanno lavorato con Dominique Strauss-Kahn – direttore del Fondo Monetario Internazionale fino al 2011 quando un’accusa di molestie sessuali gli impedì di concorrere per le primarie socialiste poi vinte da François Hollande. Ma soprattutto si basa su fidati e fedelissimi coetanei e conoscenti intimi, che occupano posti chiave nell’organizzazione politica e nella redazione del programma economico Transformation, cuore della narrazione di Macron.
Non solo: dopo il voto Macron avrà bisogno di una maggioranza parlamentare da far eleggere alle Legislative di giugno, senza la quale non avrebbe un governo per applicare il suo programma. Ovviamente, socialisti e repubblicani – oltre ai centristi di François Bayrou, l’unico sostenitore ufficiale riconosciuto tra i politici di peso – vorrebbero esservi inclusi, per conservare il loro seggio all’Assemblea. Seggio che i magri risultati dei loro rispettivi partiti non garantiscono più. Macron, in cambio della candidatura, chiede l’abiura definitiva al partito di provenienza: addio al Parti Socialiste o a Les Républicains, e adesione a En Marche! come un militante qualsiasi. Ma le correnti socialiste e repubblicane che dovrebbero fare il salto, e specialmente Manuel Valls, l’ex primo ministro che controlla la truppa parlamentare socialista più grossa, non sono disposti ad annullarsi per Macron. Anche perché ancora è ignota l’identità del futuro primo ministro, in caso di vittoria.
Comunque finisca la trattativa, il rischio è che questa “grande coalizione” di Macron si sfaldi o torni a dividersi sotto le vecchie bandiere molto velocemente: sarebbe abbastanza grave, per un Presidente che ha promesso di far passare la sua Transformation a colpi di decreto. La riforma del diritto del lavoro che vi è contenuta prevede un certo numero di facilitazioni alle imprese, l’annullamento di molte prerogative sindacali in favore di una contrattazione decentrata, e l’abolizione di varie garanzie legali per i lavoratori dipendenti – con l’obiettivo di “scardinare le rigidità del mercato del lavoro francese”. Provvedimenti che in passato hanno già scatenato più volte proteste dure e prolungate.
Sarà un’operazione molto delicata: da qui nasce il dilemma morale di molti elettori che pur volendo opporsi a Marine Le Pen non condividono le proposte di Emmanuel Macron e sono consapevoli che una larga vittoria del candidato di En Marche! sarà invece presa a pretesto per metterle subito in pratica. Sarà una prova immediata e già decisiva per la nuova presidenza, e per il suo rapporto con una Francia per il momento ancora divisa e scontenta.