In questi ultimi mesi abbiamo sentito spesso ribadire l’eccezionalità della situazione e ripetere il mantra che, in fondo, una pandemia non se l’aspettava nessuno, che ci ha colti tutti di sorpresa. Non serve a niente sottolineare che vari scienziati se l’aspettavano eccome, studiando l’andamento delle malattie emergenti di origine zoonotica. Proprio per questo motivo, già nel 2005 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha sviluppato delle linee guida per prepararsi a una possibile pandemia, seguite nel 2011 dal PIP (Pandemic Influenza Preparedness), e ancora nel 2018 dal ‘Global Influenza Programme’.
Nonostante ciò, il mondo intero si è fatto trovare impreparato. Sostengo qui che l’impreparazione organizzativa e tecnica ha alla sua radice un’impreparazione culturale. L’incapacità di comprensione ha una doppia radice: c’è un’incapacità ad immaginare noi stessi, esseri umani, all’alba del ventunesimo secolo, come una specie fragile e vulnerabile; e c’è l’incapacità di immaginarci come una comunità.
L’accusa che in Italia spesso si sente rivolgere ai governanti è che non si sia data la giusta importanza ai piani pandemici e agli avvertimenti da parte dell’OMS. Le indicazioni dell’OMS sono state recepite dall’Italia attraverso lo sviluppo del ‘Piano nazionale di preparazione e risposta per una pandemia influenzale’ gestito dal Centro Nazionale per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (CCM). Ma è ormai cosa nota che il piano non è stato aggiornato costantemente, come richiesto dall’OMS. L’ultimo aggiornamento effettuato dal comitato ‘Influenza e pandemia influenzale’ del CCM risale infatti al 2010. Ma altri Paesi, come gli Stati Uniti per esempio, hanno investito tempo, energie e soldi in quella che viene definita ‘preparedness’, ovvero la preparazione ad un evento pandemico. E Barack Obama, da Presidente, aveva parlato chiaramente del pericolo di una pandemia almeno a partire da dicembre 2014. Eppure, anche questi Paesi si sono fatti trovare impreparati e lenti nel riconoscere la portata della pandemia.
Nel 2017, un antropologo statunitense, Andrew Lakoff, ha pubblicato un libro intitolato ‘Unprepared’. Lakoff in quel libro denunciava il fatto che nonostante esistesse fin dagli anni ’90 – da George Bush fino a Barack Obama – un’attenzione particolare alla ‘prepardeness’ e un piano nazionale valutato come uno dei migliori al mondo dal ‘Preparedness Index for Health Emergencies and Disasters’, questo in realtà non era un piano robusto in caso di pandemia perché si basava meramente sulla pianificazione di procedure tecniche, logistiche e biomediche.. In tempi di pandemia, affermava tre anni fa Lakoff, quello che serve è soprattutto un clima di fiducia sociale e un sistema sanitario basato sulla medicina territoriale e di prevenzione.
Oltre a quello citato, sono piene le biblioteche di libri scritti da antropologi che evidenziano da anni l’importanza di questi fattori per la creazione e mantenimento di una società in salute, secondo il principio per cui la salute – come l’istruzione – non può essere affare solo di pochi o affidata unicamente a soluzioni tecnologiche. Queste affermazioni vanno ben oltre una posizione politica o ideologica: riguardano la natura stessa della salute umana.
La medicina non si basa mai sull’analisi di stati individuali di malattia ma sullo studio della salute collettiva. Anche nella medicina personalizzata, l’analisi molto precisa del singolo caso si rende possibile solo a partire dalla collezione di un’enorme quantità di dati medici che deriva da un ampio numero di campioni. Inoltre, le relazioni di cura si configurano sempre come pratiche collettive e dinamiche che prevedono una continua interazione tra elementi eterogenei quali il personale sanitario, i pazienti, i loro cari, i dispositivi tecnologici e terapeutici, le conoscenze mediche, le policy di salute pubblica. E tutti questi fattori sono influenzati dalle decisioni e dalle priorità politiche.
Le soluzioni tecnologiche (come una app) o emergenziali (come la terapia intensiva) oscurano il fatto che la loro efficacia va ben oltre questi interventi: per essere effettive ci deve essere un processo a monte e a posteriori che collega i corpi, le persone, la tecnologia e tutte le altre variabili. Una app da sola non può contenere l’epidemia: serve una squadra di tracciatori che colleghi i dati della app con la vita reale delle persone. Non solo la vita reale è complessa e non del tutto prevedibile ma anche la stessa biologia dei corpi lo è. Quindi la sanità non può basarsi su interventi specifici, acuti o emergenziali ma deve essere pianificata come un processo territoriale e preventivo – ordinario oltre che straordinario. E ciò è tanto più importante per contenere e gestire una pandemia come quella attuale in cui la condizione di salute di base è considerata un fattore cruciale nell’evoluzione della malattia. Il virus, in sé stesso, è inerte: è un mero segnale genetico. È la risposta che i nostri corpi danno nell’incontro col virus che determina le sue caratteristiche.
In tempi di pandemia la medicina comunitaria ha anche il vantaggio di mantenere integra la fiducia sociale e le reti territoriali che rendono efficaci le misure di contenimento. In assenza di ciò, può anche esistere una strategia di preparazione, dei protocolli e dei dispositivi tecnici e tecnologici, ma esisterà sempre uno scarto tra il piano e la sua effettiva applicazione. Prepararsi ad una pandemia, in altri termini, non può essere ridotto a un intervento logistico, allo sviluppo di ‘scenari’ possibili e relative contromisure tecniche o alla produzione o accumulazione d terapie e vaccini. Questi sono tutti elementi estremamente importanti e potenzialmente utili, ma di poca efficacia da soli. Prepararsi a una pandemia significa quindi mettere in moto un processo culturale e socio-politico di lungo termine.
Cosa significa, nel 2020, immaginare un processo socio-culturale di preparazione? Significa unire l’immaginazione tecnica all’immaginazione sociale.
Negli ultimi anni, lo spazio immaginativo delle scienze sociali è stato perlopiù lasciato deserto e colonizzato da standard razionalistici di eccellenza, efficienza ed efficacia. Questi parametri allo stato attuale dettano il linguaggio e l’orizzonte delle pratiche e strategie sanitarie, ma appaiono vuoti alla luce delle complessità poste dalle situazioni di malattia e di cura. L’immaginazione non è qualcosa di astratto e lontano dalla realtà, non sono pensieri che fluttuano nell’etere.
La capacità di immaginare è ciò che ha determinato il successo evolutivo della specie Homo Sapiens rispetto ad altre specie animali perché permette di rendere possibile, reale e tangibile delle potenzialità. Il fallimento della risposta globale alla pandemia sembra ora indicarci il fatto che la nostra immaginazione deve necessariamente ampliarsi.