L’uranio del Niger: opportunità e maledizione

“Dopo cinquant’anni di sfruttamento, non abbiamo ancora capito se l’uranio sia una benedizione o una maledizione per il Niger”. A esprimere quello che negli ultimi anni è diventato un mantra per la popolazione nigerina è Almoustapha Alhacen, presidente di Aghir Inman, associazione locale che dal 2001 si batte per la trasparenza e un’equa ridistribuzione dei proventi dell’industria estrattiva nel paese. La domanda però suona retorica: “Sono convinto che possedere tale ricchezza nel sottosuolo sia la nostra più grande disgrazia” sostiene il Premio Nuclear Free Future 2017, riconoscimento internazionale legato all’International Campaign to Abolish Nuclear weapons (ICAN), Premio Nobel per la Pace 2017.

Il Niger, paese del Sahel che nello scorso decennio ha sempre occupato gli ultimi posti dello Human Development Index (188° su 188 paesi fino al 2016, anno in cui ha ceduto il record negativo alla Repubblica Centrafricana), è il quarto produttore di uranio al mondo. Capofila delle società straniere che estraggono il prezioso minerale è Areva, leader mondiale dell’energia nucleare civile controllata all’80% dallo stato francese, ex-madrepatria coloniale di quasi tutta l’Africa occidentale. Fin dai primi anni Settanta, Areva ha goduto di concessioni pluridecennali che le hanno valso un sostanziale monopolio sul principale prodotto d’esportazione nigerino. Un bene su cui, negli ultimi anni, diverse altre potenze mondiali come Cina, Corea del Sud, Canada, Brasile, India, Australia e Spagna stanno cominciando ad allungare le mani.

Le scorie della miniera di uranio di Arlit, in Niger

 

Pur facendo gola a molti, l’uranio è soggetto a straordinarie oscillazioni di prezzo sui mercati mondiali, legate all’altalenante destino dell’energia nucleare. Nei primi anni Duemila il corso dell’uranio è salito alle stelle a seguito di un’ondata di fiducia internazionale verso il nucleare, mentre si è fortemente contratto dopo il disastro di Fukushima del 2011. Se si guarda a quanto successo in Niger in questi due periodi ci si accorge di quanto la politica interna sia determinata dall’industria estrattiva.

Vent’anni fa l’aumento improvviso dei guadagni legati allo sfruttamento dell’uranio ha riacceso le istanze indipendentiste dei tuareg nella regione settentrionale del paese, quella cioè in cui si trovano i giacimenti. L’effetto destabilizzante della ribellione nordista ha causato un colpo di stato militare che ha deposto l’ex presidente Mamadou Tandja, politico che aveva provato a rimettere in discussione il controllo francese sulla materia prima. Il suo successore Mahamdou Issoufou, salito al potere nel 2011 e tutt’ora in carica, si è dapprima appoggiato all’élite economica nazionale che gestisce insieme alle compagnie francesi l’industria estrattiva, per poi rivolgersi verso la classe mercantile (e trafficante) del paese. Il crollo del prezzo dell’uranio, infatti, ha indebolito le alleanze interne al governo costringendo Issoufou a un disperato tentativo di diversificazione economica e politica. Secondo molti analisti tali cambiamenti stanno estenuando il Niger, che resta contratto fra poteri economici locali e internazionali da cui è difficile emanciparsi. Guardare alla recenti ridefinizioni interne aiuta a comprendere il profondo rischio di un’esclusiva dipendenza da un’unica risorsa naturale tanto volatile.

Nella zona settentrionale semidesertica del Niger, dove il metallo radioattivo è stato scoperto dai francesi nel 1957, sono dislocati quattro siti d’estrazione. Nei pressi di Arlit e Akokan, cittadine della regione nordorientale di Agadez, due delle più grandi miniere d’uranio al mondo da sole garantiscono oltre il 30% del fabbisogno delle centrali nucleari francesi. Gestiti rispettivamente da SOMAIR (Societé minière de l’Aïr, controllata al 63.6% da Areva e al 36.4% dall’Ufficio nazionale delle risorse minerarie del Niger, l’ONAREM, attraverso la SOPAMIN, compagnia mineraria nazionale) e da COMINAK (Compagnie Minière d’Akouta posseduta per il 34% da Areva, il 31% dal Niger, il 25% dalla giapponese Overseas Uranium Resources Development Co. e il 10% dalla spagnola Enusa SA), questi siti nel 2014 sono stati al centro di aspri negoziati fra il governo del Niger e Areva. Dopo mesi di discussioni e pressioni, il 26 maggio 2014 l’azienda francese, i cui permessi erano scaduti a fine 2013, è riuscita a strappare un accordo di sfruttamento dell’uranio per altri cinque anni.

Tale contrattazione, tenuta in parte segreta, è stata criticata dalla società civile nigerina che non smette di denunciare i gravi danni ambientali e sanitari subiti dagli abitanti della regione di Agadez insieme agli scarsi benefici ottenuti dal paese. “Lo sfruttamento dell’uranio illumina una lampadina su tre in Francia, mentre in Niger oltre l’80% della popolazione non ha accesso alla corrente elettrica” è uno degli argomenti più utilizzati dalle organizzazioni che si battono per i diritti delle popolazioni del nord.

Alle due “storiche” miniere di Arlit e Akokan se ne aggiungono altre due, di più recente costruzione ma sostanzialmente improduttive: quella di Imouraren (su cui le intenzioni di Areva, che ne detiene il controllo, restano da anni poco chiare), e il sito di Azelik, concessione ottenuta nel 2007 dalla joint venture SOMINA, società a maggioranza cinese (con un 33% destinato al governo nigerino e una parte più esigua alla Corea), che ha scalfito il monopolio francese nel settore. La miniera di Azelik è diventata produttiva alla fine del 2010, ma è stata ufficialmente chiusa qualche mese fa “per ristrutturazione” in attesa di sviluppi più positivi del prezzo mondiale dell’uranio.

Il contenzioso del 2014 fra Niamey e Parigi verteva soprattutto sull’applicazione del codice minerario nigerino del 2006 (fino ad ora Areva seguiva le condizioni di una legge del 1993) e l’aumento delle tasse da versare al Tesoro pubblico dal precedente 5,5% al 12% “potenziale”, cioè dipendente dalla produzione effettiva. Nonostante la promessa di Areva (solo in parte mantenuta) di contribuire con 90 milioni di euro alla manutenzione della cosiddetta “strada dell’uranio”, quella che collega la città di Tahoua ad Arlit, le autorità locali della regione di Agadez continuano a lamentare il versamento di scarsi dividendi dello sfruttamento del minerale a beneficio delle popolazioni del nord. Il governo di Issoufou, sordo alle richieste locali, viene anche accusato dai suoi oppositori di appropriazione illecita di buona parte dei proventi dell’uranio destinati alle casse dello stato. Recenti rivelazioni pubblicate dal quotidiano nigerino Le Courrier hanno fatto emergere un versamento sospetto di 300 milioni di euro su un conto a Dubai che ha spinto la giustizia francese ad aprire un’inchiesta. Il cosiddetto “Uraniumgate”, insieme alla recente decisione presa dal governo nigerino di uscire dall’Iniziativa per la trasparenza delle industrie estrattive (ITIE), organizzazione internazionale che ad ottobre aveva sanzionato il Paese, rischiano di essere pericolosi in un clima politico già surriscaldato e instabile.

Il caso dell’”oro nero del Niger” appare oggi come uno degli esempi più lampanti dell’attitudine neocoloniale delle potenze occidentali che, grazie alla connivenza di corrotti governi locali, impoverisce paesi ricchi di risorse naturali. I giacimenti di uranio, petrolio, gas naturale, oro, diamanti e altri metalli preziosi, se fossero gestiti meglio dalla classe politica africana, potrebbero rappresentare la base economica per un reale e più equo sviluppo del continente.

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