Dov’è la UE? La domanda ricorre con una certa stucchevole regolarità nel dibattito italiano e si ripropone prepotentemente anche in questi giorni, di fronte all’emergenza COVID-19. La risposta è abbastanza semplice: la UE sta dove l’hanno messa gli Stati membri.
In virtù del cosiddetto “principio di attribuzione” l’Unione dispone soltanto delle competenze che le vengono assegnate dai Trattati. E la gestione di un’emergenza sanitaria non rientra fra queste. Non solo. L’articolo 36 autorizza gli Stati membri ad introdurre “divieti o restrizioni all’esportazione e al transito” per motivi di “tutela della salute e della vita delle persone e degli animali…”. Di fronte a un rischio pandemico, quindi, i Governi potrebbero teoricamente riprendersi tutti gli spazi, mettendo l’Unione stessa “in quarantena”.
Ciò che dovrebbe sorprendere positivamente, semmai, e che non abbiano ceduto a questa tentazione. Con tutte le difficoltà del caso, i Capi di Stato e di Governo e i Ministri UE stanno utilizzando lo strumento delle videoconferenze per promuovere un minimo di coordinamento a livello europeo. Scambiano informazioni sull’andamento dell’epidemia, cercano di mettere a sistema gli sforzi di ricerca, attivano i meccanismi di protezione civile UE, lanciano delle procedure di appalto comuni, collaborano per assicurare il rimpatrio dei cittadini UE, etc.
Fra le altre cose, la tenuta di questo quadro comune sta scongiurando, almeno per il momento, il rischio di una escalation di iniziative unilaterali che peggiorerebbe ulteriormente la situazione. Facendo leva sulla seconda parte del citato art. 36 (secondo cui le misure emergenziali “non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati”) la Commissione Europea ha infatti preteso e ottenuto che i controlli e le restrizioni alle frontiere degli Stati membri si ispirino a criteri di razionalità e proporzionalità, allontanando il rischio di un tracollo del mercato unico. In questo caso come in altri, quindi, la UE serve quantomeno a limitare le esternalità negative generate dagli egoismi nazionali.
La vera domanda quindi non è tanto “dov’è la UE” ma “dove saremmo noi se non ci fosse la UE”. E la risposta sarebbe altrettanto semplice: saremmo tutti sigillati all’interno dei confini nazionali e alle prese “chacun pour soi” con le conseguenze del virus.
Un’analisi a parte merita la gestione delle ricadute economiche dell’epidemia. Senza dubbio, visto con le lenti della “scienza triste”, il COVID-19 rappresenta un terribile shock esogeno. E qui il quesito su dove sia e cosa stia facendo la UE merita una risposta più articolata.
Cominciamo col dire che i vertici delle istituzioni comunitarie hanno mandato negli ultimi giorni i messaggi giusti. I Presidenti von der Leyen e Michel, in particolare, hanno lanciato la loro personalissima versione del “whatever it takes” con cui a suo tempo Mario Draghi – a capo della BCE – aveva salvato l’Eurozona: hanno dichiarato infatti che l’Unione farà tutto il necessario per arginare gli effetti devastanti dell’epidemia sul tessuto economico e sociale europeo. Nel far ciò hanno contribuito, se non altro, a rassicurante i mercati.
Al tempo stesso, le istituzioni europee hanno scelto l’opzione più saggia a loro disposizione in questo frangente: dare carta bianca agli Stati membri affinché possano utilizzare appieno le risorse a loro disposizione. E’ questo il senso della sospensione del patto di stabilità decisa dall’ECOFIN il 23 marzo ed e’ questo il senso delle deroghe in materia di aiuti di Stato annunciate dalla Commissione. Senza dimenticare che, parallelamente, la Banca Centrale Europea ha lanciato un ambizioso programma di acquisti di titoli pubblici (“Pandemic Emergency Purchase Programme” – PEPP) per preservare la stabilità del sistema.
Si sarebbe potuto fare di piu’? Certo, l’Unione sarebbe potuta intervenire direttamente, iniettando risorse finanziarie fresche per sostenere gli sforzi degli Stati membri ed alleviare l’impatto della crisi, come ha fatto Trump imbracciando un boazooka di duemila miliardi.
Ma qui subentrano i limiti della costruzione europea cui abbiamo gia’ accennato: l’UE non crea i suoi strumenti; può fare soltanto ciò che gli Stati membri le consentono di fare. Il bilancio dell’Unione è ridotto – molto più piccolo di quello di qualsiasi autorità federale – e per giunta molto “rigido”: il “Corona response investment initiative” creato con risorse europee non poteva quindi che essere un “repackaging” di fondi gia’ esistenti. Soprattutto, l’Unione non dispone né del mandato né degli strumenti per intervenire sul ciclo economico. Una lacuna congenita, che molti considerano il vero peccato originario dell’Eurozona e che in questo frangente non le consente di fare molto di più.
E arriviamo quindi alla domanda cruciale: “cosa succederà dopo?”. La risposta, in questo caso, è molto meno scontata.
E’ difficile pensare che l’economia europea possa risollevarsi senza uno scatto di reni. Ci troviamo di fronte a un vero e proprio “Marshall moment”. Circostanze straordinarie che richiederebbero strumenti straordinari.
Anche per questo l’Italia, con il sostegno degli Stati membri “like minded”, ha lanciato il dibattito sulla creazione di uno strumento di debito comune per finanziare sui mercati le spese sostenute dagli Stati membri nel fronteggiare la crisi.
Su questi e su altri temi connessi, la Commissione Europea si è mostrata finora molto ricettiva, smentendo nei fatti la narrativa secondo cui la radice di tutti i mali sarebbe l’eurocrazia. Le resistenza vengono da alcune Capitali. In parte a causa delle diverse percezioni sulla reale gravità del problema, in parte per egoismi nazionali che l’Unione Economica e Monetaria non basta a metabolizzare, in parte perché certe radicate convinzioni sul funzionamento della moneta unica sono dure a morire. Evidentemente, qualcuno ritiene che, passato questo “grosso raffreddore”, l’Eurozona possa ritornare al “business as usual” con i suoi parametri, le sue procedure, le sue “traiettorie di rientro” e poco altro. L’impressione, però, è che ragionando in questo modo si sottovalutino gravemente i rischi cui stiamo andando incontro. E, in tempi di crisi, la miopia può essere un nemico persino peggiore del contagio.