L’Ucraina e il suo nuovo presidente alla ricerca di stabilità

Il nuovo presidente ucraino, Petro Poroshenko, non rappresenta certo un volto nuovo, nonostante il sangue versato dai cittadini nella speranza d’imprimere una decisa svolta politica. Cofondatore, insieme al presidente uscente, di quello che sarebbe divenuto il Partito delle Regioni, nel 2000 abbandonò la propria creatura per poi schierarsi al fianco Viktor Yushchenko durante la Rivoluzione arancione. Acerrimo rivale di Yulia Tymoshenko, che fu nominata premier al suo posto, non disdegnò il ruolo di ministro degli Esteri proprio all’interno del governo da lei presieduto. Dopo aver cambiato nuovamente casacca, ottenne la guida del ministero dei Trasporti e dello Sviluppo economico dell’esecutivo di Mykola Azarov. E quando le cose hanno cominciato a volgere al peggio per il clan Yanukovich, ha pensato bene di sostenere – seppur da una posizione defilata – le proteste di Maidan.

Stando alle ultime proiezioni, Poroshenko avrebbe ottenuto il 54% dei consensi, evitando così il ballottaggio. La Tymoshenko, ex pasionaria della Rivoluzione arancione distintasi per un atteggiamento ben poco diplomatico, si sarebbe fermata al 13,2%. I candidati delle formazioni di estrema destra Svoboda e Pravy Sektor, che tanto hanno fatto parlare di sé, non avrebbero superato l’1,2 e lo 0,7% rispettivamente. Privo di un leader e abbandonato da gran parte dei propri membri di rilievo, il Partito delle Regioni è praticamente evaporato, pur avendo presentato un candidato. Stessa sorte per il Partito comunista, unica formazione rimasta a difendere gli interessi dei filorussi. Il suo segretario Petro Symonenko si è ritirato dalla competizione a pochi giorni dal voto, visto il dilagare della violenza nei confronti degli esponenti del suo partito e la non troppo remota ipotesi di messa al bando dello stesso. L’ex pugile Vitali Klitschko, che avrebbe potuto insidiare il primato di Poroshenko, anche grazie al pesante endorsement di Angela Merkel, ha anch’egli abbandonato la corsa per candidarsi – con successo – a sindaco di Kiev. Non prima di aver garantito il proprio sostegno all’attuale presidente.

In linea teorica, difficilmente i numeri potrebbero essere più favorevoli alla pacificazione del Paese. La sconfitta dei nazionalisti radicali tranquillizza i filorussi; l’assenza dei comunisti impedisce che sia messa in dubbio la compattezza dei cittadini attorno al progetto d’integrazione europea; e la vittoria al primo turno evita un ballottaggio che avrebbe potuto generare ulteriori tensioni. Ma soprattutto, la scomparsa del Partito delle Regioni rende difficile l’individuazione dei personaggi compromessi con l’amministrazione uscente, responsabili del dissanguamento delle casse statali.

Lo spoglio procede con estrema lentezza e pochi dati sono stati resi noti all’opinione pubblica;  la stampa estera sembra però non curarsene più di tanto, complice il contemporaneo svolgimento delle elezioni del Parlamento di Strasburgo, che ha catalizzato l’attenzione dei cittadini europei. Non si è neppure assistito alla consueta sequela di giudizi sulla regolarità o meno delle procedure di voto da parte degli osservatori internazionali.

Dopo il rilascio dei primi exit poll, Poroshenko si è dichiarato vincitore e ha pronunciato un discorso programmatico alternando russo, ucraino e – per la prima volta – inglese. A parte le prevedibili affermazioni secondo cui l’Ucraina ha dimostrato grande unità e partecipazione, il presidente in pectore ha illustrato la sua futura linea politica. In primo luogo, ha ribadito che non riconoscerà mai l’“occupazione russa della Crimea”: una necessaria concessione ai nazionalisti, benché sia chiaro che Kiev non possiede i mezzi per riportare la Penisola sotto il proprio controllo. In secondo luogo, differenziandosi dalla Tymoshenko, ha precisato che non chiederà l’inclusione del Paese nella NATO in quanto tale proposito si è rivelato estremamente controverso e fonte di divisioni interne. Inoltre, ha annunciato che il suo primo viaggio come capo dello Stato si svolgerà nel Donbass, attualmente controllato dai separatisti. Subito sono arrivate le congratulazioni di Barack Obama e di Angela Merkel, mentre il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, ha dichiarato di voler “trattare con rispetto” il risultato delle elezioni – una formula ambigua che tenta di smorzare la tensione senza tuttavia sbilanciarsi eccessivamente – e si è detto pronto a riattivare il dialogo con Kiev.

L’ex Repubblica sovietica sembra dunque avviata verso la normalizzazione. Una normalizzazione all’insegna della continuità: pur essendo scesi in piazza nell’intento di sbarazzarsi di personaggi come Poroshenko, gli ucraini si sono visti costretti a sostenerlo, avendo compreso che ogni tentativo di svolta in senso nazionalista, o nettamente atlantista, avrebbe portato il Paese al collasso. Ora la priorità è quella di preservarne l’unità, recuperando una regione – il Donbass – economicamente fondamentale. Mosca, che si è garantita il controllo della Crimea e della base militare di Sebastopoli, non sembra intenzionata a imbarcarsi in un conflitto a sostegno dei separatisti orientali. Lo dimostra il fatto che non è intervenuta nel processo elettorale per promuovere un candidato apertamente filorusso (del resto Poroshenko rappresentava la migliore opzione anche per il Cremlino), né ha lamentato il mancato insediamento di seggi elettorali nei distretti di Donetsk e Lugansk, cosa che ha chiaramente favorito i filoccidentali. Vladimir Putin spera forse di ottenere l’avallo del nuovo presidente alla proposta di federalizzazione del Paese, anche se questi si è già detto contrario. Tuttavia, la rinuncia all’ingresso nella NATO rappresenta già un’importante vittoria per la Russia.

Sul fronte occidentale, la rinuncia di Klitschko ha rappresentato un duro colpo per l’Europa a guida tedesca – la Germania è il Paese maggiormente interessato a quest’area del continente – ma la vittoria di Poroshenko potrebbe rivelarsi altrettanto vantaggiosa, giacché garantirà il prosieguo del processo d’integrazione europea evitando i contrasti con la Federazione Russa provocati finora dai nazionalisti radicali. Egli si è infatti detto pronto a negoziare il capitolo economico dell’Accordo di associazione (la parte politica è stata già sottoscritta il 21 marzo). Per Washington, che avrebbe preferito un’affermazione della Tymoshenko e ha assunto un atteggiamento più intransigente rispetto a Bruxelles, il risultato rappresenta invece un arretramento.

Ora che la “transizione rivoluzionaria” si è conclusa, i media internazionali dedicheranno meno spazio agli eventi ucraini. Poroshenko ne approfitterà per ristabilire l’ordine, alternando il dialogo – di cui la promessa di visitare al più presto il Donbass è un primo esempio – alle azioni militari – già lunedì è iniziata un’operazione su vasta scala per riprendere il controllo dell’aeroporto di Donetsk. È chiaro che, nonostante le dichiarazioni rilasciate nel suo primo discorso, egli non rappresenta l’intera nazione. In Galizia l’affluenza ha superato l’80%, ma nei distretti centrali ha oscillato tra il 70 e il 50, mentre nell’est e nella regione di Odessa meno della metà della popolazione si è recata alle urne. Al momento la Russia sembra disposta a lasciare che Kiev gestisca autonomamente la situazione. Se l’Occidente farà altrettanto, rinunciando in particolare a promuovere l’ingresso del Paese nell’Alleanza atlantica, la tensione diminuirà gradualmente. In caso contrario, il Cremlino potrebbe decidere di battere i pugni sul tavolo, e allora lo smembramento dell’Ucraina diverrebbe una prospettiva reale.

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