C’è un dato che racconta molto bene la fisionomia politica di Bernie Sanders. Lo scorso 16 novembre un sondaggio Des Moines Register/CNN mostrava che il 53% dei probabili elettori delle primarie democratiche in Iowa ritiene il senatore Sanders “troppo liberal” – ossia, secondo la terminologia politica americana, troppo schierato a sinistra. Sanders è però anche il candidato che suscita l’entusiasmo più convinto dei suoi sostenitori. Il 57% tra questi dice che non potrebbe votare nessun altro.
In questi numeri c’è la forza ma anche il limite dell’uomo che nel 2016 lanciò la sfida a Hillary Clinton e che nel 2020 ci riprova, un po’ più anziano, un po’ più fragile (durante la campagna elettorale ha avuto un attacco cardiaco) ma deciso sempre e comunque a non tradire gli ideali del socialismo democratico che ne hanno nutrito la vita politica. Tra le proposte della sua campagna 2020, c’è il piano “Medicare For All”, l’assistenza sanitaria universale sull’esempio europeo del dopoguerra; e ancora la cancellazione del debito studentesco, la fine delle tasse universitarie e un “Green New Deal” del valore di 16,3 trilioni di dollari, che dovrebbe ricostruire l’economia americana facendola svoltare verso la transizione verde, contro i cambiamenti climatici.
Fedeltà alla propria storia politica e radicalità dell’approccio hanno per il momento pagato. Nell’ultimo trimestre 2019 il senatore del Vermont ha raccolto 34,5 milioni di dollari in donazioni: più di qualsiasi altro candidato democratico – e il suo record personale. Metropoli e cittadine d’America gli hanno sempre dato un benvenuto entusiasta. Il rally di Sanders a Venice Beach il 21 dicembre, insieme ad Alexandria Ocasio-Cortez, ha richiamato oltre 14 mila persone. Il messaggio lanciato dalla spiaggia californiana è stato ancora una volta quello di un radicale cambiamento di paradigma economico.
Se, in campagna elettorale, Joe Biden ha puntato sulla nostalgia per i valori della vecchia America ed Elizabeth Warren sul ritorno al predominio della legge violata da Donald Trump, sono proprio i temi del bread-and-butter, dell’economia e dell’eguaglianza sociale, quelli su cui Sanders ha insistito di più.
Eppure il rally di Venice Beach è stato pressoché ignorato dalla stampa – il “Los Angeles Times” non ne ha praticamente parlato; e nonostante i milioni raccolti e i sondaggi che danno Sanders in ottima posizione nei primi Stati che voteranno, il senatore non è riuscito a scrollarsi davvero di dosso l’immagine dell’outsider. Buona parte della copertura mediatica è andata in questi mesi a vantaggio prima di Elizabeth Warren, poi di Pete Buttigieg. Gli stessi rivali democratici sono stati insolitamente generosi nei confronti del senatore del Vermont, risparmiandogli critiche e bordate polemiche durante i dibattiti televisivi. Come se, appunto, nessuno creda davvero che Sanders ce la possa fare, che Sanders rappresenti un candidato capace di conquistare la nomination democratica.
Un po’ come già nel 2016, l’entusiasmo che il senatore è capace di suscitare non sembra tradursi in un’opzione possibile, realistica, nella battaglia per la presidenza. Il fatto è che Sanders offre alla politica democratica alcune aperture interessanti, soprattutto in chiave anti-Trump, senza però riuscire a liberarsi di alcuni handicap importanti.
Vediamo anzitutto i punti di forza. Sanders è il candidato che forse meglio di tutti (sì, meglio anche di Joe Biden) può contrastare Trump negli Stati della Rust Belt – quelli dove il sostegno al Presidente in carica dovrebbe essere tuttora più solido. I sondaggi danno Sanders stabilmente in cima alle preferenze in Michigan e Wisconsin. E nelle 206 contee che votarono Barack Obama nel 2008 e 2012 e che sono passate a Trump nel 2016 – buona parte di queste in Stati come il Minnesota, il Michigan, la Pennsylvania, il Wisconsin – ha raccolto cifre record: 81.841 donazioni da 33.185 donatori, più di Warren, Buttigieg e Biden messi insieme (dati Ballotpedia).
Ovviamente, donatori ed elettori non sono la stessa cosa. I primi agiscono sulla spinta dell’entusiasmo, i secondi scelgono sulla base di interessi e confronto tra i programmi. Ma un’indicazione, anche vaga, queste cifre la forniscono. E cioè che Sanders è il candidato che meglio di altri riesce a interpretare quell’“ansia economica” che nel 2016 ha portato larghi settori di classe operaia a votare per Trump. Il populismo economico del senatore del Vermont – quello che gli ha fatto spesso ricordare di venire da una famiglia di immigrati ebrei decimati dall’Olocausto, che vivevano senza un quattrino in un appartamento di Brooklyn con i divani letto in salotto – potrebbe essere il più capace di riportare al voto democratico i frammenti di working class industriale attratta quattro anni fa dalle promesse di Trump.
La storia personale del senatore è del resto lì, semplice e chiara: dalle leggi per difendere gli inquilini più poveri quand’era sindaco di Burlington alle battaglie per i diritti dei lavoratori al Congresso.
C’è poi un altro aspetto che sembrerebbe favorire Sanders rispetto agli altri Democratici. Lui stesso lo ha spiegato così: “Se vogliamo battere Trump, abbiamo bisogno di affluenza alle urne. E per avere l’affluenza, c’è bisogno di energia ed entusiasmo”. Nel 2016 Trump vinse anche perché milioni di elettori di Obama non tornarono a votare: il fenomeno ha influito in Stati decisivi come il Wisconsin, l’Ohio, e quel Michigan dove Trump vinse per alcune migliaia di voti. Come mostrato da un sondaggio di Morning Consult del 21 novembre, gli elettori di Obama che sono rimasti a casa nel 2016 vogliono sentir parlare di economia, di Medicare, di Social Security. Esattamente quei temi bread-and-butter che Sanders ha sinora privilegiato e che promettono di essere la vera sfida per riportare alle urne milioni di elettori delusi.
Tutto bene, quindi, per Bernie Sanders? Solo in parte. Perché gli elementi positivi della sua campagna – la riconoscibilità politica, l’entusiasmo dei supporter, l’efficienza della macchina organizzativa – non riescono a fugare alcune importanti riserve. Per esempio: Obama ha vinto, nel 2008 e poi ancora nel 2012, per la sua capacità di mettere insieme constituencies molto diverse: working class della Rust Belt appunto, e poi giovani, donne, neri, borghesia dei sobborghi. Se un democratico vuole ambire a tornare alla Casa Bianca nel 2020, deve riuscire a fare lo stesso. E Sanders, almeno per ora, non sembra esserne capace.
Intanto, il senatore del Vermont non appare particolarmente favorito nelle preferenze di voto dei neri: gli afro-americani rappresentano circa un quarto degli elettori delle primarie, senza il loro voto non si vince e al momento è Joe Biden ad attrarre più consensi nella comunità nera. E se Elizabeth Warren è il riferimento del voto femminile, la borghesia nei suburbs delle grandi città guarda con favore all’astro nascente di Pete Buttigieg.
A questo si aggiunge poi un’altra questione, che è da sempre la croce di Bernie Sanders: quella della electability, dell’eleggibilità. Il 53% degli elettori democratici – sempre secondo il sondaggio Des Moins/CNN – pensa che Sanders non sia il candidato giusto per battere Trump. E in un’elezione in cui la priorità di molti democratici sarà quella di sconfiggere l’odiato presidente, la percezione di eleggibilità è importantissima. E’ vero che l’eleggibilità è un concetto vago, che può voler dire tutto e niente e che può essere usato strumentalmente per far fuori candidati e idee sgradite. Ed è altrettanto vero che Sanders ha sempre mostrato di essere capace di farsi eleggere, prima come sindaco di Burlington e poi come senatore del Vermont. Ciò non toglie però che la sua presa sulla macchina organizzativa democratica resti praticamente nulla; che il Partito Democratico continui a considerarlo una sorta di corpo estraneo; che l’entusiasmo della sua base elettorale non si sia tradotto sinora in una narrazione egemonica, capace di imporsi sui media e di convincere la maggioranza degli elettori democratici della sua possibilità di diventare presidente.
Saranno i primi appuntamenti delle primarie a decidere del destino di Sanders. Se Iowa e New Hampshire dovessero dargli la maggioranza, la sua candidatura potrebbe improvvisamente decollare. In caso contrario, a 78 anni, Sanders tornerà in Senato a rappresentare da solo i socialisti d’America.
Perennemente sospeso tra radicalismo e pragmatismo, tra purezza degli ideali e necessità della politica, tra le mediazioni di Washington e il calore e la fatica delle strade d’America, Bernie Sanders una soddisfazione se l’è comunque presa. I suoi temi sono diventati i temi del Partito Democratico. Le sue posizioni – sanità per tutti, cancellazione del debito degli studenti, aumento delle tasse per i più ricchi – sono quelle su cui ogni Democratico che aspiri a una carica deve confrontarsi. E questa, forse, è già una vittoria.