Come sarà il mondo dopo la pandemia? Negli ultimi mesi, la pandemia ha intensificato il dibattito sul futuro dell’ordine internazionale, risvegliando – come ha scritto il politologo John Ikenberry – tutti i campi del ‘Western grand strategy debate’. Analisti e studiosi hanno indicato tra i possibili scenari la fine della globalizzazione e dell’egemonia americana, ripiegamenti nazionalisti e il ritorno degli stati, ma anche l’inizio di un ordine guidato dalla Cina o di un nuovo internazionalismo. Pur se da diverse prospettive, in molti hanno sostenuto che la pandemia produrrà un mondo radicalmente diverso dall’attuale, segnato dalla crisi definitiva del ‘rules-based international order’ e dal rischio di un ritorno alla conflittualità e all’assenza di leadership globale che hanno contraddistinto il periodo tra le due guerre mondiali.
Questi dibattiti, tuttavia, sono spesso caratterizzati da un approccio ‘presentista’ alla politica internazionale. Tale prospettiva induce a identificare globalizzazione e multilateralismo con l’ordine liberale internazionale nato negli anni ‘90, a stabilire una perfetta sovrapposizione tra quest’ultimo e l’ordine globale nato nel 1945 e ad elaborare una lettura schematica degli eventi storici, secondo la quale a fasi di interazione e cooperazione globale seguono periodi di conflittualità, ripiegamenti nazionalisti e rivalità imperiali tra grandi potenze. Tutto ciò accompagnato dalla formulazione di paralleli spesso spregiudicati (ma frequenti dopo il 2008) tra la crisi dell’ordine liberale e gli anni ’30 del Novecento.
L’adozione di una prospettiva storica, al contrario, suggerisce che la pandemia difficilmente produrrà un ordine mondiale radicalmente diverso dall’attuale, ma intensificherà sul lungo periodo dinamiche già in atto nella politica internazionale. Due epoche storiche di trasformazione degli ordini globali, l’età napoleonica e la prima guerra mondiale – che segnano il periodo che va dall’affermazione globale degli imperi europei fino al loro declino – mostrano come periodi di crisi, rivoluzioni e conflitti globali possano accelerare non solo l’emergere di potenze egemoni, ma soprattutto la maturazione di nuove concezioni degli spazi politici e degli ordini territoriali che sono il frutto tanto della convergenza di interessi materiali quanto dell’evoluzione di paradigmi culturali.
Al di là dell’assetto territoriale europeo, le guerre napoleoniche (1799-1815) producono un’evoluzione degli equilibri geopolitici globali che accelera processi di crisi e ricostruzione imperiale. Mentre il mondo borbonico spagnolo cade in una crisi di sovranità e legittimità, che condurrà all’indipendenza dei territori dell’America Latina durante le rivoluzioni ibero-atlantiche del 1820, l’impero britannico supera la perdita delle colonie americane (1783), riconfigura il proprio assetto strategico e istituzionale (nel 1801 viene istituito il War and Colonial Office) e consolida un impero marittimo globale dalle Indie occidentali al sud-est asiatico, dove occupa le ex-colonie olandesi. In un’età di rivoluzioni imperiali, lo scontro tra Francia e Inghilterra intensifica un processo di trasformazione della sovranità imperiale. In quest’epoca gli imperi, prima caratterizzati da pluralismo legale, decentramento istituzionale e confini territoriali indefiniti, iniziano a fondare la propria autorità sull’associazione tra sovranità e territorialità, ovvero sulla capacità di proiettare da un centro politico il comando e l’ordine giuridico entro spazi demarcati da confini precisi.
Allo stesso modo la prima guerra mondiale non segna solo la crisi dell’equilibrio di potenza europeo e l’emergere dell’egemonia americana ma intensifica le tensioni di un ordine territoriale globale fondato sulla sovranità imperiale e sull’imperialismo cooperativo. Nel conflitto si fronteggiano entità politiche che, oltre ad essere stati-nazione europei, sono imperi globali e multi-etnici (di cui mobilitano le risorse) o ambiscono a diventarlo. Come l’Italia, che sviluppa progetti di espansione nel Mediterraneo e in Africa orientale, o la Germania, che prima del 1914 consolida sfere d’influenza nell’Impero Ottomano e in Nord Africa e durante il conflitto fomenta movimenti indipendentisti nei territori inglesi, francesi e russi.
La guerra, inoltre, non solo cancella dalle mappe l’impero Ottomano, Asburgo e Romanov e priva la Germania di tutti i possedimenti oltremare, ma accende ribellioni e movimenti per l’indipendenza anche nei territori imperiali britannici (Irlanda, Egitto, India, Afghanistan, Burma) e in quelli francesi (Algeria, Marocco, Siria, Indocina). Per ricostruire un ordine globale, alla conferenza di pace del 1919 si delineano due visioni spaziali concorrenti che si incontrano e confliggono all’interno della Società delle nazioni. Da un lato il principio dell’autodeterminazione nazionale – che rimanda alla visione del presidente Wilson di un sistema di stati-nazione vincolati da organizzazioni internazionali ed inseriti nell’orbita economica americana – e dall’altro la proposta di nuove formule di organizzazione territoriale imperiale attraverso il sistema dei ‘mandati’.
In entrambi i periodi, le crisi offrono congiunture in cui evolvono le concezioni di territorialità e sovranità alla base delle unità politiche – in quel caso gli imperi – su cui è strutturato l’ordine globale. Allo stesso tempo, l’emergere di nuove visioni degli spazi politici è accompagnato dalla ricerca ‘multilaterale’ di un ordine internazionale che li legittimi. Ciò avviene a Vienna nel 1815, così come dopo il 1919 con la conferenza navale di Washington del 1921-22 e i patti di Locarno del 1925. Nel primo caso è necessario costruire un nuovo equilibrio europeo che consenta agli imperi di proiettare il loro dominio oltremare, mentre nel secondo caso va stabilito un ordine mondiale oltre l’imperialismo europeo. Ma è proprio la persistenza delle dinamiche territoriali imperiali che conduce ad una nuova crisi dell’equilibrio. Da un lato imperi in crisi cercano una nuova configurazione territoriale (alla Conferenza imperiale del 1921 a Londra inizia l’evoluzione dell’impero in Commonwealth), dall’altro nuove ambizioni imperiali nascono dal vuoto di potere eurasiatico creato dalla guerra, mentre viene a mancare il sostegno americano alla visione di un ordine spaziale alternativo.
Anche l’attuale crisi globale contribuirà a far emergere nuove visioni degli spazi politici, consolidando tendenze già in corso. Provare a inquadrarle tanto attraverso una netta contrapposizione tra ordine liberale e crisi della globalizzazione, quanto tra multilateralismo e rivalità egemoniche, può essere fuorviante.
Le trasformazioni più importanti che la pandemia sta intensificando nell’ordine internazionale rimandano al ritorno di una concezione territoriale degli spazi politici, ovvero quali luoghi di proiezione dell’autorità politica.
Il ritorno dei territori e delle logiche della territorialità, come mostrano gli eventi degli ultimi mesi, sta avvenendo su tre piani. Al livello degli spazi politici degli stati, che tornano ad essere percepiti come luoghi di protezione per gli individui e le comunità. Al livello degli spazi ‘imperiali’, che disegnano sfere di influenza e di egemonia sfruttando le innovazioni nel campo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (il web è un vettore di territorialità tanto quanto le ferrovie e le reti telegrafiche per gli imperi dell’Ottocento). Ed infine al livello degli spazi globali, dove la fine dell’unipolarismo americano e le dinamiche di regionalizzazione e confronto tra civiltà sembrano prospettare l’emergere di un ordine globale plurale fondato sulla competizione/cooperazione tra blocchi regionali.
Sarà un ritorno ai territori non solo come orizzonti di identità e appartenenza ma anche come spazi di ordine, benessere e decisione politica? E’ forse troppo presto per dirlo. Eppure mai come oggi è vero ciò che lo storico Charles Maier scriveva pochi anni fa, anticipando i tempi: ‘We cannot renounce territory, even if it does less for us’.