L’onda di Bolsonaro sulle presidenziali brasiliane

Dopo il primo turno che ha visto quasi stravincere l’ex capitano dei paracadutisti Jair Bolsonaro – ha ottenuto il 46% dei suffragi, sfiorando il 50% più un voto necessario per chiudere la partita già ieri – molti analisti si chiedono che succederà in Brasile il prossimo 28 di ottobre e, soprattutto, a partire dal primo gennaio 2019, quando s’insedierà il nuovo presidente. Cominciamo col dire che mai nella storia e democratica del gigante sudamericano chi ha vinto il primo turno ha poi fallito l’ingresso a Planalto, il palazzo presidenziale verde-oro. Fernando Henrique Cardoso, il sociologo del partito socialdemocratico, il Psdb, nel 1994 e nel 1998 non ebbe neanche bisogno del ballottaggio. Passarono invece al secondo turno, dopo aver chiuso in testa il primo, sia Fernando Collor de Mello nel 1989, che Lula nel 2002 e 2006 e persino Dilma Rousseff nel 2010 e nel 2014.

Se la statistica ha dunque una valenza, difficile che Fernando Haddad – il candidato scelto come ‘rappresentante’ dall’ex presidente Lula (non candidabile perché da sei mesi in carcere per una condanna a 12 anni per corruzione e riciclaggio) e che domenica 7 ottobre ha ottenuto appena il 29,3% dei suffragi – riesca nell’impresa di agglutinare attorno alla sua persona oltre venti milioni di voti aggiuntivi in appena tre settimane.

Anche perché il partito dei lavoratori, il PT, è sempre più controllato da Lula: non a caso appena dopo il voto (l’8 ottobre), Haddad vola a Curitiba, per consultarsi per l’ennesima volta in carcere con il suo deus ex machina. Mentre traspare una lontananza forte dal popolo, a cominciare da quello del Nordest, suo tradizionale bacino di voti. Se, infatti, anche in queste presidenziali la regione economicamente più povera del Brasile è stata decisiva per evitare una vittoria di Bolsonaro già al primo turno, vale la pena sottolineare come anche in quella zona del Paese i risultati siano stati sorprendenti. Nella capitale dell’Alagoas, Maceió, l’ex paracadutista che promette “mano dura contro il crimine” e che è solito dire “bandito buono è bandito morto” ha ottenuto il 52% dei voti. Per non dire di Natal, capoluogo del Rio Grande do Norte, dove ha raccolto il 44% dei suffragi o a João Pessoa, il maggior centro della Paraiba, dove ha sfiorato la maggioranza assoluta (su 13 candidati) con il 49% dei voti utili.

La nuova geografia elettorale brasiliana

 

Bolsonaro ha dunque vinto ampiamente il primo round per almeno tre motivi. Il primo: avere saputo cavalcare come nessun altro candidato la Lava Jato, la Mani Pulite brasiliana, iscrivendosi al semisconosciuto gruppo social-liberale (Psl) dopo essere stato eletto per la settima volta in Parlamento tra le fila del PP, il partito progressista alleato del PT di Lula ed a cui contende il record di politici corrotti e tesorieri finiti in carcere.

Il secondo: avere incentrato la sua campagna elettorale sulla sicurezza e sul dare la possibilità ai brasiliani di possedere armi in casa sul modello statunitense, riuscendo a convincerli che con lui alla presidenza i 63mila omicidi dello scorso anno si ridurranno, al pari del narcotraffico che alla violenza è legato a filo doppio. Una chimera visto che in 27 anni da parlamentare Bolsonaro non ha mai presentato neanche una proposta di legge per aumentare la sicurezza nel suo stato di Rio de Janeiro, dove oggi la criminalità ammazza in media, secondo i dati dell’Istituto di Pubblica Sicurezza, 19 persone ogni giorno.

Il terzo motivo del successo di questo candidato che per sua stessa ammissione “non capisce nulla di economia” e perciò parla di qualsiasi argomento legato a tasse e bilancio statale solo per mezzo di Paulo Guedes, membro minore della “scuola di Chicago” che propugna l’anarco-capitalismo (ossia la presenza statale minima) nonché suo ministro dell’Economia già designato in caso di vittoria: essere riuscito a fare dimenticare agli elettori brasiliani che all’inizio della sua carriera politica lui propugnava dalle colonne del New York Times la “chiusura del Parlamento” ed il “ritorno dell’ordine via dittatura militare” sull’esempio di quanto fatto “da Alberto Fujimori in Perù, il mio modello perché per il Brasile la miglior cosa sarebbe proprio la fujimorizzazione”. Il fatto che l’ex presidente peruviano sia stato condannato a 25 anni di galera per crimini contro l’umanità qualche anno dopo l’intervista al quotidiano statunitense può essere più un monito per Bolsonaro a non esagerare troppo se eletto con “la mano dura”, in un paese dove la Polizia già di suo ammazza ogni giorno in media 7 persone (Fonte Amnesty International) che un memento agli smemorati brasiliani in vista del secondo turno.

Supporter di Bolsonaro incitano i passanti vicino ai seggi elettorali

 

Anche perché, come ricorda Paulo Sotero, direttore del Brazil Institute presso il Wilson Center di Washington, “Bolsonaro ha beneficiato della frustrazione dei brasiliani verso la classe politica, dopo la crisi economica più lunga e più profonda della storia recente del Brasile, e di un’indagine federale durata quattro anni che ha esposto la corruzione diffusa tra i partiti politici e i loro soci in affari”. Una commistione di potere politico ed economico che ha portato prima all’impeachment della presidente Dilma Rousseff per manipolazione di conti pubblici, poi all’arresto di Lula e di molti imprenditori vicini al dorato mondo degli appalti pubblici, a cominciare da Marcelo Odebrecht, già CEO dell’omonima multinazionale, oltre a numerosi alti dirigenti di Petrobras, la statale verde-oro del petrolio. Solo per chiudere i processi contro di loro a New York, Odebrecht e Petrobras hanno deciso tramite i loro avvocati di pagare oltre sei miliardi di dollari. Nel frattempo, “Bolsonaro prometteva di aprire l’economia brasiliana, la più protezionista del mondo tra i paesi a reddito medio” precisa Sotero – secondo il quale, tuttavia, “non è chiaro se davvero lui abbia la convinzione o la volontà politica di farlo, visto che durante la sua ultraventennale permanenza al Congresso, non ha mai votato a favore della privatizzazione delle compagnie statali”.

Certo è che la Lava Jato ha inciso in modo decisivo non solo sulle presidenziali. I brasiliani hanno votato anche per rinnovare Camera e Senato, oltre che per i governatori degli Stati: sia l’ex presidente Rousseff che l’uomo forte in Senato di Michel Temer, Romero Jucá, emblemi della politica recente, sono stati “non eletti”.

Chiunque vinca al ballottaggio, con Bolsonaro favorito ma senza escludere un possibile “miracolo” di Haddad, resta comunque il problema della governabilità. Nell’attuale sistema politico convivono oltre 30 partiti, i cui parlamentari garantiscono a qualsiasi presidente il loro voto solo in cambio di prebende sotto forma di tangenti.

Al di là delle polemiche verbali esplosive di Bolsonaro, che disse qualche tempo fa ad una collega parlamentare di “stare tranquilla” che non l’avrebbe violentata perché “troppo brutta”, oltre al tentativo di Haddad di conquistare i 20 milioni di voti che gli mancano per la clamorosa rimonta – impresa difficile ma possibile tenuto conto del record di oltre 30 milioni di astenuti al primo turno e del 6% di schede annullate – il vero problema del Brasile rimane quello della frammentazione politica che favorisce la corruzione endemica del sistema. Lo dimostra il fatto che dei quattro presidenti eletti dal 1989 ad oggi, uno, Lula, sia in carcere e altri due – Dilma e Collor – siano stati costretti ad andarsene con procedure di impeachment.

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