È probabile che l’esito delle elezioni del 26 settembre contribuisca a tenere i riflettori accesi sulla Germania ancora per un po’, soprattutto perché ci si parano davanti diversi scenari di coalizione ciascuno dei quali pone interrogativi sia sulla solidità del governo sia sulla fisionomia interna dei partiti. C’è però un aspetto su cui queste elezioni, molto tormentate per gli standard tedeschi, gettano una luce chiarificatrice ed è quello dell’eredità di Angela Merkel. L’esito elettorale ci permette infatti di trarre alcune considerazioni sul senso profondo che questa leader tedesca ed europea ha avuto nella storia del quindicennio appena trascorso.
Man mano che ci si avvicina alla formazione di una nuova coalizione si deve prendere atto della capacità del sistema politico e partitico tedesco di incanalare, all’interno di un percorso di riformismo moderato, la domanda emergente di politica ma anche le istanze critiche. In questo senso si può leggere, al netto della ripartizione effettiva dei consensi e dei seggi, il dato combinato di SPD e CDU, ma anche quello relativo a Verdi e Liberali, due forze che hanno saputo raccogliere il voto giovanile ma che comunque si proiettano all’interno di una logica riformistica e di coalizione. Se ci spostiamo lungo le ali estreme dello spettro politico registriamo sia il crollo della Linke, il cui consenso è stato assorbito da SPD o Verdi, sia il “confinamento” di AfD: quest’ultima, a prescindere dal risultato ottenuto, risulta esclusa da ogni possibile coalizione.
Sul peso di AfD ci sarà ancora molto da scrivere, visto anche che, pur fallendo totalmente ad Ovest, in Sassonia e Turingia questa è riuscita a ottenere un risultato surclassante (circa il 24%) e pone un problema di divario regionale che rappresenterà una questione di primaria importanza per la futura coalizione.
Al netto di questo si può però dire che i dati mostrano come la Germania abbia visto un ridimensionamento delle spinte antisistema e la ricerca di una continuità anche all’interno del cambiamento. Questo processo è stato avviato un decennio fa, quando la crisi della rappresentanza politica e dei partiti, alimentata dalla crisi economica, attraversava trasversalmente l’Europa e si traduceva in risultati elettorali scardinanti gli equilibri tradizionali.
In quel frangente Angela Merkel scelse di non intraprendere quella rincorsa ai movimenti populistici che si è rivelata deleteria per altre forze in Europa. È stata una strategia che, sul momento, è sembrata fallimentare, ma che è tornata ad essere pagante soprattutto a partire dal 2019-2020, quando le elezioni europee, accompagnate da una serie di elezioni nazionali hanno confermato la capacità dei sistemi politici basati su un paradigma riformista ed europeista di saper rispondere alle sfide poste da cittadini posti sotto pressione da fattori interni ed esterni.
L’altro grande lascito di Angela Merkel risiede nell’aver reso l’europeismo un fattore identitario della politica tedesca. Il fatto che durante la campagna elettorale appena conclusa i temi dell’Europa non siano stati oggetto di confronto e contrapposizione non è indicativo dello scarso interesse dei cittadini e dei partiti tedeschi per l’Europa, bensì del contrario: si vede infatti come tutti i partiti in lizza, con la sola rilevante eccezione di AfD, si declinano come europei e pro-europei, nel senso che vedono nell’Unione Europea il naturale luogo di sviluppo e prosecuzione delle politiche proposte sul piano nazionale.
L’aver evitato di trasformare l’Europa in un terreno di competizione elettorale non vuol dire che la Germania non presenta, al suo interno, diverse visioni del processo di integrazione e delle politiche dell’Unione: ci mostra però che la politica tedesca non più è concepibile senza la sua dimensione europea. Si tratta di un dato che, quando Angela Merkel arrivò al potere, era tutt’altro che assodato. Poco tempo prima del suo arrivo al poter si era infatti chiusa con un insuccesso il tentativo di “costituzionalizzare” l’Unione Europea e proprio il Presidente federale tedesco di allora, Roman Herzog, aveva sottolineato il rischio di un’Unione priva di basi valoriali comuni.
Un ultimo aspetto relativo alla figura di Angela Merkel riguarda la sua politica estera. Nel corso di questi quindici anni Merkel ha spesso navigato un forte vento contrario, in quella tempesta che è passata sotto il nome di crisi dell’ordine liberale internazionale. In concreto, la Germania e con essa l’Unione Europea si sono trovate ad essere due attori ancorati a un normativismo internazionale che veniva messo progressivamente in discussione dagli altri attori globali.
A rendere questa frattura particolarmente gravosa per l’Europa è stato soprattutto l’avvento dell’amministrazione Trump, che ha interrotto quel percorso di normalizzazione dei rapporti transatlantici che si era parzialmente realizzato durante i due mandati di Barack Obama. Sempre per l’Europa si è rivelata foriera di una serie di problemi rilevanti l’evoluzione della politica russa, in particolare con il conflitto russo-ucraino e l’annessione della Crimea nel 2014. Questo scadimento è stato particolarmente rovinoso per la Germania, che ha sempre avuto nella Russia un interlocutore privilegiato nonché un partner fondamentale per la costruzione della sua strategia internazionale.
Questo quadro generale ha fatto sì che molti dei frutti della politica estera merkeliana non abbiano potuto vedere il compimento sperato, anche perché in alcune occasioni il suo aperturismo internazionale si è scontrato con le resistenze interne: si pensi, ad esempio, alla questione dei rifugiati, soprattutto nella fase più acuta del flusso siriano nel 2015.
Relativamente alla politica estera del quindicennio merkeliano è però ragionevole immaginare che le sue basi valoriali come anche le sue linee strategiche possano vedere una continuazione nel futuro. Sebbene declinati da ciascuna forza politica in modo autonomo, i valori della politica estera tedesca, definiti secondo un approccio normativo e tutelati da un’Unione Europea che dovrebbe essere più forte sulla scena globale, potranno infatti essere perseguiti dalle forze che costituiranno il futuro governo tedesco.
Se è ragionevole ipotizzare che vi possa essere una continuità nella politica estera, è invece difficile credere che la sua formula di politica interna possa trovare una replica nell’immediato futuro. La cifra del quindicennio appena trascorso sta nella capacità mostrata dall’erede di Helmut Kohl di creare una piattaforma politica mobile che ha saputo intercettare il consenso dell’elettorato e ha spiazzato gli avversari.
Dal 2005 in poi, prima i liberali e poi i socialdemocratici sono stati cannibalizzati dalla Kanzlerin che, in più di un’occasione, si è “appropriata” di politiche e programmi che gli altri partiti e leader sentivano come propri. Questa strategia non potrà essere replicata nel prossimo futuro perché le recenti elezioni hanno ridefinito l’identità dei partiti, i quali difficilmente potranno accettare l’occupazione dei propri spazi da parte di un nuovo leader. Questo è un dato da tenere presente sia per comprendere quale sarà l’evoluzione della CDU-CSU sia per ragionare sui potenziali equilibri di coalizione.