Lo Yemen in transizione e la partita geopolitica Riyad-Teheran

Per l’Arabia Saudita, occuparsi di Yemen non è questione di politica estera, ma di sicurezza nazionale: è da questa prospettiva che occorre partire per decifrare l’atteggiamento di Riyad nei confronti della crisi che rischia di affossare la transizione politica yemenita. Qui, i sauditi ricamano da sempre alleanze clanico-tribali, talvolta contraddittorie, per influenzare l’arena pubblica del Paese confinante: l’unica repubblica della Penisola arabica. Uno Yemen politicamente debole, dunque controllabile, è funzionale agli obiettivi geopolitici sauditi. In questa fase, è però il movimento sciita zaidita degli huthi (dal nome del defunto fondatore Husayn al-Huthi), gli autonomisti del nord, a tenere in scacco il Palazzo di Sana’a. Si tratta di sciiti “zaiditi”, che presentano sul piano religioso un tratto distintivo rispetto agli iraniani, riconoscendo solo i primi cinque imam – mentre gli iraniani sono “duodecimani” (la posizione maggioritaria), e credono nel dodicesimo imam occultato; a differenza dei duodecimani, l’imam degli zaiditi deve essere presente anche come capo politico della comunità.

Gli huthi rivendicano i territori settentrionali che costituivano, fino al 1962, l’imamato zaidita, poi rovesciato da un golpe militare, e sono sospettati di ricevere aiuti finanziari e militari dall’Iran e dagli Hezbollah libanesi. A parttire dal mese di agosto, dopo essersi accampati per settimane nella capitale, chiedendo le dimissioni del governo e il ripristino dei sussidi sul carburante, gli huthi hanno occupato i principali centri militari e politici di Sana’a. Gli scontri fra i miliziani sciiti zaiditi e i gruppi tribali filogovernativi, anche salafiti, hanno provocato oltre 200 morti e 400 feriti in soli quattro giorni tra il 17 e il 20 settembre. In questo quadro, le forze di sicurezza yemenite si sono spaccate e in molti, anche tra le fila dell’esercito, hanno appoggiato gli huthi; una situazione che si era già verificata, a luglio, durante la battaglia per Amran, città fortino della tribù sunnita degli Al-Ahmar, a soli 60 chilometri da Sana’a.

L’Accordo Nazionale di Pace, siglato lo scorso 21 settembre, ha finora posto un argine alla violenza nella capitale, ma le parti non lo stanno rispettando. Il testo prevede, entro un mese dalla firma, la formazione di un esecutivo tecnico, sostenuto anche dagli huthi, che applichi le raccomandazioni emerse nella Conferenza di Dialogo Nazionale, conclusasi a gennaio. L’allegato militare al documento politico (che gli huthi hanno accettato di firmare una settimana più tardi) è  però il vero cuore del patto, poiché fa riferimento a un futuro accordo di disarmo delle milizie (con il supporto tecnico dell’ONU), richiamando le parti a un immediato cessate il fuoco nelle regioni contese di Al-Jawf e Mareb.

Mediante il vettore finanziario e quello religioso, l’Arabia Saudita ha saputo costruire collaudate reti di influenza e rapporti personali  in Yemen. Tuttavia, il potere di condizionamento dei sauditi nei confronti di Sana’a si è ridotto, nell’ultimo decennio, sia per la nascita di nuovi attori politici che per la concomitante scomparsa dei tradizionali interlocutori di Riyad – in particolare lo shaykh Abdullah al-Ahmar, morto nel 2007. Al-Ahmar era il capo della confederazione tribale degli Hashid e di Islah, il partito che raggruppa sia la Fratellanza Musulmana che i salafiti locali. I figli del defunto shaykh hanno da subito aperto un canale di dialogo con il Qatar, generoso finanziatore della componente che si richiama alla Fratellanza, in opposizione sia ai salafiti del partito (legati a Riyad) che al General People’s Congress (GPC) dei Saleh (la famiglia al potere), anch’esso sostenuto dai sauditi. Dopo l’attentato del giugno 2011 al Palazzo presidenziale di Sana’a – in cui l’allora Presidente rimase seriamente ferito – Saleh ha accusato proprio Islah e i suoi sponsor qatarini di aver tramato contro di lui, anche grazie alla copertura mediatica della rivolta antigovernativa fornita da Al-Jazeera.

Il governo di unità nazionale fra GPC e Islah – in carica dal 2012 grazie all’accordo di transizione elaborato dal Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) e adottato dall’ONU – doveva servire, agli occhi del regno wahhabita, per recuperare parte del potere perduto, dato che il Presidente ad interim (Abdu Rabu Mansur Hadi) avrebbe goduto di un margine di manovra estremamente limitato poiché succube delle scelte politiche dei partner di coalizione. Così infatti è stato, con un’aggravante: non solo le forze di sicurezza non hanno riguadagnato i territori sfuggiti al controllo dello Stato durante la rivolta, ma l’erosione della sovranità yemenita è proseguita su due fronti paralleli, con gli huthi – dalle regioni del nord verso Sana’a – e i terroristi di Al-Qaeda nella Penisola arabica (AQAP) e dell’affiliata Ansar al-Sharia nel sud. In più, il Qatar ha aumentato il suo money power nel paese, anche mediando la tregua fra huthi e Sana’a nel 2010; prima di volare a Washington, nell’agosto 2013, per incontrare il presidente Obama, Hadi si è recato a Doha, non a Riyad, irritando la dinastia saudita.

Oltre all’evidente fattore confessionale, l’ascesa degli huthi rischia di produrre un’altra conseguenza sgradita per l’Arabia Saudita: l’ulteriore proliferazione dei gruppi jihadisti e/o qaedisti in Yemen (spesso interdipendenti con le cellule dell’Africa Orientale), che hanno già annunciato di voler vendicare l’arrivo degli sciiti zaiditi nella capitale. Non va dimenticato che AQAP (Al-Qaeda nella Penisola araba) nacque nel 2009 dalla fusione del ramo qaedista saudita (migrato nel sud della Penisola) con quello yemenita. Nel 2011 vennero proclamati sette “emirati islamici” fra Jaar e Zinjibar, in Abyan, prototipi – in parte smantellati dall’azione di esercito e droni USA – dell’attuale califfato fra Siria nordorientale e Iraq occidentale. Oggi, la partecipazione dell’Arabia Saudita ai raid della coalizione a guida americana proprio contro lo Stato Islamico, espone il regno a ritorsioni provenienti anche dal suolo yemenita.

L’Arabia Saudita teme soprattutto l’influenza di Teheran che, già custode di Hormuz, potrebbe proiettarsi pure sullo stretto di Bab el-Mandeb: gli huthi starebbero infatti per controllare il terminal petrolifero di Hodeida, sul Mar Rosso. Tuttavia, l’arrivo degli huthi nella capitale può offrire a Riyad l’occasione di ridimensionare Islah (nella sua componente vicina a Doha) e la tribù Al-Ahmar, che oggi occupano i posti chiave della macchina statale.

Va però ricordato che, nel contesto yemenita come altrove, la variabile religiosa – pur fondamentale – viene sovente strumentalizzata dagli attori tribali e partitici per finalità di potere politico. Prima che un duello fra sunniti e sciiti, Sana’a sembra essere preda di uno scontro fra centro (il palazzo e le sue clientele) e periferia (gli huthi a nord, gli autonomisti a sud), nonché di una competizione inter-tribale fra il clan Saleh e gli Al-Ahmar, sostenuti esternamente da Riyad e Doha. D’altronde, il disgelo fra sauditi e iraniani, accelerato dalla comune minaccia del cosiddetto Stato Islamico, mal si concilierebbe con un’escalation indiretta in Yemen; forse non è un caso che gli huthi abbiano siglato l’Accordo di Pace nelle stesse ore del significativo incontro, a New York, fra i capi delle diplomazie delle due potenze del Golfo. In ogni caso, la trattativa per la formazione del nuovo governo yemenita è destinata ad allungarsi, mentre la transizione politica nel paese sembra aver imboccato una strada che riduce ulteriormentel’influenza saudita nello Stato confinante.

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