Lo Yemen e gli obiettivi regionali degli USA

Le rivolte arabe iniziate nel 2011 stanno mettendo sotto pressione le politiche di sicurezza statunitensi in Medio Oriente. In particolare, i mutamenti governativi e le tensioni socio-economiche costituiscono una sfida per la stabilità di quel perimetro di sicurezza che gli USA hanno costruito intorno alla penisola arabica dopo l’11 settembre 2001. Da allora, Washington ha infatti scelto di superare un’impostazione regionale di difesa “Riyad-centrica”, con l’obiettivo di rafforzare i legami di sicurezza con le monarchie sunnite del Consiglio di Cooperazione del Golfo. In un quadro di relazioni così rimodulato, Kuwait, Bahrein e Oman sono apparsi allora gli indispensabili tasselli del regional security complex arabico, cui si è aggiunto uno stato-perno assai problematico: lo Yemen.

Di fronte alle sollevazioni popolari del 2011 e alla crisi di molti regimi alleati, gli Stati Uniti hanno finora faticato a conciliare il volto pro-democratico con la necessità politica di mantenere gli equilibri esistenti. E nella penisola arabica, tale dicotomia si è mostrata ancora più evidente. Tuttavia, la tutela dello status quo regionale, anche in chiave anti-iraniana, rappresenta un obiettivo strategico convergente fra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita: ciò ha permesso all’appannata special relationship fra Washington e Riyad di rivitalizzarsi, dopo anni di sospetti e di diffidenza reciproca legati al fenomeno del jihadismo d’esportazione. I sauditi stanno così consolidando il ruolo di “delegati diretti”, anche statunitensi, alla sicurezza della penisola; e il Consiglio di Cooperazione del Golfo a trazione saudita agisce mediante strumenti differenti (si pensi a quello finanziario in Oman, militare in Bahrein, politico in Yemen) ma finora, sempre con il silenzioso appoggio di Washington.

Paradossalmente, le motivazioni che hanno spinto gli USA a imperniare la propria strategia di securitizationregionale in Yemen sono le stesse che, in precedenza, hanno persuaso Al-Qaeda a ramificarsi nel paese. Da una prospettiva geografica, lo Yemen è infatti un paese-soglia, in cui si intersecano due quadranti diversi (l’arabico e quello del Corno d’Africa); la fragilità statuale del paese, unita alla vischiosa contiguità dei gruppi clanico-tribali, lo rendono inoltre permeabile alle interferenze sociali e politiche provenienti dagli stati limitrofi (in primis l’Arabia Saudita). Quasi il 70% degli yemeniti ha meno di venticinque anni e la rendita petrolifera è in costante declino: nel 2011, quindi a rivolta iniziata, lo Yemen ha prodotto solo 170 mila barili di greggio al giorno (contro il record di 440 mila toccato nel 2001) ed è divenuto da anni un importatore netto di petrolio dal vicino saudita. Lo Yemen è un paese insicuro: non è autosufficiente da un punto di vista alimentare, vive una cronica carenza idrica (per usi alimentari e agricoli), e nel 2011 l’UNDP lo ha collocato 154esimo per indice di sviluppo umano (su 187 paesi). Tuttavia, è anche paese d’immigrazione (sebbene spesso di solo transito) in particolare per somali, etiopi ed eritrei, che si aggiungono così al folto numero di disoccupati nonché di potenziali reclute per la galassia jihadista.

Nonostante ciò, il regime di Ali Abdullah Saleh è riuscito, per oltre un decennio, a percorrere contemporaneamente due binari opposti: la lotta al terrorismo internazionale di matrice islamista al fianco degli Stati Uniti e un atteggiamento ambiguo e a tratti accondiscendente nei confronti del jihadismo e del qaedismo. Questo schema sta sopravvivendo alla stessa storia politica del presidente Saleh. Il funzionamento del circuito politico yemenita si basa infatti su un meccanismo di autoritarismo pluralizzato: l’introduzione di fora istituzionali di forma democratica e la moltiplicazione degli attori partitici ha consolidato il potere autoritario, invece di contribuire alla democratizzazione dell’arena politica.

Il ruolo di partner svolto da Washington sul piano della sicurezza, in tale contesto, ha così sortito effetti indiretti inattesi: il regime ha infatti adoperato parte delle risorse (militari, finanziarie, retoriche) messe a disposizione dagli Stati Uniti per la lotta ad Al-Qaeda al fine di contrastare, invece, gli oppositori interni. Ne è seguita l’esasperazione delle differenze confessionali, etniche, tribali: in particolare, il conflitto fra Sana’a e la formazione sciita dei seguaci del defunto Husayn al-Huthi, che rivendicano da anni maggiore autonomia e risorse per le terre del nord, ha registrato un picco inedito nell’uso governativo della forza, fino ad assumere una pericolosa connotazione settaria. Il pretesto della war on terror viene spesso utilizzato dall’esecutivo per colpire clan tribali ostili, anche solo sospettati di aver offerto rifugio a elementi jihadisti, cui sono legati soprattutto da alleanze matrimoniali; e la piccola ma storica comunità ebraica dello Yemen (che oggi vive in un’enclave blindata della capitale) è oggetto di frequenti episodi di violenza da parte degli oppositori del patto fra Washington e Sana’a, desiderosi di mettere in imbarazzo la leadership yemenita agli occhi della Casa Bianca. A livello popolare, la presenza degli Stati Uniti ha causato un aumento del già forte sentimento anti-americano, insieme a una maggior incidenza dei fenomeni di criminalità a fini estorsivi, come nel caso dei rapimenti di cittadini occidentali.

Pertanto, le politiche di sicurezza statunitensi in Yemen hanno contribuito ad aumentare, indirettamente, il tasso di autoritarismo del regime di Saleh. Mentre il Dialogo Nazionale yemenita, incaricato di redigere una nuova costituzione in vista delle elezioni generali del febbraio 2014, ha da poco iniziato i propri lavori, occorre domandarsi quanto le politiche di sicurezza statunitensi in Yemen siano ancora politicamente utili per le due parti. Washington non ha finora ottenuto i risultati attesi in termini di contrasto al terrorismo (nonostante alcune uccisioni eccellenti soprattutto con l’uso dei tanto controversi droni).Intanto, il nuovo governo yemenita, guidato da Abdu Rabu Mansur Hadi, già vice di Saleh, necessita di sostegno esterno militare, finanziario e diplomatico per consolidare la propria legittimità interna e il controllo sul territorio sfidato a nord dagli huthi e a sud dai gruppi autonomisti o secessionisti. Lo Yemen è pertanto destinato a rimanere in cima agli obiettivi statunitensi di sicurezza nel quadrante: la priorità è infatti preservare l’assetto regionale esistente. E farlo anche a costo di complicare il processo di democratizzazione interna.

Arab worldArab SpringSaudi ArabiaYemenUSAsecurity
Comments (0)
Add Comment