Boko Haram ha cronologicamente preceduto, come operatività e come impatto nell’immaginario collettivo, l’avvento dello Stato Islamico. Ma a differenza di quest’ultimo – col quale condivide la missione del jihad e un’alleanza potenziale – ha connotati etnici più precisi, collocazione geografica più netta e origini meno controverse.
Nata come setta nel nord della Nigeria, Boko Haram è divenuta nel volgere di pochi anni la principale forza islamista dell’Africa. Negli ultimi otto mesi tuttavia, dall’avvento al potere del Presidente Muhammadu Buhari, qualcosa è cambiato nell’equazione interna nigeriana. Il recente massacro di 90 persone perpetrato dai miliziani nello stato di Borno è apparso come il colpo di coda di un’organizzazione terroristica messa in difficoltà dalle contromosse del governo centrale. Occorre tuttavia cercare di capire se è vero che le autorità nigeriane stiano davvero sconfiggendo Boko Haram e se questa strategia possa essere considerata un paradigma nella lotta al terrorismo internazionale o almeno ai suoi forti ceppi africani radicati in Maghreb, Corno d’Africa e Sahel.
La distruzione di Boko Haram era il secondo punto nell’ambizioso programma di Buhari e del suo partito(APC – All Progressives Congress), essendo al primo punto la corruzione endemica, ed è fuori di dubbio che dal punto di vista del controllo del territorio gli islamisti hanno accusato un drastico ridimensionamento. Se un anno fa Boko Haram controllava almeno 27 aree nel nord del paese, ora può muoversi liberamente solo in 3 roccaforti e se gli attacchi alla popolazione civile e alle forze di sicurezza avevano cadenza molto ravvicinata, ora essi si sono diradati come le stesse incursioni oltre i confini nigeriani. La forza multinazionale di Ciad, Niger, Camerun e Benin opera con evidente successo e chiede, a differenza del passato, la collaborazione attiva della popolazione civile.
In questa chiave si presta dunque a una doppia lettura la circostanza che l’ultimo massacro di Boko Haram (a fine dicembre nella città di Maiduguri) non abbia quasi trovato spazio sui principali giornali della Nigeria. Si tratta di una zelante omissione da parte delle principali testate compiacenti col governo che preferiscono nascondere gli insuccessi del nuovo establishment, o al contrario di una strategia consapevole che intende escludere i terroristi da qualsiasi forma di propaganda, anche indiretta, negandogli i riflettori della cronaca?
La seconda opzione sembra plausibile, dal momento che fiancheggiatori di un Islam radicale non sono mancati in ambienti governativi, e su quelle connivenze Boko Haram ha potuto contare per affermarsi come minaccia di vasta portata regionale.
Il quadro interno, specie nel nord, conservainfattiforti tinte clerico-tribali, dal momento che nel dibattito nazionale ci si riferisce criticamente ad alcuni esponenti della comunità islamica come “sultans and emirs”; sultani ed emiri appaiono, alla maggioranza laica, autorità dal posizionamento ambiguo rispetto alla minaccia islamista. Su questo sfondo, il blackout mediatico, se a primo impatto sembra trasgredire le regole basilari della libertà di stampa (ma non dimentichiamo a quale latitudine ci troviamo e nemmeno il passato autoritario dei regimi nigeriani, uno dei quali guidato proprio da un più giovane generale Buhari tra il 1983 al 1985) è più probabilmente una mossa tattica per isolare il terrorismo.
L’attuale presidente, in netta discontinuità con il suo predecessore Goodluck Jonathan, ha inoltre infranto due tabù ereditati della precedente, e fallimentare, strategia anti-Boko Haram. Per prima cosa, ha permesso un maggiore, e più trasparente, campo d’azione alla forza multinazionale africana impegnata nel nord contro le roccaforti dei terroristi. Uno dei principali limiti della precedente amministrazione era statainfattiquella di dare carta bianca alle forze di sicurezza, che spesso si erano macchiate di delitti non dissimili, per brutalità, da quelli degli islamisti. L’alleanza che vede coinvolte forze panafricaneha permesso più raziocinio militare nella campagna di repressione,e limitato gli episodi di violenza che ottenevano non di rado l’obiettivo opposto a quello desiderato (avvalorando la legittimità della propaganda jihadista).
Come secondo punto, Buhari (musulmano egli stesso) ha dichiarato che nella vicenda dall’eco planetario delle 200 ragazze rapite a Chibok e ancora in mano ai sequestratori, ogni mezzo sarà perseguito per riportale a casa, compreso quello di un dialogo con esponenti delle milizie islamiste. Senza arrivare al riconoscimento di un nemico irriducibile, Buhari dimostra così un approccio pragmatico che – unito alla razionalizzazione delle campagne militari – ha permesso di infliggere duri colpi a Boko Haram.
Questo può bastare? Sarà sufficiente proseguire su questa strada per sconfiggere i black taliban? E ancora: si tratta di un paradigma che potrà essere adottato anche da quei paesi – soprattutto Mali e Burkina Faso – attaccati di recente dalle milizie islamiste?
In realtà la Nigeria, il principale attore economico dell’Africa, è una nazione assai complessa, attraversata da contraddizioni enormi, che mal gestite possono portare a un repentino rovesciamento di equilibri, un quadro nel quale la minaccia che ora sembra sopita potrebbe risvegliarsi più letale di prima. L’economia nigeriana è possente in termini di commodity – petrolio innanzitutto – ma debolissima in termini finanziari. La burocrazia corrotta, ad esempio, priva la Nigeria di molti introiti che vanno ad appannaggio di paesi limitrofi – o del mercato nero – e questo ha un’evidente ricaduta sul gettito. Anche il prestito ottenuto dall’Unione Africana per 229 milioni di euro per la lotta contro Boko Haram costituisce uno stimolo ma anche un ulteriore vincolo di riconoscenza verso i creditori esterni. A fronte di un debito pubblico che dai recenti colloqui con la Banca Mondiale si attesta intorno ai 48 miliardi di dollari, la sperequazione interna è clamorosa: il 61% della popolazione vive con meno di 1 dollaro al giorno ed è concentrata nel nord musulmano del paese dove maggiore è anche il tasso di disoccupazione (60%).
Da questo quadro macroeconomico emerge come nel breve periodo la Nigeria abbia accolto la cosiddetta “buharisation” come un’occasione di svolta, ma le basi del malessere sociale rimangono enormi e richiedono politiche di medio-lungo periodo. In altre parole, la seduzione eversiva dell’islam radicale potrà contare ancora a lungo sul malessere di una società malata e qualsiasi esitazione da parte del governo centrale o congiuntura economica globale – come ad esempio l’attuale crollo del prezzo del petrolio – potrebbe essere letta come un’occasione per rilanciare un’offensiva terroristica.
Stanti questi limiti oggettivi, è comunque possibile esportare i criteri della lotta contro Boko Haram anche ad altri paesi, segnatamente Mali e Burkina Faso? Il primo è stato un teatro di una guerra convenzionale e come la Nigeria deve fronteggiare un nord al limite del separatismo politico e confessionale. L’ultimo attacco all’hotel Radisson Blue di Bamako – che ebbe grande risonanza anche perché si verificò una settimana dopo gli attacchi di Parigi del 13 novembre 2015 – aveva il sapore di un’azione mirata contro uno specifico luogo frequentato non da occidentali in genere, ma da professionisti (advisor, consulenti, analisti, appaltatori) che sono il fluidificante degli interessi occidentali nella regione. Questo ci suggerisce che se le forze islamiste del Mali non hanno attualmente il vigore di sferrare nuovi attacchi su vasta scala territoriale, possono sempre arrivare nel centro della capitale dove hanno sede i centri e gli snodi del fronte anti-jihadista.
Preoccupa che una simile logicaabbia per la prima volta colpito il Burkina Faso nel gennaio di quest’anno (attacchi all’Hotel Splendid e al Cafè Cappuccino). Se l’attentato ha motivazioni identiche a quelle maliane, del tutto nuova è la capacità dimostrata da al-Qaeda (AQMI) di poter colpire all’interno diuno Stato strategico per il coordinamento di tutte le azioni di antiterrorismo nella regione.Tutta la controffensiva franco-alleata in Mali ebbe infatti nel Burkina una centrale operativa di primo piano, tanto nella logistica militare quanto nell’azione di intelligence come nell’iniziativa diplomatica. Il Burkina insomma è, per posizione geografica, la testa di ponte dell’Occidente nel Sahel minacciato dal jihad e la capacità dimostrata dagli islamisti di poter portare un attacco al cuore di Ouagadougou non può che far riflettere seriamente.
Il paradigma è valido, e rasenta il senso comune: politiche razionali nel quadro interno, accordi di cooperazione con gli attori regionali, un certo criterio etico di equità nei rapporti reciproci tra Occidente ed ex colonie. È chiaro che questi fattori, se trascurati, possono portare a una recrudescenza della minaccia islamista in tutta l’Africa sub-sahariana. Una più diffusa consapevolezza di tali requisiti è certamente un passo avanti, e vedremo se la Nigeria saprà fare da apripista in una grande sfida regionale e internazionale.