Dung Trang ha il volto soddisfatto mentre compie il suo giro quotidiano fra i macchinari e gli operai della fabbrica Sparton, la multinazionale di proprietà statunitense che da oltre vent’anni produce componenti elettronici nella città di Bình Đức, 20 chilometri a nord della capitale Ho Chi Min City, l’antica Saigon.
Il giro d’affari per la filiale asiatica della Sparton è cresciuto più negli ultimi sei mesi che nei precedenti due anni. E questo grazie alla guerra dei dazi in corso fra Pechino e Washington, che ha visto decine di aziende varcare il confine e spostare produzione e commissioni dalla Cina al Vietnam, con l’obiettivo di aggirare la tassazione introdotta da Donald Trump per i prodotti di importazione cinese. Se nei primi quattro mesi del 2019 gli scambi fra Cina e Stati Uniti sono diminuiti del 19%, l’import statunitense dal Vietnam è invece aumentato del 40%. Per il pil significa +0,5% nell’anno in corso e, secondo le stime dell’Asian Development Bank, +2% in tre anni.
La crescita accelerata dell’economia in Vietnam è simboleggiata dal trambusto che contraddistingue il quartiere industriale di Deep C, nella città settentrionale di Hai Phong, a pochi chilometri dal più grande porto commerciale del paese. I rappresentanti delle aziende cinesi sono alla ricerca di aree nelle quali esternalizzare la produzione: Hai Phong, hub industriale distante appena 160 chilometri dalla frontiera cinese, è diventato un punto di approdo per questi imprenditori. Gli investimenti della Cina in Vietnam hanno raggiunto la quota record di 1,67 miliardi di dollari nei primi sei mesi di quest’anno, una cifra cinque volte superiore rispetto allo stesso periodo del 2018.
La costruzione del nuovo porto di Lach Huyen, estensione diretta del complesso industriale di Hai Phong, rappresenta un elemento decisivo per le aziende che decidono di investire nel paese e chiarisce perfettamente l’ambizione vietnamita. Il progetto, avviato nel 2013 e il cui costo complessivo raggiunge quasi i 2 miliardi di dollari, permette alle navi mercantili, già da qualche mese, di operare in maniera diretta da due terminal, con carichi sino a 100.000 tonnellate metriche. Prima dell’apertura del porto di Lach Huyen il traffico mercantile era gestito dalle vecchie banchine di Hai Phong – Dinh Vu: quelle strutture tecniche non consentivano di ospitare barche oltre le 10.000 tonnellate, con la conseguenza del doppio passaggio delle grandi navi da e per Europa, America e Medio Oriente prima dagli scali attrezzati di Hong Kong e Singapore, e poi mediante cargo di dimensioni ridotte verso i porti più piccoli, con un notevole ricarico sui costi di importazione ed esportazione. La costruzione di Lach Huyen ha reso molto più economico il trasferimento delle materie prime e dei prodotti industriali, aprendo una linea di navigazione diretta fra Hai Phong, l’Europa e gli Stati Uniti.
La crescita del Vietnam, che secondo l’Ufficio Generale di Statistica di Hanoi ha raggiunto, nel secondo trimestre del 2019, il +6,71% rispetto all’anno precedente, non è comunque solo legata alla battaglia economica fra Cina e Stati Uniti. Il paese è ormai un centro industriale di primo livello per gli investitori stranieri, che beneficiano di un costo del lavoro molto basso, di manodopera specializzata giovane e competente, di affitti per le strutture estremamente contenuti e di una burocrazia molto snella. “Potenzialmente un’azienda può arrivare in Vietnam e aprire una fabbrica, già pronta per lavorare e far partire la linea di produzione, nel giro di tre mesi” – spiega Marko Walde, direttore di AHK, la Camera di Commercio tedesca in Vietnam, con sedi a Ho Chi Min City e Hanoi. Ciò è possibile grazie alla presenza sul territorio di parchi industriali, spesso estesi anche 3000 ettari, nei quali sono installati capannoni che vanno solo adattati al tipo di fabbricazione prevista. In altri paesi, solo per individuare la struttura, è necessario un tempo compreso fra i sei e gli otto mesi.
A sostenere l’avanzata economica del Vietnam sarà anche l’accordo commerciale di libero scambio (Europe-Vietnam Free Trade Agreement, EVFTA) sottoscritto il 30 giugno fra la commissaria UE per il Commercio, Cecilia Malmström, e il ministro dell’Industria vietnamita, Tran Tuan Anh. Il trattato, che andrà ratificato dal Parlamento Europeo, si aggiunge al CPTPP, la Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership attiva dal marzo del 2018 e che prevede il libero scambio commerciale fra undici paesi dell’area di Asia e Pacifico, fra cui appunto Vietnam, Messico, Australia, Canada, Singapore e Giappone.
Secondo gli analisti finanziari europei, l’accordo con Bruxelles farà crescere l’export dalla UE verso il Vietnam di circa il 15%, mentre in direzione opposta, dall’Asia verso l’Unione Europea, è previsto un aumento del 20%, entro il 2020. Oggi l’UE è il secondo mercato di esportazione per il Vietnam, dopo gli Stati Uniti, con un volume di export che ha raggiunto nel 2018 i 37,32 miliardi di euro, a fronte di importazioni da paesi europei pari a 12,12 miliardi. L’Italia nel 2018 ha esportato in Vietnam beni pari a 1,3 miliardi di euro, importando da Hanoi 2,3 miliardi di euro di prodotti, principalmente abbigliamento, telefoni cellulari, caffè, prodotti elettronici. Le stime del governo vietnamita prevedono che l’EVFTA inciderà sulla crescita del pil (che si prevede in aumento di almeno il 5% annuo fino al 2050) di 2-3 punti percentuali sino al 2023. Gli effetti di questo accordo dovrebbero concretizzarsi per i consumatori europei in prezzi più bassi nei prodotti tessili e calzaturieri, il cuore dell’export vietnamita verso l’Europa, che impiega in Vietnam più di tre milioni di lavoratori, occupati in oltre 6.000 fabbriche di scarpe e indumenti.
Proprio le condizioni dei lavoratori vietnamiti, soprattutto nel mercato tessile, sono però alla base delle contestazioni che Amnesty International e diverse altre organizzazioni per i diritti umani in Vietnam hanno opposto alla firma dell’accordo con la UE. Secondo uno studio dell’associazione americana Fair Labor (FLA), oltre il 50% degli impiegati nelle grandi aziende del tessile supera le 14 ore di lavoro giornaliero, senza però nemmeno riuscire a guadagnare il necessario per sostenere la propria famiglia.
Lo stipendio minimo previsto dalla legge vietnamita è di 180 dollari al mese, più alto di quelli garantiti dalle aziende che lavorano in settori analoghi in Bangladesh e Cambogia, eppure, “le condizioni di sfruttamento nelle fabbriche tessili vietnamite sono estese e consolidate, gran parte dei lavoratori, nonostante turni di lavoro sfiancanti, non guadagna abbastanza da poter coprire i bisogni minimi, come l’affitto per la casa, il sostentamento alimentare, l’assistenza medica” ha dichiarato a Reuters lo scorso aprile il rappresentante ad Hanoi dell’ong OXFAM, che è presente nel paese con numerosi progetti di contrasto della povertà.
A pesare sulla crescita economica futura del Vietnam sono invece le minacce lanciate contro il paese da Donald Trump, che ha detto di prendere in seria considerazione la possibilità di applicare dazi anche sui prodotti in arrivo da Saigon. Il surplus commerciale del Vietnam nei confronti degli Stati Uniti nei primi cinque mesi del 2019 ha raggiunto la quota record di 17 miliardi di dollari, quasi 6 miliardi in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e dovrebbe sfondare quota 40 miliardi alla fine del ciclo annuale in corso.
Il governo vietnamita sta cercando di correre ai ripari per evitare le sanzioni commerciali. Da metà giugno si lavora a un protocollo di intesa che prevede l’acquisto dagli USA di aeromobili Boeing e di importanti volumi di gas naturale liquefatto. Accanto a questi accordi, viene offerto a Washington un piano di agevolazioni per le imprese statunitensi che investono in Vietnam. Il Paese, avvantaggiato finora dallo scontro sui dazi tra Pechino e Washington, non vuole compromettere il suo boom economico.