Nel presentare le linee programmatiche della politica estera italiana il 31 marzo scorso, il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha indicato il Mediterraneo e l’Africa come area prioritaria.
Come riconosce il Ministro, il Mediterraneo allargato è una «regione strategica per la politica estera italiana in primo luogo perché è una piattaforma di connettività economica, energetica e infrastrutturale tra Europa, Africa e Asia; in secondo luogo perché oggi, a dieci anni dalle primavere arabe, quest’area a noi così vicina rimane soffocata da tensioni e crisi esacerbate dalla pandemia».
Il Mediterraneo allargato è la regione ricompresa tra la linea Gibilterra-golfo di Aden, il Medio oriente e la sponda Nord del Mediterraneo. Il quale, con il raddoppio del canale di Suez è divenuto un medio-oceano, arteria di collegamento tra Indo-Pacifico e Atlantico dalla quale transita un terzo del commercio marittimo mondiale. L’accresciuta interdipendenza tra i Paesi di questa macro-regione fa sì che una crisi in uno di essi si ripercuota inevitabilmente sulla sicurezza e la prosperità degli altri. La penisola italiana, al centro del Mediterraneo, è la più esposta tra i Paesi europei.
Se giustamente «dobbiamo elevare il profilo della comunità internazionale nella regione» e la strategia complessiva deve necessariamente prevedere il concerto preventivo con gli americani nello «sforzo comune per la stabilità nel Mediterraneo allargato», abbiamo bisogno di definire una strategia complessiva, articolarla in un piano particolareggiato in funzione dei differenti fuochi di crisi e dotarci degli strumenti per raggiungere gli obiettivi.
Il fuoco di crisi che ci minaccia più da vicino è la Libia. Oggi ci sono due Libie. La “prima” è quella del governo di transizione, riconosciuto dalla comunità internazionale e guidato (da metà marzo) da Abdel Dabaiba, che controlla effettivamente solo la Tripolitania grazie al sostegno di Turchia e Qatar. Il grosso delle forze di Ankara è rappresentato da jihadisti siriani, mentre militari turchi addestrano anche la guardia costiera libica dotata di unità donate dall’Italia.
La “seconda” Libia è la Cirenaica del generale Khalifa Haftar, sostenuta da Russia, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Egitto e, fino all’estate scorsa, Francia. A partire dalla linea Sirte-Giufra i russi controllano tutta la Libia orientale, dove si trova il grosso delle riserve di idrocarburi, e gran parte del Fezzan, dove è il più grande giacimento libico nonché cerniera con Niger, Ciad e Sudan, da cui provengono le rotte dell’immigrazione.
Avere il controllo diretto o indiretto della sponda meridionale dello stretto di Sicilia al fine di neutralizzare eventuali minacce alla nostra sicurezza – sotto forma di immigrazione incontrollata, terrorismo o interruzione degli approvvigionamenti energetici – è una priorità della politica estera italiana. La cruda realtà è che la Quarta sponda è occupata da Turchia e Russia. Ciò ci impone di provare ad assumere la guida del processo di pacificazione e riunificazione del Paese. Questo è anche il “mandato” affidatoci da Donald Trump e ribadito da Joe Biden, entrambi preoccupati dall’espansionismo russo nel Mediterraneo. L’importanza del gas libico, in gran parte estratto da ENI, è accresciuta dal desiderio americano di bloccare il Nord Stream 2 (Russia-Germania) e trovare fonti di gas alternative a quello russo.
I 20mila militari stranieri avrebbero dovuto lasciare la Libia entro gennaio, come previsto dal cessate il fuoco raggiunto sotto il patrocinio dell’ONU. Ma al momento turchi e russi non sembrano intenzionati a sloggiare. All’indomani della prima uscita internazionale del Presidente del Consiglio Mario Draghi, avvenuta a Tripoli nel tentativo di porre l’Italia come partner di riferimento della nuova Libia, Recep Erdogan ha risposto convocando ad Ankara Dabaiba insieme a 14 ministri del suo esecutivo. Firmando cinque accordi su sicurezza, costruzione del nuovo terminal dell’aeroporto di Tripoli, di tre centrali termoelettriche e di un centro commerciale, per la fornitura di vaccini e lo sfruttamento di idrocarburi, Erdogan ha mandato il chiaro segnale che la Turchia è in Tripolitania per rimanerci e che Ankara potrà ricattarci come già fa con la Grecia e l’Unione Europea.
Nello scenario peggiore, strozzati tra la Tripolitania turca che può riversare migliaia di migranti sulle coste italiane, e i nostri confinanti transalpini che sigillano le frontiere, rischiamo di diventare la stanza di compensazione degli squilibri geopolitici africani. Se il cappio al nostro collo dovesse divenire troppo stretto, potrebbe non restarci che l’uso della forza o la minaccia del suo uso, anche se all’interno di un’alleanza.
In uno scenario preferibile, occorre lavorare sui flebili segnali di speranza che potrebbero portare ad una Libia pacificata e liberata delle armate straniere.
La pressione internazionale spinge per il ritiro delle forze turche e russe, come ribadito dal Segretario di Stato USA Antony Blinken al G7 di maggio e dalla stessa Ministra degli Esteri libica al suo omologo turco. Gli europei sembrano aver ritrovato l’unità sul dossier libico, sia per il fallimento dell’offensiva di Haftar che ha indotto Parigi a cambiare fronte, sia – vogliamo sperare – grazie all’iniziativa italiana. La doppia missione di marzo in Libia del nostro ministro, prima in solitaria a preparare il terreno per la missione successiva con gli omologhi francese e tedesco, è stata un felice esercizio diplomatico.
Il mandato della missione navale dell’UE, Irini, incaricata di attuare l’embargo sulle armi e posta sotto guida italiana, potrebbe essere ampliato a ricomprendere anche il controllo del cessate il fuoco.
Le elezioni programmate per dicembre dovrebbero restituire piena legittimità alle autorità libiche. A quel punto, l’azione diplomatica italiana potrebbe adoperarsi per una sterilizzazione degli accordi turco-libici di delimitazione delle rispettive zone economiche esclusive e di cooperazione militare e per riattivare l’accordo italo-libico di amicizia del 2008.
In ogni caso l’azione italiana deve continuare ad essere per una piena ownership locale, coerentemente con la politica estera della nostra repubblica.
Il problema libico rimanda ai difficili rapporti con la Turchia. Il nostro approccio verso Ankara è di appoggiare «lo schema duale proposto dal Consiglio europeo tra possibili nuove misure restrittive e l’offerta di un’agenda positiva» – come indicato dal Ministro Di Maio
L’esplicita proiezione esterna della Turchia mira alla ricostituzione di una sorta di neo-impero ottomano nelle sue ex-provincie dei Balcani, del Nord Africa, del Medio Oriente fino al Corno d’Africa e alla costruzione di una patria blu da Gibilterra al Mar Rosso. Se non l’invasione di uno spazio storicamente e geopoliticamente italiano e lasciato colpevolmente non presidiato, senz’altro una minaccia per la nostra sicurezza. Stiamo improvvisamente scoprendo di avere un nuovo e ingombrante vicino il quale, a differenza di noi, persegue con determinazione i propri obiettivi strategici ed è pronto a soffrire per raggiungerli.
Come dice Draghi, occorre pensare ad una trattativa diretta col «dittatore con cui dobbiamo cooperare». Si potrebbe offrire alla Turchia una sponda per una soluzione mediana nella disputa circa la delimitazione dei confini marittimi con la Grecia. Un accordo con Ankara sarebbe gradito anche dagli USA, che hanno da sempre delegato al poliziotto turco il controllo dell’imboccatura del Mar Nero in funzione anti-russa. L’annunciata costruzione del Canale Istanbul (come parziale alternativa al trafficato Bosforo) e il minacciato recesso della Turchia dalla convenzione di Montreux potrebbero operare in tal senso.
Nel Mediterraneo orientale, «area attraversata da tensioni e dalla competizione per i diritti di sfruttamento delle risorse energetiche, punteremo anche sul potenziale offerto dalla cooperazione energetica». Uno dei nodi è il gasdotto del Mediterraneo orientale – il cosiddetto EastMed. Da un punto di vista strettamente economico sarebbe più conveniente portare il gas del Mediterraneo orientale in Europa facendolo confluire verso le infrastrutture della penisola anatolica piuttosto che costruire un costoso tubo sottomarino di collegamento tra Israele, Cipro, Creta e la Grecia continentale. Un eventuale do ut des potrebbe prevedere l’invito della Turchia al Forum del gas del Mediterraneo orientale (che al momento essa considera una sorta di coalizione ostile) in cambio di una soluzione alla questione di Cipro.
Di nuovo nella relazione del Ministro degli Esteri, anche «il Sahel è una priorità per l’Italia in virtù della sua importanza geostrategica a cavallo tra l’Africa subsahariana e l’area euro mediterranea… Dal 2020 partecipiamo alla coalizione per il Sahel dove stiamo dispiegando il nostro primo contingente nella task force Takuba per la lotta al terrorismo. L’Italia è anche un partner tradizionale dei paesi della regione sul piano dell’assistenza umanitaria, dello sviluppo sostenibile e della gestione del fenomeno migratorio».
La nostra accettazione all’invito francese di unirci alla task force Takuba è motivata dalla necessità di presidiare la regione dell’Agadez, confinante con la Libia e attraversata da flussi migratori, di terroristi e trafficanti. Essa si pone in continuità con la missione di supporto nel Niger avviata nel 2018 anche con l’obiettivo dell’addestramento delle forze speciali nigerine. Sarebbe auspicabile una suddivisione dei compiti in base alla quale la Francia si concentrerebbe sulla “zona delle tre frontiere” tra Mali, Niger e Burkina Faso, mentre l’Italia e altri alleati presidierebbero i confini meridionali della Libia. Un Paese con visione strategica accompagnerebbe l’assistenza militare e umanitaria alla conclusione di accordi commerciali, energetici e di cooperazione culturale.
Nonostante «anche il Corno d’Africa attraversa una fase complessa», sulla Somalia non andiamo oltre il «dedicare massima attenzione e proseguire nella lotta ad Al Shabab, favorendo il dialogo politico-istituzionale tra governo federale e stati federati». Il Paese è dilaniato da una lotta che vede contrapposti i jihadisti di Al Shabab, il governo federale, lo Stato dell’Oltregiuba e quello del Puntland. La Turchia ha due basi militari, addestra le forze somale ed ha concessioni per l’estrazione di idrocarburi. Erdogan è l’unico leader straniero ad aver visitato Mogadiscio negli ultimi vent’anni. Pirati somali infestano il Golfo di Aden attaccando mercantili stranieri e prendendone in ostaggio gli equipaggi.
In Etiopia ci limitiamo ad «auspicare il superamento della crisi in Tigrè e l’avvio di un processo di riconciliazione nazionale anche in vista delle elezioni di giugno», sempre citando il Ministro Di Maio. L’Italia è riuscita a costruire una buona relazione con Addis Abeba: dagli anni 2000 imprese italiane costruiscono infrastrutture energetiche, tra cui la diga GERD (Great Ethiopian Renaissance Dam), e nel 2019 abbiamo firmato un accordo di cooperazione militare. La GERD rischia di scatenare un conflitto per lo sfruttamento delle risorse idriche del Nilo azzurro. Egitto e Sudan chiedono una mediazione prima dell’entrata in funzione della diga e hanno minacciato Addis Abeba di intervento militare se dovesse riempire l’invaso della diga in meno di cinque anni. Il Presidente etiope e premio Nobel per la pace, Abiy Ahmed Ali, non accetta la mediazione di soggetti extra-africani e mira ad aprire una negoziazione da una posizione di forza, dopo il riempimento dell’invaso.
In Eritrea, dilaniata da 20 anni di guerra con l’Etiopia e dalla dittatura di Isaias Afewerki, il popolo è allo stremo. Gli Eritrei rappresentano uno dei contingenti di migranti più numerosi ad attraversare il Sahel e il Mediterraneo per raggiungere le coste italiane.
Il Corno d’Africa è strategico per l’Italia e l’Europa. Attraverso gli stretti di Bab el Mandeb e Suez transita il 30% del petrolio mondiale, il 20% del commercio container mondiale e più della metà dei commerci italiani. La sua pacificazione si lega a quella del resto dell’Africa sub-sahariana. Le sfide sono le stesse dai tempi della decolonizzazione: la ricerca di uno sbocco al mare per l’Etiopia, la gestione del bacino del Nilo, la lotta tra clan, il mancato sviluppo. Il progetto di una Federazione tra Etiopia, Eritrea e Somalia, consentendo la condivisione dei porti, andrebbe nella giusta direzione. Un piano per la stabilizzazione e lo sviluppo del Corno d’Africa, idealmente sotto la guida di Unione Africana, USA e Italia e con l’avallo dell’UE, potrebbe imprimere agli eventi la direzione desiderata. Un’iniziativa bilaterale italiana con i Paesi della regione potrebbe esservi prodromica.
Indispensabile è la cooperazione allo sviluppo, che «non è solo dovere morale ma anche strumento di politica estera», secondo il governo. Per dare forza propulsiva alla politica italiana di sviluppo, occorrerebbe trasformare la Cassa Depositi e Prestiti in una banca di sviluppo, sul modello della KfW tedesca e della Caisse des dépôts et consignations francese, dandole il mandato di investire nei Paesi del nostro estero vicino.
Tuttavia l’Italia, con le proprie sole forze, non è ovviamente in grado di cambiare la traiettoria dello sviluppo economico e sociale dell’Africa. Un ruolo decisivo possono svolgere le istituzioni finanziarie internazionali. L’allargamento del perimetro geografico di intervento della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo all’Africa sub-sahariana e il rafforzamento delle dotazioni di capitale della Banca Europea degli Investimenti, della Banca Mondiale e della Banca Africana di Sviluppo aiuterebbero molto.
In ultima analisi, occorre un nuovo modo di guardare al Mediterraneo allargato, non come fonte di problemi ma come bacino di opportunità. Se non ci sforzeremo di indirizzarne lo sviluppo economico-sociale continueremo a subire le conseguenze della nostra indifferenza. Il venturo trattato del Quirinale tra Italia e Francia è un’occasione per una cooperazione rafforzata sul Mediterraneo, anche attraverso la rivitalizzazione delle iniziative europee finora naufragate.