L’istruzione come spartiacque politico-ideologico dell’America

Il diverso livello d’istruzione – a partire dalla divisione basilare tra chi ha o non ha un diploma di laurea (college degree) – costituisce oggi una delle variabili fondamentali nel definire gli orientamenti politici e le scelte elettorali degli americani. È, insomma, uno degli indicatori chiave per studiarle, comprenderle e anche predirle, queste scelte. A patto, però, di non compiere l’errore di analizzarlo in modo isolato. Si deve invece storicizzarlo, contestualizzarlo e intrecciarlo ad altre variabili, primariamente socio-demografiche.

Lo abbiamo visto bene nelle ultime due tornate elettorali, le presidenziali del 2016 e il mid-term del 2018, quando la differenza nel voto tra laureati e non laureati è stata particolarmente marcata. Secondo le stime del Pew Research Center, nel 2016 Hillary Clinton vinse 57 a 36 il voto dei laureati, perdendo però 50 a 43 quello degli elettori privi di una laurea. Essendo i secondi quasi i 2/3 dell’elettorato complessivo il loro peso è assai maggiore e può risultare, come quattro anni fa, decisivo. Nel 2018, invece, i laureati votarono 59 a 39 democratico, mentre vi fu un pareggio (49-49) tra i non laureati.

I laureati, decisamente propensi al voto per i Democratici

 

Dati significativi, ma parziali questi, se essi non vengono mediati con altre variabili fondamentali, razza e genere in particolare. La frattura, e lo scarto elettorale così profondo, riguarda infatti quasi solo l’elettorato “bianco” (più o meno il 75% del totale nel 2016). I bianchi senza laurea – che sfioravano la metà dell’elettorato complessivo – votarono addirittura 64 a 28 per Donald Trump. Percentuale, questa, che scese sì (61 a 36) nel mid-term del 2018, ma rimase comunque elevatissima e che cambia ulteriormente se parametrata in base al genere: tra le elettrici bianche laureate, lo scarto nel 2018 fu di venti punti (59 a 39) a favore dei democratici; tra gli elettori maschi, i repubblicani prevalsero solo di 4 punti (51 a 47). Ricapitolando e semplificando: gli uomini bianchi senza laurea sono oggi il vero zoccolo duro dell’elettorato repubblicano; escludendo le minoranze, a essere particolarmente sovrarappresentate nell’elettorato democratico sono invece le donne laureate.

E però, se andiamo a introdurre un’ulteriore variabile, che è quella di reddito, scopriamo che anche questi assunti vanno in parte rielaborati o comunque qualificati. A parità di livelli d’istruzione bassi o medio-bassi (mancanza cioè di una laurea quadriennale o di un diploma biennale di un junior college), la percentuale di chi vota repubblicano cresce (e di molto) al crescere del reddito, raggiungendo un picco in una fascia di redditi mediani che stanno tra i 77mila e 135mila dollari. Ad avere trainato Trump alla vittoria nel 2016, come hanno mostrato bene innumerevoli studi, non è stata la mitica working class della Rust Belt, in una narrazione tanto romantica e, almeno in Italia popolare, quanto priva di fondamento alcuno.

Posto che il fattore primario è stata l’ampia defezione di elettori democratici – in Michigan Trump prese 600mila voti, il 20% in meno rispetto a Obama 2008 – il segmento elettorale cruciale è stato quello dell’elettorato bianco con livelli d’istruzione bassi o medio-bassi e redditi medi o medio-alti. Segmento questo dove preponderanti come professioni sono il commercio, la piccola (o piccolissima) imprenditoria e il lavoro autonomo.

Elettori di Trump in Michigan

 

Cosa ci dicono tutti questi dati? Come si spiega questo cleavage, determinato dai livelli d’istruzione sì, ma esclusivo solo dell’elettorato bianco (tra le minoranze la differenza è molto meno marcata e, almeno nel 2016, i repubblicani sono andati meglio con gli elettori laureati)?

In estrema sintesi, tre considerazioni – tra loro ovviamente intrecciate – possono essere offerte. La prima è di tipo storico. Il legame tra titolo di studio e scelte di voto va collocato dentro un processo di riallineamento elettorale che – sintetizzato (e spesso banalizzato) come crollo della coalizione del New Deal – ha connotato gli ultimi 50 anni. Dentro questo riallineamento, e procedendo per inevitabili approssimazioni, quell’elettorato bianco non laureato che costituiva il pilastro del partito democratico e del blocco newdealista, lo ha progressivamente abbandonato, prima al Sud e poi in altre parti d’America. Vari fattori vi hanno contribuito, su tutti la trasformazione dei democratici in una sorta di coalizione multicolore, attenta ai diritti civili e delle minoranze e meno incline a (o capace di) promuovere una politica di tutela dei diritti sociali e dei redditi declinata però a lungo in chiave monorazziale o comunque discriminando a favore della larga maggioranza di cittadini bianchi.

Trump, lo sappiamo bene, intercetta il risentimento e le paure di un pezzo di America bianca attratta sì dal messaggio essenzialista e nostalgico del suo nazionalismo bianco, ma anche sovrarappresentata in un preciso segmento socio-demografico (e in larga misura elettorale): quello di una middle-class a redditi stagnanti, spesso punita da una fiscalità regressiva di cui tende a essere la prima vittima, culturalmente conservatrice e sensibile a un messaggio di legge e ordine che i repubblicani hanno largamente egemonizzato dagli anni Settanta a oggi.

Questo ci porta a un secondo punto: gli effetti disomogenei, e anch’essi polarizzanti, delle dinamiche d’integrazione globale di cui gli USA sono stati indubbi protagonisti nell’ultimo mezzo secolo, ma dalle quali sono stati anch’essi pesantemente investiti. Diversi fattori hanno contribuito alle diseguaglianze di reddito (e di opportunità) sempre più marcate negli Stati Uniti contemporanei, a partire appunto da politiche fiscali che hanno largamente favorito i redditi più alti e da capitale.

Quota del reddito nazionale incamerato dal 10% più ricco della popolazione

 

Ha pesato però anche molto la de-industrializzazione del paese, la crescita di un’economia fondata su un terziario avanzato nella quale sempre più importanti sono alti livelli d’istruzione, flessibilità e capacità costante di riqualificarsi, maturando nuove capacità e competenze.

In nessun paese il legame tra istruzione, possibilità occupazionali e redditi è così marcato come negli Stati Uniti. Secondo gli ultimi dati del dipartimento del lavoro, chi ha un master o un dottorato guadagna in media circa tre volte in più di chi ha un semplice diploma di scuola media superiore (high school). Nel 2019 il tasso di disoccupazione era dell’1.1% per i primi e del 3.7% per i secondi (che saliva al 5.4 per chi non aveva neanche completato la high school). Semplificando molto, possiamo dire che si confrontano qui due Americhe bianche, vittime e beneficiarie della globalizzazione, nelle quali discriminante è il livello d’istruzione e la capacità d’inserirsi (e se necessario di competere) in una società di servizi avanzati che richiede conoscenze, adattabilità e, anche, disponibilità alla mobilità.

Società, terzo e ultimo punto, sempre più urbana-metropolitana e, anche, cosmopolita, questa. Sono i grandi agglomerati metropolitani quelli dove gran parte di questi servizi operano, si sviluppano e attraggono persone, spesso giovani, qualificate e con livelli d’istruzione alti o medio-alti. Geografia e livello di studio s’intrecciano e condizionano: il cleavage laureati/non-laureati e quello aree metropolitane/aree rurali (con le mille varianti e sfumature intermedie) sono strettamente interrelati. Nelle aree urbane o in quelle prossime a un’università e centri di ricerca, i democratici stravincono ovunque. Basta uscire però dalla contea di una larga municipalità e l’abbassarsi sia del livello d’istruzione media sia della densità abitativa sposta radicalmente verso destra l’asse politico.

È, questo, un fenomeno che sia pure in modo disomogeneo si manifesta in tutto il paese, anche in stati dominati elettoralmente dai repubblicani. Nella contea di Richland, dove sta l’area urbana di Columbia, capitale della South Carolina e sede di un’importante università – per usare un esempio paradigmatico tra i mille disponibili – nel 2016 Clinton vinse 64 a 31; se si passa alla limitrofa contea di Lexington, suburbana/exurbana e bianca, il risultato è completamente capovolto: Trump la vinse 65 a 29.

Tra le tante divisioni di un’America vieppiù polarizzata, politicamente ed elettoralmente, vi è anche quella prodotta dall’istruzione, quindi. Una variabile importante, ma non esclusiva né isolata e discreta, di un’equazione che ci restituisce oggi un paese spaccato in parti che sempre più faticano a interagirsi, riconoscersi e rispettarsi.

 

 

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