Il 2015 è stato un anno turbolento per l’integrazione europea. Tra i tanti avvenimenti, c’è il ritorno al centro dell’attenzione di uno strumento democratico tanto importante quanto poco controllabile dai protagonisti dell’arena politica: il referendum. Negli stati dell’UE se ne sono svolti, ne sono stati annunciati, ne sono richiesti davvero in gran numero.
Più che essere un sintomo della buona salute dei nostri sistemi, la corsa al referendum in realtà mette in luce il difficile stato del progetto comune europeo. Tra egoismi nazionali e visioni politiche a corto raggio, soprattutto su temi legati alla coesione sociale ed economica, alle libertà fondamentali e all’autodeterminazione dei popoli, il voto diretto viene chiamato a supplire all’incapacità dell’élite politica di integrare le volontà dei cittadini dei diversi stati membri.
Le scosse cominciarono già in gennaio. Allora, il partito ellenico di estrema sinistra Syriza, dopo una campagna euro-critica, conquistò il governo di Atene in alleanza con la piccola formazione nazionalista di destra Anel (a sua volta euroscettica), ponendo fine alla lunga alternanza bipolarista tra i conservatori di Nouva Democrazia e i socialisti del PASOK. Il leader di Syriza Alexis Tsipras si professava come il campione anti-austerità che avrebbe restituito orgoglio alla Grecia, imponendosi sui dettami finanziari della Troika, che sarebbero stati immediatamente rivisti.
Seguirono vari giri di walzer negoziali tra Atene e gli altri paesi dell’eurozona, infine troncati dal referendum indetto da Tsipras per il 5 luglio sul piano finanziario UE-Grecia. Il voto negativo del 61% dei greci è stato una netta sanzione negativa di un’Unione basata su accordi meramente economici. Ciononostante, fu subito dopo imposto ad Atene un programma finanziario se non più rigido, ugualmente “austero”. In sostanza, al mancato accordo economico si è aggiunto da parte europea il disinteresse per l’opinione degli elettori greci.
Mentre l’esperienza greca ha dunque sottolineato la fragilità dei presupposti democratici per una vera unione politica europea, il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’UE, annunciato per il 23 giugno, potrebbe di fatto distruggerne le basi istituzionali. Le elezioni del maggio 2015 hanno infatti visto il partito dei Conservatori di David Cameron riconfermarsi al governo proprio grazie alla promessa di un tale referendum. La strategia del Premier è stata quella di usare l’annuncio stesso del voto popolare come strumento di pressione per rinegoziare condizioni di membership più favorevoli – considerando che il tradizionale euroscetticismo degli inglesi fa ritenere più che possibile la vittoria degli anti-UE.
Il processo di integrazione politica, da sempre osteggiato dalla Gran Bretagna, rischia di uscirne a pezzi. In questo frangente, gli altri paesi membri dell’UE potrebbero fare sponda comune contro le richieste britanniche, elaborando una proposta di riforma politica da portare avanti con o senza Londra. Al momento, gli stati sembrano però anche molto concentrati sulle ripercussioni di una potenziale Brexit. In altre parole, se il governo britannico usa la minaccia di un “No” al referendum per spingere Bruxelles a fare concessioni, gli altri leader europei potrebbero cedere ad alcune richieste per questioni di egoismi nazionali, senza pensare al quadro comunitario in modo più lungimirante.
La prospettiva della Brexit e le conseguenze economiche che ne deriverebbero sono naturalmente malviste nelle capitali europee, anche per la possibilità che le forze anti-euro colgano l’opportunità per chiedere referendum analoghi in altri paesi. Questi timori spiegano una certa disponibilità a trovare un compromesso, e leposizioni più concilianti assunte in queste ultime settimane verso il Regno Unito, tra cui quella dell’Italia.
Anche nel caso spagnolo, un referendum, quello catalano, sta giocando un ruolo fondamentale nelle dinamiche politiche interne ed europee. Le elezioni di dicembre hanno visto il Partido Popular vincere senza ottenere seggi a sufficienza per governare (123 sui 176 che segnano la maggioranza assoluta). Ciò potrebbe aprire la strada ad una coalizione tra i socialisti del PSOE (90 seggi) e il partito emergente di estrema sinistra ed eurocritico Podemos (42 seggi). Ma è proprio la questione del referendum catalano a rendere impossibile tale accordo: Podemos sostiene il diritto della regione catalana di indire un referendum sull’indipendenza, opzione che invece i socialisti eviterebbero volentieri.
Come nel caso scozzese, la Commissione si è ritagliata un ruolo nella vicenda che non appare purtroppo costruttivo: quello di specificare che nella UE non ci sarebbe stato posto (almeno nell’immediato) per le regioni secessioniste da un paese-membro. Se in questo caso l’UE si è allineata ai governi nazionali, lo ha fatto a discapito di quei movimenti di opinione locali che, non trovando spazio nelle istituzioni comunitarie per esprimere il proprio sentimento identitario, potrebbero spostarsi sulle posizioni più eurofobiche che si stanno ormai da tempo affermando nel continente.
La vittoria del partito Diritto e Giustizia (PiS) in Polonia, la crescita continua del Front National in Francia e la deriva sempre più nazionalista dell’Ungheria di Victor Orban dovrebbero da questo punto di vista mettere in guardia le forze politiche che guidano l’UE, perché comincino a sincronizzare risposte politiche comuni al generale malcontento dei cittadini.
Ma, con un’economia europea che cresce a rilento (+1,9% nel 2015) e il 21 % di disoccupazione giovanile, i paesi dell’UE non sembrano avere lo slancio necessario, o semplicemente la visione di lungo termine, per procedere verso mete di integrazione politica più elevate. Come in passato, anche nella crisi attuale si privilegia l’integrazione economica per favorire (teoricamente) la crescita e raggiungere benefici materiali che sarebbero tali da legittimare, di per sé, le istituzioni comunitarie.
Senza riforme politiche però, la UE finirebbe prima o poi per collassare riducendosi nel migliore dei casi a un mercato unico. Per evitarlo, si dovrebbe avere il coraggio di lanciare un disegno innovativo; dando maggior potere alle istituzione europea più democraticamente rappresentative, a cominciare dal parlamento, di poter legiferare direttamente su un vasto numero di politiche economiche e sociali. Di fatto questa idea è stata più volte sostenuta da diversi paesi, Italia in primis, ma l’implementazione rimane ancora lontana, soprattutto con un Europa a 28 teste.
All’inizio del 2016 i membri della grande famiglia europea sembrano guardare gli uni e gli altri con sempre maggiore sospetto, e a suonare la stessa musica (quasi sempre critica con le istituzioni di Bruxelles, quasi che si trattasse di un corpo estraneo) come menestrelli impauriti. Servono invece nuove melodie sulla cui base rilanciare una progressiva unione politica. Al momento, come affermato dal presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, nel suo discorso al parlamento dello scorso settembre, “non c’è abbastanza Europa in questa Unione”, e “non c’è abbastanza unione in questa Unione.”