Nel 1993, mentre la Russia si avventurava nella terra di nessuno tra l’economia di comando e quella di mercato, Daniel Yergin e Thane Gustafson scrissero un bel libro per immaginare quale destino potesse essere riservato a questo paese in un futuro allora lontano: Russia 2010.
Nella cornice di un sistema capitalista che si prevedeva “in stile russo”, gli autori proponevano quattro scenari. “L’aquila bifronte” (centrato sulla ricostruzione di un potere centrale forte, radicato nell’alleanza tra grandi industriali, burocrati, militari e forze di sicurezza); muddling down (il disfacimento disordinato dello Stato sovietico); un nuovo “periodo dei torbidi”, che prevedeva lo sgretolamento della Federazione seguito da una reazione e dall’imposizione di una dittatura; infine chudo (in russo, miracolo). È lo scenario in cui la Russia mette a frutto le proprie risorse naturali e umane per costruire, con il contributo del potere politico, un miracolo economico.
NEL NOME DELLA STABILITÀ. Rileggere il libro di Yergin e Gustafson, ora che quel futuro lontano è ormai alle nostre spalle, è illuminante: quale ipotesi si è avverata? Alla Russia di oggi appartengono caratteristiche tratte un po’ da tutti gli scenari proposti. Con una netta prevalenza del primo: l’aquila a due teste che guarda contemporaneamente al proprio passato e controlla il futuro. Tenendo rigidamente al centro lo Stato forte.
Russia 2010 è lungimirante perché all’epoca, nel 1993, non era ancora apparso sulla scena Vladimir Putin, l’uomo attorno a cui il paese ha iniziato a ruotare a partire dal 2000, e che nei primi anni di potere ne ha completamente trasformato le prospettive economiche. Gli anni Novanta erano stati confusione, privatizzazione senza regole, inflazione alle stelle, dipendenza dagli aiuti internazionali, default. Arrivò Putin e disse: mai più. I suoi primi passi, resi possibili da una congiuntura favorevole per i prezzi del petrolio, dalla svalutazione competitiva del rublo e dalla stabilizzazione politica – elementi che permisero all’economia di crescere dai 196 miliardi di dollari dell’anno 2000 ai 2.290 del 2013 – furono segnati dalla decisione di destinare queste risorse alla drastica riduzione dell’indebitamento del paese, ora tra i più bassi al mondo, e di ricostituire così una solida base di riserve con cui affrontare nuove crisi.
Una linea conservativa nel nome della stabilità, anche a scapito della crescita. Mai abbandonata: la chiave per seguire ogni mossa della dirigenza russa, sul fronte economico come politico. Linea ancora più marcata dopo il 2014, anno spartiacque per i rapporti tra Russia, Europa e Stati Uniti, con la scelta del campo occidentale da parte dell’Ucraina, l’ex “repubblica sorella”. Da allora il legame è entrato in un circolo vizioso che negli anni non ha fatto che peggiorare. Rafforzando a Mosca la convinzione di essere una fortezza assediata – immagine utile al potere per alzare barriere, ribaltare ogni responsabilità su “nemici esterni” e giustificare le scelte autoritarie e la difesa della stabilità del regime con ogni mezzo.
Lo ha dimostrato il modo in cui il governo ha gestito gli interventi a sostegno dell’economia, nella fase più acuta della crisi Covid-19. Questa volta, grazie alla solidità fiscale del paese, il governo si sarebbe potuto permettere di allentare i cordoni della borsa. E invece i sussidi sono stati distribuiti con grande parsimonia, per non intaccare troppo il patrimonio di riserve e l’equilibrio dei conti pubblici, pur cercando di attutire il colpo della crisi sui più vulnerabili: le famiglie con bambini, i genitori soli, chi vive sotto la soglia di povertà.
LA SOLITUDINE DEGLI IMPRENDITORI. Il discorso sullo stato della nazione pronunciato da Putin nell’aprile 2021 – di fatto una lista di aiuti mirati, slogan e promesse dal sapore fortemente elettorale (la misura più citata è un contributo una tantum di 10.000 rubli – 110 euro circa – per ogni scolaro, consegnato in agosto giusto a un mese dalle elezioni parlamentari di settembre) – è stato un’ulteriore conferma delle priorità del Cremlino. Contributi sporadici, non di livello nazionale come la sperata indicizzazione delle pensioni. Ma interventi sufficienti per contenere il malcontento sociale, dando comunque un motivo per votare il partito del potere.
Nei mesi della pandemia, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale hanno invocato più volte una maggiore generosità: ma dopo un esborso complessivo nel 2020 pari a 42.000 miliardi di rubli (464 miliardi di euro) l’austerità è rapidamente ritornata. E il governo calcola che gli interventi promessi in aprile ammontino in totale a 400 miliardi di rubli in due anni, meno di 4,5 miliardi di euro. Con aiuti così contenuti, secondo l’analista politica Tatiana Stanovaya, “non si creano le condizioni per una crescita solida del livello di vita, dei redditi, dell’occupazione. Sembra che Putin non afferri la gravità dei problemi sociali”.
In poche battute il presidente russo ha chiesto al governo di definire nuove forme di sostegno per le piccole imprese, invito che ricorre puntualmente nei discorsi. Ma che non si traduce nei fatti: il settore privato non è al centro delle preoccupazioni del Cremlino. Di fatto, i piccoli imprenditori e tutte le attività di servizio legate all’interazione sociale hanno subìto il colpo più pesante della crisi sanitaria. Costretti ad assorbirlo da soli, mentre lo Stato teneva al riparo la grande industria pubblica e i suoi dipendenti, inclusi nell’ambita lista delle compagnie “di importanza sistemica” con accesso a prestiti agevolati e schemi di sostegno salariale.
Le dimensioni del settore privato in Russia sono molto più contenute rispetto alle altre grandi economie, e anche questo spiega il declino limitato del pil nel 2020. Ma dalla pandemia i privati e i servizi sono usciti fortemente ridimensionati. Alberghi, ristoranti e bar, palestre, parrucchieri, fiorai, tassisti. Le piccole aziende lamentano aiuti insufficienti: estesi comunque non in forma di esborsi diretti, ma come rinvii delle scadenze fiscali o dello spettro della bancarotta. Aiuti complicati da burocrazia e requisiti che spesso ne scoraggiavano la richiesta. Se un terzo delle aziende considera il 2020 come l’anno peggiore della propria storia, il 2021 rischia di essere anche peggio: finito il periodo di “grazia”, verrà il momento di rimborsare i debiti. Proprio nel momento in cui un’azienda avrebbe bisogno dei mezzi per ripartire.
La fotografia dell’economia russa uscita dal trauma del coronavirus è dunque a due facce. La conferma di una posizione finanziaria solida, con un debito tra i più bassi al mondo e il quarto posto invece per riserve in oro e valuta, una recessione contenuta al -3,1%. Dati che da soli non rivelano il vero costo economico della pandemia. Nel momento di dare basi alla ripresa, in Russia la domanda fatica a riprendersi, riflesso di un calo dei redditi iniziato ben prima dell’era Covid. Cambiano i consumi, dimostrando le difficoltà delle famiglie. Mentre il futuro viene ulteriormente complicato dalla ripresa dell’inflazione.
È una delle variabili che il governo teme di più, soprattutto riguardo ai generi alimentari. L’aumento dei prezzi riflette una tendenza globale, legata ai primi segnali di ripresa, ma in Russia risente anche delle tensioni geopolitiche che – passando per le sanzioni internazionali – hanno indebolito il rublo. Determinato a contenere sul nascere una spirale pericolosa per gli equilibri interni, il regime è ricorso a un rimedio dal sapore sovietico, imponendo sussidi per un certo numero di prodotti, come olio di girasole o zucchero. Mossa criticata dalla Banca centrale di Elvira Nabiullina come “distorsiva”: ma il ritorno dell’inflazione ha costretto la stessa Banca Rossiya a interrompere la lunga fase accomodante di politica monetaria iniziata più di due anni prima. Anche se questo penalizzerà la crescita. Ma il Cremlino la vuole davvero?
La pandemia ha ostacolato i piani di Putin per avviare una serie di grandi Piani nazionali – in origine un progetto da 360 miliardi di dollari – destinati a iniziative ambiziose, come negli anni scorsi la costruzione del ponte di Crimea, gli stadi dei Mondiali di Calcio 2018, gli impianti olimpici nell’area di Sochi. L’impostazione è la stessa: l’iniziativa, le prospettive di crescita restano in mano allo Stato, determinato a mantenere il controllo togliendo ossigeno alla libera iniziativa privata, a meno che non rappresenti gli interessi di chi fa parte della cerchia del potere.
I RISCHI DI UN’ECONOMIA SENZA CRESCITA. La Russia che ha retto bene nell’anno più difficile, calcola l’OCSE, ora scende in fondo all’elenco nelle previsioni di crescita. Quanto può durare la stabilità se un’economia è incapace di generare crescita? Per rivitalizzare il paese e affrontare i grandi problemi strutturali, ripetono gli economisti e l’FMI, ci vuole il motore della fiducia dei consumatori e degli imprenditori, una riduzione del ruolo dello Stato, riforme che limitino le regole e aumentino la concorrenza, apertura agli investimenti interni e dall’estero. La direzione opposta a quella che la Russia ha imboccato: fortezza che gioca in difensiva e che il gelo sceso sui rapporti con una parte del mondo ha convinto a isolarsi sempre di più, verso l’autarchia economica.
È questo il grande costo delle sanzioni, soprattutto ora che la Russia le ha sperimentate e ha creato gli anticorpi per rendersi sempre più autosufficiente: sa di potercela fare anche da sola, con la politica di sostituzione delle importazioni che ha rapidamente sviluppato settori produttivi prima trascurati e con la golden rule che gestisce con grande cautela i proventi del petrolio e il loro contributo al budget, in modo da rendere il rublo meno dipendente dall’andamento dei mercati. Aspettandosi sanzioni sempre più severe, la Russia ha ridotto la propria esposizione al dollaro, negli investimenti e negli scambi commerciali, e la dipendenza dalla raccolta di capitali esteri.
Una tendenza inquietante, che esclude sempre di più il contributo esterno alla crescita e comunque mantiene una rigorosa gestione dall’alto dello sviluppo economico. Il confronto con Europa e Stati Uniti, inoltre, si è acutizzato nel momento in cui il regime entrava nella delicatissima fase finale dell’era Putin, di cui nessuno all’esterno delle mura del Cremlino sa prevedere tempi e modi. Ma è chiaro che le pressioni esterne e interne hanno reso il sistema ancora più determinato a preservarsi a ogni costo, sacrificando tutto nel nome della stabilità. Indicativo il caso dell’arresto di Alexey Navalny, nel gennaio 2021: anche nel mezzo di una grave crisi economica e sanitaria, le autorità non hanno esitato a compiere un passo che mette a rischio progetti cruciali come il gasdotto Nord Stream 2, pur di mettere a tacere quella che considera una minaccia inaccettabile.
CON SOPPORTAZIONE MA SENZA FIDUCIA. Un’economia in stagnazione, il destino della “povertà moderata” per milioni di famiglie. Quello del Cremlino è un gioco d’azzardo. “Non abbiate paura”, ripete Navalny dal carcere invitando i sostenitori a ribellarsi a un paese che nega un ruolo e una prospettiva a chi non fa parte del sistema. “Il nostro paese scivola nel buio”, scriveva l’oppositore nei giorni dello sciopero della fame. “Nel XXI secolo, un popolo ricco delle risorse che ha la Russia diventa ogni anno più povero. Non ci sviluppiamo, restiamo sempre più indietro. […] Per qualche tempo sarà difficile, e buio. Ma coloro che tengono indietro la Russia sono segnati. Noi siamo di più. La Russia sarà felice.”
La svolta verrà dal popolo di Navalny? Secondo l’economista Vladislav Inozemtsev, i russi – abituati da sempre a sopportare le difficoltà economiche – non protesteranno. Almeno, non così tanti da rovesciare il sistema. Il 13,3% di loro – 19,6 milioni – vive sotto la soglia di povertà; il calo sistematico dei redditi – diminuiti del 10,5% dal 2013 – è diventato la norma.
Eppure la maggioranza non è disposta a combattere per cambiare. La considerano una missione impossibile, e sanno bene cosa significa perdere tutto a causa dell’inflazione: il ricordo degli anni Novanta è ancora vicino. Anche loro hanno bisogno di stabilità, e pur di migliorare la propria situazione economica accettano di seguire le regole del sistema: “Sono arrabbiati – diceva un osservatore attento come Ben Aris all’agenzia Bloomberg – ma non pronti a rischiare quello che hanno raggiunto”. I grandi squilibri tra ricchezza e povertà, la negazione di un ruolo a intelligenza e innovazione: “Le previsioni di crescita non dicono nulla di buono per il futuro”, spiega l’economista Evgheny Gontmakher.
Sono possibili altri scenari? Nel lungo termine il sistema attuale non appare sostenibile. Nelle diverse realtà locali, i russi chiedono sempre più voce in capitolo almeno sui problemi che li riguardano da vicino: dalla gestione delle discariche allo stato degli ospedali, dai trasporti pubblici alle opportunità di lavoro per i figli. Sono soprattutto loro a protestare. “Hanno rubato il futuro a una generazione”, osservava Gontmakher, commentando sul canale Dozhd le proteste seguite all’arresto di Navalny. “Improvvisamente si sono resi conto che letteralmente non ci sono prospettive di migliorare la propria vita. Hanno perso la speranza di diventare classe media, loro che chiedono non aiuti ma spazio per realizzare le proprie possibilità.”
La crescita di un’economia si basa sulla fiducia nel futuro. I filoni lungo cui si sta incamminando l’economia globale – transizione verde, nuove tecnologie, digitalizzazione – potrebbero aiutare le nuove generazioni russe a invertire la marcia che vorrebbe allontanarle dal resto del mondo. Non ci è dato sapere se il “dopo Putin” partirà da un cambiamento radicale dell’attuale regime, o se un volto nuovo nascerà dall’interno del sistema. Quanto allo scenario, forse il più auspicabile è nascosto nelle parole di un ministro citato da Yergin e Gustafson, allora al governo: “Noi vogliamo che la Russia sia un paese normale”.
*Questo articolo è stato pubblicato sul numero 93 di Aspenia