Sembra ancora di sentirlo Yoon Suk-yeol mentre intona una delle melodie emblema del “sogno americano”: “Bye-bye Miss American Pie…”. E’ il 27 aprile 2023 e il presidente sudcoreano, alla sua prima visita ufficiale a Washington, intrattiene i commensali con un’inattesa performance canora. C’è clima di festa alla Casa Bianca. L’alleanza con Seul compie settant’anni, e l’esponente della destra sudcoreana sembra pronto a raccogliere l’appello di Joe Biden: farsi promotore dei valori democratici in Asia. Difendere “l’ordine mondiale basato sulle regole” per contenere le autocrazie regionali: Corea del Nord e Cina, ma anche la Russia sempre più presente nel Pacifico.
Ricordi lontani. Il 3 dicembre 2024 Yoon ha dichiarato la legge marziale sconvolgendo la Corea del Sud e sorprendendo il mondo. Il regime militare – imposto per contrastare presunte “forze comuniste nordcoreane” – è durato solo poche ore. Ma la folle decisione del presidente, bloccata dal parlamento, rischia ormai di avere ripercussioni ampie e durature. Da qui ai prossimi cinque mesi la Corte Costituzionale dovrà esprimersi sulla procedura di impeachment fortemente voluta dall’opposizione. Se confermata la messa in stato d’accusa del presidente, entro 60 giorni verranno indette nuove elezioni.
In qualsiasi caso per Seul inizia una fase di precarietà, con possibili ricadute internazionali. Nell’attesa di un verdetto i poteri sono nelle mani del ministro delle Finanze Choi Sang-mok, figura di transizione senza mandato popolare, a cui ora spetta il compito di tenere insieme i pezzi del Paese: il Partito del Potere Popolare (PPP) – al governo ma senza maggioranza in parlamento – è lacerato da vecchi e nuovi correntismi, mentre parte dell’amministrazione fronteggia indagini penali per complicità nel tentato “golpe”. Difficile che le convulsioni lascino alla Corea del Sud la concentrazione per occuparsi di altro.
Certo, il Paese ha una lunga tradizione di involuzioni autoritarie. Ma l’immagine dei carri armati per le strade di Seul sembrava ormai sepolta tra le pagine della storia. Rivederla oggi, dopo quarant’anni, è un duro colpo per la reputazione internazionale di una delle più fulgide democrazie asiatiche. Una reputazione che Yoon aveva contribuito a consolidare, malgrado la scarsa sensibilità personale per i diritti civili. Bersagliato da scandali e critiche in patria, i migliori successi il presidente li ha riscossi proprio all’estero: il rafforzamento del partenariato con l’alleato americano, il riavvicinamento con il Giappone, nemico storico, e il consolidamento del ruolo di media potenza nel contesto globale.
Con Yoon, la Corea del Sud è diventata tra i partner più stretti della NATO, nonché un interlocutore sempre più attivo in Ucraina, soprattutto dopo l’ingresso in guerra dei militari nordcoreani al fianco di Putin. Ora la crisi politica rischia di mandare in frantumi quanto costruito in questi due anni e mezzo. Quel che è peggio, il terremoto politico coincide con una fase di crescente instabilità nell’Asia-Pacifico. Da una parte monta la minaccia nucleare del regime nordcoreano, dall’altra aumenta l’assertività della Cina attorno allo Stretto di Taiwan. Nel mezzo c’è la Russia che, contesa tra Pechino e Pyongyang, soffia sul fuoco delle varie crisi regionali un po’ ovunque nel mondo.
Ammettendo il problema, il ministro degli Esteri Cho Tae-yul ha promesso di “normalizzare la situazione il più presto possibile” per riconquistare la fiducia tra la comunità internazionale. Ma nell’immediato i disordini domestici rischiano di distogliere la classe dirigente dagli impegni di politica estera. Secondo diversi analisti consultati dal Korea Herald, la transizione in corso a Seul potrebbe apportare cambiamenti significativi ai sodalizi regionali “nel giro di sei nove mesi”.
A scricchiolare è soprattutto l’allineamento con gli Stati Uniti, già messo alla prova dal ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump. Se l’”America First” rappresenta di per sé un’incognita, un doppio avvicendamento a Seul e Washington rischia di compromettere il coordinamento tra i cosiddetti “Paesi con idee simili” (“like minded countries”) – ovvero democratici (o sedicenti tali) – su cui ha fatto affidamento Joe Biden per contenere Russia, Cina e Corea del Nord (oltre a Paesi come l’Iran in altri scacchieri). Senza contare la precaria tenuta dell’attuale governo a Tokyo, a sua volta in una delicata fase di assestamento.
I sommovimenti a Seul non sono una buona notizia per gli USA. Legge marziale a parte, la deludente gestione di Yoon e del PPP lascia presagire un ritorno dei democratici in caso di voto anticipato. Un precedente, d’altronde, c’è già: l’impeachment dell’ex presidente Park Geun-hye nel 2016, seguito dalla vittoria elettorale del progressista Moon Jae-in. Nonostante i molti guai giudiziari, stavolta le urne potrebbero premiare Lee Jae-myung, il segretario del partito democratico sconfitto per un pelo alle scorse presidenziali. Un cambio di colore alla Casa Blu vedrebbe traballare il riavvicinamento al Giappone e l’approccio duro di Yoon verso la Corea del Nord e la Cina. Postura sostenibile con Biden nello Studio Ovale. Ma con la nuova presidenza, la politica statunitense in Asia subirà verosimilmente alcune modifiche. Tra le altre cose, Trump ha già manifestato l’intenzione di alzare da circa 1 miliardo a 10 miliardi di dollari il contributo annuo chiesto a Seul per il mantenimento dei 30mila soldati statunitensi di stanza nel Paese.
Negli ultimi giorni il ministro Choi (in qualità di presidente ad interim) ha personalmente rassicurato tanto Biden quanto l’omologo nipponico, Shigeru Ishiba, sottolineando l’importanza di “mantenere forti legami con gli Stati Uniti e il Giappone in termini di sicurezza nazionale”. Parole che, se nel caos generale risultano già deboli, in caso di un cambio di governo diventerebbero del tutto vuote. D’altro canto, l’amicizia con Tokyo è recente e impopolare. Specialmente perché ormai associata al compromesso concordato da Yoon sul risarcimento alle vittime sudcoreane dei lavori forzati durante l’occupazione nipponica all’inizio del Novecento. Se salta il rapprochement col Giappone, salta il “triumvirato” con gli Stati Uniti, sfilacciando la rete di sicurezza americana nell’Indo-Pacifico.
Non serve dirlo, a beneficiare dell’improvvisa introversione di Seul potrebbe essere innanzitutto Kim Jong-un. Oltre all’impeachment di Yoon, il tentato “colpo di Stato” si è concluso con destituzioni di massa tra gli apparati militari. Dopo l’arresto dell’ex ministro della Difesa Kim Yong-hyun, sorte simile è toccata agli ex capi del Comando speciale di guerra e del Comando di difesa della capitale, Kwak Jong-geun e Lee Jin-woo, accusati di aver guidato l’irruzione militare all’interno del parlamento quel fatidico 3 dicembre. Mentre l’ex comandante del controspionaggio Yeo In-hyung e il capo dell’esercito, il generale Park An-su, sono perseguiti per aver svolto un ruolo decisivo nell’applicazione della legge marziale.
Il terremoto tra le forze armate sudcoreane altererà gli equilibri strategici nella penisola? Non è da escludere. Per ora, Pyongyang non ha espresso particolare interesse per gli sviluppi al Sud, ostentando un’indifferenza che ricorda la postura defilata mantenuta all’epoca della destituzione di Park. Ma non serve grande immaginazione per intuire cosa spera Kim. Lasciando intendere probabili variazioni in politica estera, la prima mozione di impeachment introdotta dall’opposizione criticava fortemente la linea Yoon. In particolare il presidente veniva accusato di essersi opposto “alla Corea del Nord, alla Cina e alla Russia ignorando l’equilibrio geopolitico” e provocando l’“isolamento [di Seul] nel nord-est asiatico, innescato una crisi di guerra e abbandonato la sicurezza nazionale e il dovere di proteggere il popolo”. Kim, che già attende di sedersi nuovamente al tavolo con Trump, può ragionevolmente auspicare in un governo più dialogante.
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Anche a Pechino si fregano le mani. Nella Repubblica Popolare, dove impera il “socialismo con caratteristiche cinesi”, ogni fallimento della democrazia viene osservato con un certo compiacimento. Per quanto un altro focolaio di instabilità vicino ai confini nazionali certamente non rassereni il presidente Xi Jinping e compagni. Ma la possibile rimonta dei progressisti a Seul, generalmente più concilianti, potrebbe fare gioco alla Cina. Lo spiegava molto chiaramente Lee Seong-hyon dell’Harvard University in una vecchia analisi per la rivista East Asia Forum: “Durante il mandato di Moon Jae-in, la Corea del Sud è diventata uno dei Paesi più anti-cinesi al mondo. Eppure quello di Moon è stato in realtà il governo più ‘pro-Cina’ nella storia della Corea del Sud”. Parere espresso ancora prima che a novembre venisse rivelato il sabotaggio messo in atto dalla precedente amministrazione per ritardare l’installazione nella penisola del sistema missilistico americano THAAD, come caldeggiato da Pechino. Da allora i tempi sono cambiati, la Repubblica Popolare è più aggressiva, ma la visione dell’opposizione resta grossomodo la stessa.
A marzo, durante la campagna elettorale per le legislative, il leader democratico Lee aveva accusato Yoon di aver messo a repentaglio le relazioni cinesi con provocazioni inutili. Pechino, che mal tollera ingerenze esterne, non ha mandato giù di sentir definire Taiwan “una questione globale”. E l’export sudcoreano verso la Repubblica popolare è crollato del 20% nel 2023; anche a causa del coinvolgimento indiretto nella “chip war” sferrata dagli Stati contro la Cina. Con queste premesse, non stupirebbe quindi vedere i progressisti assumere una politica più equidistante tra le due superpotenze. D’altronde, a porre le basi per il disgelo è stato proprio Yoon. Incontrando l’omologo cinese Xi Jinping a margine dell’APEC di Lima, a novembre il presidente sudcoreano aveva dichiarato non solo che i due paesi devono “cooperare per promuovere la stabilità e la pace nella regione” in risposta alle provocazioni di Pyongyang. Aveva inoltre sottolineato l’importanza delle sinergie nel settore economico, definite “l’asse centrale delle relazioni bilaterali degli ultimi 30 anni”. Quindi l’intenzione di riannodare il rapporto c’era già; contano poco le recenti accuse di spionaggio lanciate da Yoon contro Pechino nel momento di massima disperazione.
Difficile riuscire a battere per sintesi e chiarezza Danny Russel, vicepresidente dell’Asia Society Policy Institute che, prevedendo l’arrivo di una nuova dirigenza progressista, descrive la futura diplomazia sudcoreana in termini di “appeasement con la Corea del Nord, deferenza verso la Cina, ostilità verso il Giappone e scetticismo nei confronti degli Stati Uniti”. Certo, la volatilità di questi giorni non fa bene al profilo internazionale di un Paese che negli ultimi anni si è posto come interlocutore per la NATO e l’Unione Europea.
Eppure l’allontanamento di Seul da una visione “binaria” potrebbe contribuire a creare un ponte tra gli alleati occidentali e i paesi corregionali. Prendiamo l’Ucraina: la contrarietà dei democratici all’invio di armi letali a Kiev non trova solo riscontro tra l’opinione pubblica sudcoreana. È anche la posizione favorita dalla maggioranza dei Paesi asiatici. Dal voto popolare potrebbe quindi emergere una Corea del Sud meno allineata, più autonoma e spregiudicata. La democrazia in fondo è anche questo.