La pandemia e i suoi impatti sanitari prima o poi si attenueranno. Forse scompariranno del tutto, come avvenuto nel passato anche per le guerre, le carestie e i disastri naturali e antropici. Beninteso, rimangono imprevedibili: la “saga” del coronavirus potrà essere scritta solo ex-post. In ogni caso, gli impatti economici e quelli geopolitici interni ai singoli Stati, alle istituzioni multilaterali come l’UE, e alle organizzazioni internazionali, permarranno più a lungo. Saranno fortemente condizionati dalle decisioni che verranno prese.
Talune conseguenze saranno permanenti. Avranno rilevanti conseguenze sull’ordine internazionale, sia economico e finanziario sia geopolitico. In particolare, influenzeranno i rapporti d’influenza e di potenza tra Stati Uniti e Cina, che riguardano in modo sempre più rilevante il cosiddetto soft power.
Tra le due superpotenze, che continueranno a dominare il nuovo ordine bipolare, è in atto una serrata battaglia diplomatica, connessa proprio con il coronavirus. La strategia statunitense è centrata sull’accusa alla Cina di avere non solo provocato la pandemia – chiamata da Trump “the Chinese virus” e da Mike Pompeo “the Wuhan flu” – ma di averne nascosto l’esistenza nei primi cruciali mesi, nei quali poteva essere contenuta e neutralizzata.
La strategia di Pechino è più sofisticata e indiretta. Pechino continua a esaltare la grande vittoria del Partito Comunista sul virus. Punta sulla volontà di cooperare con tutti e di fornire loro medici e materiali sanitari. L’obiettivo è rafforzare il peso internazionale di Pechino, divenuto campione del multipolarismo. Xi Jinping ha dato segni d’irritazione solo con l’espulsione, senza clamori, di vari giornalisti americani che contestavano trucchi e astuzie della sua “narrativa”, che aveva trasformato un disastro in un successo comunicativo e di prestigio.
La strategia cinese si è rivelata molto efficace, approfittando delle indecisioni di Trump. Ha attecchito anche in Italia. Difficile dire se l’ossessiva ripetizione da parte dei media italiani dell’arrivo di qualche decina di medici e tonnellate di materiale sanitario dalla Cina, sia dovuto alla propaganda di Pechino o a sollecitazioni da parte del governo. E’ possibile che alcuni cerchino in qualche modo di giustificare (a posteriori) il controverso Memorandum of Understanding siglato nel marzo 2019 con la Cina sulla Via della Seta, senza contropartite significative. Fu una scelta criticata da molti governi, e con buone ragioni.
In ogni caso, la tempistica della propaganda cinese è stata perfetta. Gli aiuti cinesi sono arrivati nel momento del nostro massimo bisogno, quando eravamo disperati per il blocco delle forniture sanitarie da parte dei partner europei. Il comportamento di questi ultimi è stato egoistico (la Germania ha poi rimediato). Vi è da aggiungere che lo strepitoso successo della narrativa cinese è stato preparato prima e consolidato poi dalle generose donazioni di Pechino alle istituzioni sanitarie internazionali, in particolare all’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), particolarmente maltrattate dall’Amministrazione Trump.
Gli USA hanno rifiutato di assumere la leadership della risposta internazionale al coronavirus, a differenza di quanto avevano fatto con il SARS e l’Ebola. Alibaba ha in qualche modo umiliato l’America donandole materiale sanitario. Questo smacco potrà essere compensato solo se i laboratori americani metteranno a punto un vaccino efficace per poi distribuirlo gratuitamente a livello globale, nonché mobilitando, come per l’Ebola, la loro potente sanità militare.
La competizione sino-americana è una vera guerra sanitaria, con una forte componente informativa, condotta con il soft power, e influirà sul futuro ordine mondiale. Il Coronavirus sta infatti mutando i rapporti di potenza economica e forse anche finanziaria nel mondo e la possibilità del loro uso geopolitico. Rafforza la tendenza a ritenere l’Occidente in declino e la Cina in crescita. La crisi dell’economia mondiale non provocherà solo una diminuzione delle interconnessioni esistenti sia sul lato della domanda che su quello dell’offerta; non accelererà cioè solo la de-globalizzazione. Diminuirà l’efficienza e aumenterà i costi delle produzioni. Stimolerà il nazionalismo economico, volto in particolare a ridurre la dipendenza delle economie europee e americana dalle forniture di componentistica estera, in particolare cinese. Il blocco dell’economia cinese ha fermato intere filiere produttive in Europa e negli USA. Si provvederà dunque a una revisione della ripartizione della catena del valore. E’ prevedibile la crisi, se non il collasso, d’interi settori, dal turismo ai trasporti aerei e marittimi. Gli Stati più forti saranno in grado di soddisfare le loro esigenze di ristrutturazione economiche, ma quelli più vulnerabili, con alti livelli di debito e con economie export led (specie se relative alla componentistica e non a prodotti finiti) dovranno affrontare maggiori difficoltà, se non crisi profonde.
L’impatto del coronavirus si sommerà così ad altri fattori che già spingono verso una “de-globalizzazione”, trainati dalle tendenze alla nazionalizzazione, la cui più evidente espressione è la “guerra dei dazi” di Trump verso la Cina e l’Europa, componente essenziale della dottrina dell’“America first”. La tregua recentemente concordata fra Washington e Pechino è già diventata inattuabile: la Cina non potrà mai acquisire i 200 miliardi di dollari di prodotti agricoli americani, incluso l’LNG da shale, concordati fra Trump e Xi.
La lotta contro il coronavirus, retoricamente chiamata “guerra per la salute” da un numero crescente di governi, avrà effetti profondi nell’accelerare taluni mutamenti anche istituzionali già avvertibili in tutte le democrazie rappresentative e liberali. La crisi di questi sistemi politici ha cause sia oggettive che soggettive.
Tra le prime, va ricordato che l’aumento del welfare automaticamente diminuisce la solidarietà, sia interna che internazionale, aumentando gli egoismi e la paura di perdere i benefici di cui si gode. Inoltre, i social media consentono relazioni dirette fra i governanti e gli individui, neutralizzando i corpi intermedi e personalizzando la politica. Diminuisce così la razionalità della politica, a favore della rapidità delle decisioni e delle emozioni del momento. Tale tendenza è accelerata dagli inevitabili ritardi della presa di decisione nelle democrazie rappresentative. Nel contempo, generale è la tendenza in tutto l’Occidente di limitare la privacy e le libertà individuali. Basti pensare al controllo dei telefoni mobili dei cittadini contagiati dal virus, assegnato in Israele ai Shin Bet cioè al controspionaggio, ma praticato da molti paesi (compresa l’Italia) per controllare il rispetto delle restrizioni poste ai movimenti fuori casa, previste dalle regole governative.
Il termine “guerra” è stato certamente impiegato proprio per giustificare tali misure eccezionali, necessarie per fronteggiare una situazione eccezionale, oltre che per contribuire con la sua carica emotiva a mobilitare l’opinione pubblica. Va notato che il termine non era stato impiegato per la lotta al terrorismo, anche se essa, come il coronavirus, implicava una mobilitazione generale della popolazione. Ma allora in trincea non erano tutti i cittadini, bensì solo le forze di sicurezza. Siamo ora di fronte a una forma di democratizzazione della lotta contro un nemico comune, sconosciuta nel passato e resa possibile dai social media.
Le epidemie attuali hanno caratteristiche molto diverse da quella del passato, “spagnola” inclusa. Lo sviluppo scientifico in campo sanitario riduce il numero dei morti. L’esplosione delle informazioni disponibli a tutti, e simultaneamente l’espulsione del concetto di morte dalle opulente società del welfare, accrescono il rifiuto dell’incertezza e le paure collettive. Quindi, la ricerca di leader salvifici, che riescano a rassicurare. Di qui l’importanza cruciale della comunicazione istituzionale, settore in cui il nostro Paese ha combinato grossi pasticci e palesato forti carenze – in “buona compagnia” con molti altri.