La nascita di una nazione. Vladimir Putin l’ha detto chiaramente, l’ha ripetuto regolarmente per i più duri d’orecchio, o per coloro che si chiedessero ancora cosa ci sia in gioco per la Russia in questo conflitto: “l’Ucraina non esiste”. Ma se il presidente russo poteva credere di permettersi di ignorare, grazie alla forza delle sue armi, i confini politici dell’Ucraina, ormai l’esistenza di un perimetro nazionale culturale ucraino è innegabile. Ed è nato proprio grazie alla Russia, in un processo cominciato nel 2014 con l’annessione della Crimea e la guerra civile in Donbass, e portato a compimento con il fallimento dell’invasione del 24 febbraio 2022. Se c’è una costante della storia europea, medievale, moderna, contemporanea, è proprio il conflitto tra impero e nazione. Con il primo che, a garanzia della sua esistenza, nega la seconda. La guerra spesso catalizza una divergenza latente di interessi – la voglia di autogoverno della comunità nazionale contro la pretesa multinazionale di ogni impero che si rispetti – che potrebbe essere altrimenti composta in termini diplomatici. Scegliendo la via delle armi, Vladimir Putin ha celebrato il battesimo dell’Ucraina contemporanea: un’entità che voleva negare, definendola nient’altro che come membro del corpo culturale storico russo, e che invece esisterà d’ora in poi, e indipendentemente da come finirà la guerra, in primo luogo in opposizione alla Russia.
Il senso di un’alleanza militare. Il Cremlino non fa mistero di considerare la guerra in Ucraina come uno scontro tra la Russia e l’intero Occidente. Una visione di comodo: non è stata la NATO a piegare l’avanzata russa nelle prime settimane di guerra, ma la resistenza e l’intelligenza strategica di un piccolo esercito di un piccolo Paese guidato da un ex attore comico. A Putin non piace metterla così, ma tant’è. L’invasione dell’Ucraina però è stata dovuta alla volontà di Mosca di impedire a Kiev di stabilizzarsi nell’orbita politico-economica occidentale, cosa che di per sé restituisce un valore implicito al dispositivo di difesa di quell’orbita. La NATO veniva definita “in stato di morte cerebrale” – correva l’anno 2019 – dal presidente francese Emmanuel Macron, impegnato a elencarne le storture perché gli europei capissero infine la necessità di dotare la UE dell’autonomia strategica agognata da Parigi. Chi lo direbbe oggi? L’invasione dell’Ucraina ha ricordato a tutti (in realtà, l’ha confermato) che proprio l’appartenenza alla NATO “salva” i suoi membri dall’attacco del pazzo di turno. Putin, che sottolinea la vicinanza del confine ucraino a Mosca (meno di 1000 km) come a giustificare la necessità di controllare Kiev, si guarda bene però dall’invadere un Paese come l’Estonia, i cui confini si trovano a circa 150 km da San Pietroburgo e da alcune delle più grandi basi militari russe: perché è membro della NATO. Precisamente questa considerazione ha portato Paesi dalla radicata tradizione neutrale come Svezia e Finlandia ad entrare in un’Alleanza Atlantica, che, se si eccettuano gli stati balcanici, non aveva integrato nuovi aderenti da quasi vent’anni.
Putin, lo stratega. Come abbiamo detto, le prime settimane del conflitto hanno incanalato gli avvenimenti in una direzione precisa: il fallimento russo nella presa di Kiev ha spinto gli Stati Uniti a decidersi per il sostegno all’Ucraina, e ha portato l’Unione Europea a seguire questa linea in maniera unanime, accettando la posizione di Washington sulle sanzioni e sul sostegno militare. Chissà, se il colpo di stato contro Zelensky fosse riuscito, il fiuto politico, il genio tattico del capo del Cremlino sarebbe stato di nuovo esaltato da molti. E invece, per gli Stati Uniti l’invasione dell’Ucraina è una sorta di assist, gentilmente offerto dal diversamente abile stratega Putin su un piatto d’argento, per riprendere il controllo politico-strategico su un’Europa resa scettica dagli anni di Donald Trump; eternamente scontenta delle scelte di politica estera americana come il ritiro dall’Afghanistan, la svolta verso il Pacifico, il disinteresse verso teatri arabi come Libia o Siria; pronta a covare latenti velleità di autonomia come quelle espresse da Macron, velleità che alle condizioni giuste avrebbero anche potuto concretizzarsi; e soprattutto abbracciata a Mosca da legami economici e politici di ogni tipo, a cominciare dalla dipendenza energetica di Paesi cardinali come Germania e Italia.
Un nuovo asse occidentale. L’invasione dell’Ucraina copre alcuni elementi geopolitici, come i dubbi europei sulla direzione militare americana. Ma ne scopre altri: l’operazione diplomatica, il ponte, con cui Washington si collega a Kiev, è stato costruito su un itinerario diverso da quello che coincide con la mappa del potere in Europa: non da Berlino, non da Parigi, non da Bruxelles è passata l’America, ma da Londra e da Varsavia. La Polonia ritrova nella vicenda ucraina un senso di missione storica di cui andava alla ricerca fin dalla caduta del blocco sovietico; e il Regno Unito fa registrare un sostegno alla causa ucraina praticamente unanime in una società pur sconvolta dalla Brexit, dal catastrofico alternarsi dei governi conservatori, da una crisi economico-sociale senza pari in Europa.
La traiettoria strategica europea. La Francia di Macron e la Germania di Scholz vanno classificate in un gruppo di Paesi che sì, ha seguito anche se obtorto collo la linea americana, ma che se potesse si comporterebbe in maniera differente con la Russia. Esemplare è la vicenda dei Leopard, i carri armati che il governo di Berlino dopo molte pressioni ha infine accettato di mandare a Kiev: militarmente incideranno poco, ma si tratta di un gesto altamente simbolico per Mosca e per l’opinione pubblica russa, considerando il precedente storico – gli ultimi carri armati tedeschi in Ucraina ci sono arrivati durante la Seconda Guerra Mondiale – e la cornice narrativa entro cui il Cremlino presenta la guerra come crociata anti-nazista. Se c’era una volontà tedesca di non superare una tale linea rossa, magari come punto di partenza per ricostruire rapporti con la Russia dopo la fine del conflitto, ebbene, Berlino ha dovuto oltrepassarla. Con la chiusura e poi l’esplosione del gasdotto Nord Stream e con il coinvolgimento ulteriore delle armi tedesche nella guerra i rapporti tra la Germania, motore economico del continente, e la Russia tarderanno molti anni a tornare ai livelli pre-24 febbraio. E’ una mano significativa vinta dalla diplomazia americana. L’autonomia strategica di cui si parla in Europa – sempre ammesso che gli europei la vogliano davvero, e che si decida a cosa dovrebbe servire – dovrà in futuro necessariamente passare da un grande aumento delle spese militari e della ricostruzione del relativo tessuto industriale dei Paesi europei. Un itinerario lungo e spinoso, e che non può prescindere dal completamento dell’unione politica.
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Le illusioni dell’Occidente. Se fin qui abbiamo elencato la sequela di errori di Vladimir Putin, non vanno tuttavia dimenticate le valutazioni sbagliate fatte dal campo occidentale. La prima di queste è che la Russia sarebbe venuta giù sotto il peso delle sanzioni, o che queste avrebbero provocato delle rivolte che avrebbero fatto tremare il regime di Putin. Ciò non è avvenuto. Le sanzioni hanno sicuramente indebolito la Russia, il suo peso geopolitico – la fine del commercio di gas con l’Europa è un fatto epocale – e la sua capacità produttiva. Ma la Russia è ancora capace di fare la guerra, e non sembra affatto sul punto di crollare. Intendiamoci: la sua capacità offensiva è davvero ridotta; ma Mosca sa che ha la chance di resistere, e ha capito che il tempo può giocare a suo favore. Continuare la guerra costa uomini, mezzi, risorse, ma offre il vantaggio di consumare quelle ucraine, che quantitativamente sono minori. L’Europa è in una situazione economica difficile, le cui prospettive sono aggravate dalla crisi demografica interna e da quella cinese – due fenomeni che riducendo la platea dei consumatori più attivi ma anche quella della forza lavoro industriale incidono per forza di cose sull’inflazione, trainando i prezzi dei beni verso l’alto. Putin può dunque sperare di “stancare” l’opinione pubblica europea, e anche quella americana, dando nel frattempo delle dimostrazioni di forza, che sia mediante gli attacchi informatici o i missili ipersonici.
Dove si trova la Cina. Inoltre, e questo è un punto che non andrebbe dimenticato nelle valutazioni sulla portata internazionale della guerra, la Cina non può permettersi una sconfitta decisiva della Russia, che metta a repentaglio la permanenza di Putin al potere: il rapporto con Mosca è cruciale per Pechino, e un cambiamento di regime al Cremlino potrebbe portare la Cina verso l’isolamento. E’ lecito attendersi che se la situazione sul campo peggiorasse troppo per la Russia, Xi Jinping romperebbe l’ambiguità mantenuta finora correndo in soccorso di colui che, solo un paio di settimane prima dell’invasione dell’Ucraina, definiva “eternamente fratello”. Russia e Cina costituiscono un’intesa con diverse caratteristiche. C’è il blocco culturale: qui da noi le frasi di Putin su un’Occidente schiavo della pedofilia omosessuale saranno anche prese come deliri, ma miliardi di persone nel mondo sono d’accordo, ed è a loro che il presidente russo si offre come punto di riferimento ideologico. E c’è il blocco geopolitico, i cui mutui interessi vanno dall’Asia Centrale al continente africano, dal Medio Oriente al Pacifico e fino all’Europa e ai ghiacci artici: il gruppo dirigente che governa a Pechino pagherebbe un prezzo molto alto, se si rompesse. E’ una realtà di cui l’amministrazione Biden sembra cosciente, prova ne sia l’ammorbidimento dei toni verso la Cina nell’ultimo anno, teso a non favorire ulteriori convergenze tra Mosca e Pechino, con una politica asiatica limitata alle intese commerciali con gli alleati. In effetti, l’America si è resa anche conto negli ultimi mesi di come il rimpatrio delle filiere industriali trasferite in Cina nei decenni scorsi non sia così facile, e che il suo sistema produttivo al momento non può cessare i rapporti con quello cinese. Attenzione, in futuro, al ruolo cruciale dell’India.
L’abbaglio della trattativa. Queste considerazioni dovrebbero rendere chiaro come l’idea di un negoziato sia, alle condizioni attuali, illusoria. Vladimir Putin ha ogni interesse a proseguire la guerra – non per caso nel suo ultimo discorso ha continuato a negare l’esistenza dell’Ucraina, non esattamente l’atteggiamento di chi vuole scendere a patti. Ma anche il campo occidentale non può fermarsi, finché le opinioni pubbliche saranno d’accordo nel sostenere Kiev, e ha bisogno, per di più, di ottenere dei risultati sul terreno per ridurre l’area del territorio ucraino occupata dalle truppe russe.
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Il principio di land grab, cioè annettere, “arraffare territorio”, è alla base dell’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, ma è stato proprio quello che ha provocato la Prima e la Seconda guerra mondiale; perciò non può essere accettato dall’Europa e dagli Stati Uniti come base legale di un accordo di pace. Ciò presume che l’obbiettivo del campo occidentale sia di risospingere le truppe russe verso i confini del 24 febbraio 2022, da cui poi discutere di un eventuale statuto speciale per il Donbass e la Crimea. Mentre quello di Putin è proprio evitare che l’esito sia questo: deve portare ai russi, a cui ha chiesto un enorme tributo di vite umane, un risultato “vendibile”.
Nel cinema comico dei tempi del muto c’era sempre sul set un tecnico pagato soltanto per avere idee brillanti. Spesso fatto ubriacare per favorirne la creatività, questo signore aveva il compito di sciogliere situazioni bloccate in cui i protagonisti non trovavano più nulla da inventarsi. In un film di Stanlio e Ollio ambientato su un ponte sospeso nelle Alpi Svizzere, qualcuno ebbe l’idea di far apparire all’improvviso un gorilla (certo non il tipico frequentatore di vette innevate), per ravvivare una scena che non andava più da nessuna parte. Funzionò. Applausi a scena aperta. Da allora, trovate simili si chiamano appunto “gorilla”. E dunque, se non apparirà presto un gorilla anche sulle pianure dell’Ucraina, l’inerzia della guerra porterà i combattimenti a durare ancora molto a lungo.