L’evoluzione del fattore curdo nel quadro iracheno e regionale

Si sblocca, almeno per il momento, la lunga crisi politica e istituzionale della Regione autonoma del Kurdistan iracheno, nel nordest del Paese: il passaggio è avvenuto con l’elezione di Nechirvan Barzani alla guida della Presidenza e di Masrour Barzani, incaricato di guidare un governo di coalizione. Al momento, la condotta della classe politica curda è segnata da una certa dose di ambiguità: dopo il referendum del 2017 e le velleità di indipendenza, è stata costretta a trattare, da una posizione di oggettiva debolezza, con il governo centrale di Baghdad. La cerimonia di inaugurazione della presidenza di Nechirvan ha segnato esattamente il ritorno della politica curda ad un più cauto realismo e ad una più aperta collaborazione con lo Stato iracheno. L’accordo tra tre forze politiche – il PDK, l’UPK e Gorran – dovrebbe garantire quella stabilità necessaria per affrontare le questioni di politica interna ed estera che occuperanno l’agenda del prossimo governo curdo.

Masrour Barzani e Nechirvan Barzani

 

Innanzitutto, il rapporto con Baghdad. Il Governo centrale e quello di Arbil stanno cercando di arrivare ad un accordo complessivo sulla questione petrolifera: la Regione dovrebbe accettare di versare parte dei proventi delle vendite del greggio al governo centrale, sancendo così la dimensione federale della gestione del greggio, perlomeno dei giacimenti esistenti al momento dell’entrata in vigore della Costituzione, perché resta controversa la situazione per quelli ‘nuovi’, successivi al 2006.

Tuttavia, va ricordato che se questi passi sono necessari per ristabilire relazioni quantomeno non bellicose tra curdi e iracheni, va segnalato pure che la crisi del federalismo iracheno richiede ben altre soluzioni. L’Iraq ad oggi non è un sistema federale ma quasi una federazione tra due entità sovrane. Perché si vada nella direzione auspicata dalla Costituzione, occorre creare nuove regioni (ipotesi prevista e che dovrebbe essere condotta secondo linee puramente geografiche e non etnico-nazionali), convocare la Camera di rappresentanza delle Regioni, istituzionalizzare meccanismi di effettiva imparzialità dei tribunali per la disputa di eventuali conflitti.

Il mosaico politico-etnico-amministrativo curdo in Iraq e Medio Oriente

 

Resta poi il problema su Kirkuk e le altre aree contese – geograficamente collocate in una fascia intermedia e ricche di risorse petrolifere. Il ritorno a uno scenario precedente all’occupazione irachena dell’ottobre 2017 è, ovviamente, escluso; è invece possibile una sorta di cogestione, magari normalizzando la situazione con un nuovo governatore curdo e un governo misto. I curdi chiedono di definire regole istituzionali chiare per gestire la città e le aree contese: regole che dovrebbero garantire anche le minoranze presenti sul territorio. Qui, però, la questione assume immediatamente una dimensione diversa, più impegnativa dal punto di vista geopolitico: la soluzione del problema di Kirkuk tocca anche Teheran. Soprattutto in ragione della presenza nella zona delle milizie sciite, che esaspera il problema delle zone contese.

La simbologia della giornata inaugurale del nuovo presidente curdo ha cercato di mostrare anche in questa direzione una certa tranquillità e la volontà di un nuovo inizio: l’intervento dell’influente religioso sciita Ammar al-Hakim andava in quella direzione. Persino Falih al-Fayyad, ascoltato consigliere sulla sicurezza di Baghdad e di fatto tra i capi delle Milizie sciite, ha voluto rivolgere i suoi auguri al nuovo presidente.

Del resto, l’Iran è stato tra i principali oppositori del referendum del 2017 sull’indipendenza curdo insieme alla Turchia, sebbene per motivi diversi: Teheran più che dai rischi di focolai secessionistici dei curdi presenti sul proprio territorio, temeva l’incunearsi ai propri confini di uno Stato troppo vicino ad Israele (che, appunto, ha sostenuto l’indipendenza curda), paventando la possibilità di fare in Kurdistan quello che l’Iran fa in Libano con le milizie Hezbollah.

Una soluzione del problema iracheno passa, dunque, da un chiarimento e da una stabilizzazione dei rapporti con Teheran: il governo di Baghdad ha cercato di legittimare le milizie con una legge ad hoc, ipotesi però respinta dai curdi che chiedono che le milizie si ritirino dalle aree contese e siano integrate nell’esercito iracheno, unica forza di sicurezza prevista dalla Costituzione. Va da sé che la presenza delle milizie rende estremamente instabile ogni tipo di compromesso politico (non a caso Falah Mustafa, ministro degli Esteri curdo, ne ha chiesto lo scioglimento, sottolineando come la Costituzione preveda la presenza di sole due forze di sicurezza: l’esercito iracheno e le forze peshmerga nella regione curda) e potrebbe nuovamente spingere i sunniti a una resistenza, anche armata contro Baghdad.

Il monumento al milite Peshmerga a Kirkuk

 

Dunque, con difficoltà si può ricondurre la questione di Kirkuk a una dimensione puramente ‘irachena’, anche per la presenza di molti investitori stranieri. Non è un caso che sia stata l’azione russa a mediare tra le parti e a spingere per un accordo: Mosca è ormai una realtà considerevole nell’intera regione, dopo aver assunto ai tempi del referendum una posizione attendista, sostenendo che si trattasse di una questione di esclusiva competenza dei due governi.

La politica curda ha tentato negli ultimi anni di attrarre quanti più investitori stranieri possibili, con condizioni spesso molto vantaggiose per le aziende. La ‘diplomazia del petrolio’ potrebbe, però, rivelarsi un’arma a doppio taglio: incapace di risolvere le difficoltà strutturali della Regione, non è in grado di definire alleanze chiare ed espone i curdi a essere la parte più debole di un gioco molto più grande di loro, come purtroppo è successo spesso nel corso del Novecento.

Va pure ricordato che, se è vero che USA e Regno Unito stanno attivamente lavorando con i curdi, ad esempio per una unificazione dei comandi peshmerga, appare del tutto assente una politica europea, affidata ancora agli interventi dei singoli Stati-membri.

Infine, il problema turco-siriano. La Regione confermerà anche nei prossimi anni la sua distanza dai curdi in Siria e continuerà ad essere attratta dalla sfera turca, che già oggi rappresenta un partner commerciale di primo piano. Tuttavia, la solidarietà “etnica” curda, che travalica i confini tra gli stessi partiti politici curdi, è comunque molto rilevante nella popolazione della Regione: le modalità con le quali la Turchia continuerà a gestire la presenza curda nella Siria nordorientale, come pure l’accordo per una Siria federale tra le forze del Rojava (il Kurdistan siriano, che formalmente gode, ormai, di una certa autonomia, proprio sul modello iracheno) e quelle di Damasco, non potrà non avere ripercussioni sulla stabilità della Regione.

Di fronte alle recenti dichiarazioni di Abdullah Öcalan, il capo storico del movimento curdo in Turchia che ha invitato a definire soluzioni pacifiche per la questione curda nel suo Paese, la politica della Regione autonoma sembra ancora legata a schemi e logiche passate. Anche su questo, il nuovo governo curdo dovrebbe provare a individuare nuove soluzioni.

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