L’Europa nel sentiero stretto del commercio globale

Nel corso del 2023 la bilancia commerciale dell’Unione europea ha registrato un surplus commerciale di 38 miliardi. Se questi numeri testimoniano una radicale inversione di tendenza rispetto al deficit di 436 miliardi del 2022, dovuto alle conseguenze della crisi energetica, i dati di Eurostat mostrano come l’UE sia ancora lontana da registrare l’attivo superiore ai 200 miliardi che ha contraddistinto gli anni pre-pandemia. L’Italia presenta un quadro non dissimile a quello europeo. Le esportazioni nel 2023 secondo ISTAT risultano stazionarie mentre il deficit energetico risulta in forte riduzione rispetto all’anno precedente, portando ad un avanzo commerciale di 34,5 miliardi di euro, rispetto ad un disavanzo di segno opposto registrato nel 2022.

 

Più di dettaglio, la fragilità della domanda interna è un fattore che ha contribuito notevolmente al miglioramento della bilancia commerciale dell’UE, segno che la produzione industriale dell’Unione rimane indirizzata prevalentemente verso l’estero. A distanza di trent’anni dalla creazione del mercato unico, si ripropongono così gli stessi interrogativi sulla necessità di un ripensamento della politica fiscale a sostegno dei consumi, anche alla luce del fatto che dal 2015 al 2022 la media dei tassi d’interesse della BCE è stata pari a zero o poco più, senza raggiungere l’obiettivo dell’inflazione al 2%. Queste tendenze consolidate si inseriscono nel contesto inflazionistico legato alla crisi energetica, che ha ulteriormente esacerbato la perdita di potere d’acquisto dei salari nell’UE. La crescita economica appare così sostenuta dalla capacità dell’Unione di posizionarsi come esportatore di beni ad alto valore aggiunto, con l’export che nel 2023 pesa per il 52,7% sul prodotto interno lordo, trainato dall’industria automotive e dal farmaceutico. Un dato diametralmente opposto a quello statunitense che vede le esportazioni incidere solo sull’11,8% del PIL nel 2022.

Si è temuto a lungo che questo modello, largamente basato sul commercio con l’estero, potesse andare in crisi in presenza di eventi traumatici come la pandemia o le recenti crisi geopolitiche. In questo senso è stata interpretato il lungo periodo di stagnazione economica della Germania, i cui primi segnali si manifestarono nel biennio 2018-2019, causato dal combinato disposto tra fattori esogeni come l’elevato prezzo dell’energia e la rottura dei rapporti con la Federazione Russa. Da questo punto di vista, il crollo del commercio con Mosca ha senz’altro risentito delle sanzioni economiche adottate in risposta all’invasione dell’Ucraina, che hanno notevolmente ridotto le importazioni di idrocarburi e metalli industriali, contribuendo al rialzo dell’inflazione e ad una più generale perdita di competitività dell’industria europea, a fronte appunto di un miglioramento della bilancia commerciale.

Al contrario, nei rapporti con la Cina, il deficit si è allargato enormemente dopo la pandemia, raggiungendo i 280 miliardi di euro nel 2023, in miglioramento rispetto all’anno precedente ma pur sempre in netta crescita rispetto ai livelli pre-covid, quando si collocava stabilmente sotto i 200 miliardi. Le statistiche testimoniano come dall’ingresso della Cina nel WTO avvenuto nel 2001, il disavanzo sia cresciuto sei volte, rendendo gli strumenti di difesa commerciale della Commissione un correttivo superficiale e poco efficace.

È lecito chiedersi quanto possa essere sostenibile per l’Unione un deficit così ampio alla luce della sovracapacità produttiva dell’industria cinese. Stretta tra la bolla immobiliare e un precoce inverno demografico, Pechino si prepara a inondare i suoi partner commerciali di beni ad alto valore aggiunto nei settori fondamentali per la transizione ecologica, che sfruttano più i vantaggi sul piano tecnologico acquisiti negli anni che il basso costo del lavoro, un tempo emblema del made in China. Emblematico è il caso dei veicoli elettrici, dove la Cina conserva un’indiscussa posizione di vantaggio.

 

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Le importazioni nell’Unione sono triplicate in 4 anni (+197% tra il 2019 e il 2023). Al contrario le esportazioni dall’UE alla Cina, storicamente appannaggio delle case automobilistiche tedesche, sono aumentate solo dello 0,6%.

 

Gli squilibri della transizione ecologica

In futuro le crescenti tensioni geopolitiche e i tentativi di decoupling (per ora selettivo) messi in atto da Europa e Stati Uniti influenzeranno ulteriormente gli scambi commerciali. In un contesto di profonda trasformazione delle economie del G7, impegnate in una difficile transizione ecologica e digitale, mutamenti troppo rapidi delle catene del valore potrebbero alimentare spirali inflazionistiche e risultare controproducenti per i consumatori.

La pandemia ha evidenziato plasticamente le vulnerabilità delle supply chain, sbilanciate in modo eccessivo sulla produzione in Cina. Gli eventi traumatici e le tensioni geopolitiche possono ripercuotersi negativamente sui flussi di merci e portare a una diminuzione della disponibilità dei componenti come i microchip, fondamentali per la produzione dei beni ad alto valore tecnologico. Oggi le imprese cinesi risultano dominanti nei mercati dei prodotti richiesti dalla transizione ecologica, dalle turbine eoliche alle auto elettriche, grazie all’assenza di un level playing field paragonabile a quello occidentale. Il vantaggio acquisito è sia di tipo quantitativo, potendo Pechino beneficiare di bassi standard di tutela ambientale e sociale per sostenere la propria industria, che qualitativo. Dopo anni di trasferimento tecnologico incontrollato si è compiuto un vero e proprio travaso della proprietà intellettuale dalle imprese europee e americane a quelle cinesi. Questo, unito ad una serie di sussidi governativi mirati, ha permesso di sviluppare e produrre beni che nulla hanno a che fare con le politiche di dumping nel vecchio continente che caratterizzavano il vecchio made in China.

La faretra dell’occidente, in apparenza piena di frecce, si è dimostrata drammaticamente vuota nel momento in cui le soluzioni più radicali immaginate durante la pandemia sono risultate impraticabili. Sul piano economico, il completo decoupling dalla Cina è apparso sin da subito una boutade incompatibile con le dimensioni dell’interscambio commerciale e la complessità delle catene del valore da rilocare. Invero, il ridotto margine d’azione di Stati Uniti e ancor di più dell’Europa è bilanciato dalla dipendenza di Pechino dai mercati esteri destinatari delle sue esportazioni e permette il ricorso solo a soluzioni intermedie e meno frammentarie, che preservino gli indubbi vantaggi della globalizzazione, prevedono al contempo dei correttivi mirati a limitare la vulnerabilità delle produzioni chiave.

Il de-risking emerso a margine dei lavori del G7 di Hiroshima presuppone un progressivo disaccoppiamento dei segmenti di supply chain più esposti al rischio geopolitico e alla dipendenza economica con Pechino, pur prevedendo il mantenimento della maggior parte dei rapporti economici esistenti. La sicurezza economica verrebbe assicurata da misure circostanziate adottate su base multilaterale che implicano il coinvolgimento dei paesi partner dell’Occidente come l’India nel ricollocamento delle catene del valore, all’insegna del friendshoring. L’impraticabilità del trasferimento di intere produzioni nel vecchio continente e negli USA, oltre a scontrarsi con problematiche di spiccato carattere industriale che lo renderebbero impossibile, implicherebbe una corsa ai sussidi per garantirne la sostenibilità economica con prevedibili effetti sull’aumento dei prezzi a danno dei consumatori.

 

Il futuro tra rischio politico e decoupling

Negli ultimi anni è andato delineandosi un nuovo rapporto tra politica e commercio internazionale, che si pone in sostanziale contraddizione con l’approccio tradizionale che ha caratterizzato la globalizzazione. Dalla Seconda guerra mondiale alla crisi del 2008, il paradigma dominante si è basato sull’eliminazione delle barriere commerciali come le tariffe doganali e la promozione di intese dal carattere spiccatamente multilaterale a sostegno del libero commercio, come il GATT. Lo stesso WTO, nato all’apice di questa parabola nel 1995 a seguito dell’Uruguay Round, è stato concepito con l’esplicita di missione di ampliare ulteriormente la traiettoria liberoscambista, accompagnando la transizione dei paesi in via di sviluppo verso lo status di economia di mercato. A partire dal 2014 tuttavia, una serie di eventi traumatici di carattere economico e geopolitico ha messo in evidenza i limiti dello spostamento dei centri decisionali a livello sovrannazionale. Le istituzioni multilaterali, infatti, in mancanza degli strumenti correttivi richiesti per affrontare i cambiamenti su larga scala che hanno interessato l’economia mondiale, si sono rivelate incapaci di incidere in misura sufficiente sulle profonde trasformazioni del commercio globale.

In assenza di un consenso internazionale su come colmare questo vuoto, è prevalso l’attivismo dei singoli Stati con un approccio protezionista e frammentario che dall’ambito retorico si è rapidamente propagato all’economia reale. I sintomi più riconoscibili del cambio di paradigma sono le guerre commerciali (in particolare quelle avviate dall’amministrazione Trump nei confronti della Cina, ma anche il nuovo approccio dell’Unione contro le sovvenzioni estere distorsive) e il ricorso alla coercizione economica (con la diffusione di trade sanctions e restrizioni all’esportazione), che non rappresentano più contromisure concepite come ultima ratio ma un vero e proprio arsenale di strumenti, espressione di vari livelli di multilateralismo.

Si potrà pensare come la politica si sia giustamente ripresa i suoi spazi a discapito degli eccessi del globalismo. Questa affermazione dal sapore propagandistico ha dominato le campagne elettorali nei paesi occidentali, pur non trovando grandi corrispondenze nella realtà. Come nel caso del decoupling, è emersa sin da subito l’intrinseca illusorietà di un approccio decisionale che non tiene conto dell’irreversibilità dei cambiamenti avvenuti dal secondo dopoguerra ad oggi. Le interrelazioni tra politica ed economia sono così cresciute, costringendo operatori come banche a multinazionali a adattare le proprie strategie per allinearsi a scenari mutevoli, che divergono spesso in base ai singoli centri decisionali coinvolti.

Un recente studio pubblicato sul Journal of World Trade ha evidenziato come le nuove dinamiche tra politica e commercio globale abbiano assunto caratteristiche diverse in base al peso delle decisioni politiche e al tipo di eventi traumatici che si sono susseguiti nel tempo. In presenza di tensioni geopolitiche, poi sfociate in eventi bellici come l’annessione della Crimea o di shock esogeni come la pandemia, la traiettoria del commercio è influenzata negativamente dal ruolo della politica che può incidere negativamente sulle catene del valore con il ricorso a misure protezioniste o di carattere coercitivo. Viceversa, una minore interdipendenza politica con i partner internazionali può salvaguardare le attività economiche a livello globale pur in presenza di elevate tensioni. È questo il caso della Presidenza di Donald Trump, durante la quale a dispetto dei proclami il livello di integrazione economica tra Cina e USA è rimasto pressoché invariato, mentre è cresciuta oltre le aspettative quella con l’Unione Europea.

 

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Lo stesso concetto si dimostra valido quando gli Stati decidono di affrontare eventi esogeni in chiave multilaterale, dimostrando come un orientamento politico non ostile agli operatori economici possa salvaguardare le imprese e facilitare la ripresa del commercio mondiale, come dopo la crisi del 2008.

 

Il ruolo delle istituzioni multilaterali

In questo quadro frastagliato emerge l’obsolescenza del WTO, incapace di giocare un ruolo da protagonista in un’era di crescente protezionismo e tensioni commerciali. La sua concezione multilaterale non trova oggi riscontro nelle politiche dei suoi Stati membri, facendolo assomigliare ad un monolite privo di prospettive, costretto a prendere atto che il consenso internazionale alla base della sua nascita è evaporato e difficilmente si ripresenterà come prima. Tuttavia, come nel decoupling, rinunciare ad un sistema di regole e risoluzione delle controversie a livello globale avrebbe delle conseguenze destabilizzanti per tutti (di fatto, un esito “lose-lose”), ben peggiori di una corsa sfrenata all’autonomia strategica e minerebbe per sempre la fiducia nella certezza del diritto sul piano degli scambi commerciali.

Come noto, il WTO è stato fortemente indebolito dalla decisione dell’amministrazione Trump di non nominare i componenti dell’Appellate Body, l’organo di secondo grado deputato al riesame delle decisioni sulle controversie insorte tra Stati membri. La scelta, ancorché a tratti discutibile, venne motivata sull’assunto che il WTO avesse imposto agli Stati Uniti degli oneri spropositati sul piano degli obblighi che non erano parte degli accordi originari. In particolare, l’amministrazione Trump criticava l’impossibilità di adottare misure di difesa commerciale come dazi compensativi e antidumping, in risposta alle importazioni dalla Cina di beni a prezzi ritenuti non equi. La corsa ai sussidi innescata dalla transizione ecologica a livello globale ha chiuso il cerchio, evidenziando come un’area tradizionalmente appannaggio della politica industriale fosse rimasta fuori dal perimetro del WTO in base al presupposto che, in un’epoca di globalizzazione, l’interventismo statale nell’economia fosse destinato a rimanere ai margini.

Il ricorso su larga a misure contro il dumping e le sovvenzioni, lungi dal risolvere gli squilibri della bilancia commerciale, presenta un rapporto costi/benefici dubbio soprattutto per i Paesi esportatori. L’aumento dei prezzi che si ripercuote nei mercati domestici, può alimentare spirali inflazionistiche, danneggiando in ultima analisi i consumatori, che per un trentennio che hanno beneficiato di prodotti a basso costo a tutto vantaggio del loro potere d’acquisto. Se poi le produzioni domestiche si rivelassero economicamente sostenibili solo grazie alla valanga di sussidi erogati dallo Stato alle imprese, sarebbe facile immaginare le conseguenze non solo sulle famiglie, ma anche sui bilanci pubblici.

Ripensare il WTO vuol dire prendere atto, in primo luogo, dei cambiamenti che hanno interessato l’economia a livello mondiale, la crisi della globalizzazione non ha prodotto un suo alter ego ma la ragionevole richiesta di misure correttive che per essere veramente efficaci devono discendere da un consenso multilaterale. L’auspicata partnership con la Cina nella lotta ai cambiamenti climatici dovrà essere necessariamente estesa al commercio internazionale, coinvolgendo sia i partner dell’Occidente che i Paesi del “Sud globale”, per dare al mondo un set di regole minimo e indispensabile necessario al ripristino delle condizioni di fiducia negli scambi.

Un futuro accordo passerà inevitabilmente dalla regolazione degli incentivi alla transizione ecologica, valutando l’impatto dei sussidi sia sul piano economico che su quello della sostenibilità ambientale. Infine, andrà approntato un vero meccanismo di notifica delle misure unilaterali (dai dazi ai sussidi), favorendo lo scambio di informazioni tra Stati membri e il WTO, in un contesto di trasparenza e non discriminazione. Come tutte le guerre, infatti, quelle commerciali sono costose e hanno sempre effetti indesiderati, ancor di più se non dichiarate.

 

 

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