L’Europa centro-orientale tra populismi e frammentazione sociale

In Europa orientale, la classe operaia non è andata in paradiso – per riprendere il titolo del famoso film dei primi anni Settanta. Né durante i decenni del blocco sovietico, quando la retorica egualitaria lasciò presto il posto alla più tradizionale circolazione delle élite e determinò il blocco della mobilità sociale, favorendo il reinserimento delle vecchie classi dirigenti e la formazione di una tecnocrazia sovranazionale slegata dai dettati ideologici. Né tantomeno durante e dopo la transizione al multipartitismo e all’economia di mercato, quando l’industria pesante, soprattutto quella meccanica ed estrattiva, fu di colpo annientata dall’impossibilità di competere sul mercato globale.

La de-industralizzazione di intere regioni dell’Europa postcomunista e le conseguenze sociali della ristrutturazione economica sono un fenomeno ben noto su cui è stato scritto moltissimo. La rapida disgregazione di un blocco sociale così imponente, dotato per decenni di una propria identitá di gruppo, ha lasciato un’eredità di deprivazione materiale e spossessamento emotivo. Sviluppi più recenti, in alcuni paesi della regione, evidenziano un fenomeno correlato e noto  come blue collar conservatism.

Il crollo dell’impero sovietico e del monopartitismo comunista ha lasciato un vuoto ideologico che nessun movimento politico è riuscito a colmare. I concetti di “destra” e “sinistra” utilizzati – seppure con crescente difficoltà – come mappa concettuale nell’Europa occidentale si rivelano del tutto inservibili in quella centro-orientale. Quest’osservazione vale soprattutto in rapporto al ruolo spesso incompreso del nazionalismo, un fenomeno per nulla recente né “riemerso” ma un vettore ideologico che ha interagito nell’ultimo secolo con le più diverse prassi politiche, dalla democrazia liberale al fascismo fino all’antifascismo democratico, e anche al comunismo di marca sovietica. Non sembra quindi corretto parlare di svolte irreversibili – verso il nazionalismo – di ampie porzioni di quell’elettorato che definiamo tradizionalmente di estrazione operaia.

Ciò che invece sembra emergere dal periodo post-crisi è la cristallizzazione di un fenomeno la cui origine risale alla transizione degli anni Novanta: il bisogno di sicurezza personale e sociale si traduce non tanto nella vaga nostalgia per un regime impossibile da restaurare, ma piuttosto in una ben percepibile richiesta di ordine e disciplina. Le indagini sociologiche confermano, soprattutto negli ultimi 4-5 anni, un certo riorientamento valoriale che interessa il rapporto fra diritti e doveri (a scapito, ad esempio, dei diritti delle popolazioni rom e delle minoranze etniche o sessuali, o dei migranti) e, più in generale, l’idea di bene comune e interesse sociale.

Chi rappresenta queste istanze? Un conglomerato sociale variopinto, formato da milioni di pensionati che sopravvivono con 100-200 euro mensili (in larga parte ex operai o minatori), operai (specializzati e non) che lavorano prevalentemente in conto terzi per l’indotto delle imprese multinazionali attive nell’area, ma anche da disoccupati e giovani laureati in cerca di un’occupazione normalmente retribuita. La sinistra tradizionale rappresentata dai partiti postcomunisti (socialisti o socialdemocratici) non ha colto il cambiamento d’umore profondo proveniente dalla pancia di questo elettorato, che è passato dalla transizione economica alla crisi del 2008-9 senza aver prima conosciuto i benefici dello stato sociale di tipo occidentale. Ad intercettare pulsioni cariche di polarità negative sono partiti e movimenti assai eterogenei, accomunati tuttavia da una forte avversione nei confronti delle élite politiche, economiche e culturali. I due casi esemplari sono quelli dell’Ungheria e della Polonia, dove negli ultimi anni l’intero arco politico si é spostato dalla classica polarizzazione destra-sinistra a una contesa nell’ambito di diversi concetti di “destra”, mentre la sinistra si è gravemente marginalizzata (Ungheria) o è elettoramente quasi sparita (Polonia).

In entrambi i paesi, un ruolo determinante in questa rivoluzione silenziosa l’hanno assunto proprio quei ceti a cui il mainstream di destra e sinistra aveva rinunciato: i pensionati, i minatori, gli operai, i contadini. Basta guardare alle mappe elettorali polacche, dove le drammatiche differenze regionali fra il nord-ovest e il sud-est si sovrappongono perfettamente alle scelte elettorali fra il PO liberal-conservatore e il PiS del neoeletto presidente Andrzej Duda.

L’Ungheria rappresenta un caso ancora più estremo di corto circuito fra le élite e ampi settori della popolazione. In estrema sintesi, il paese è prigioniero da ormai un decennio di una tripla crisi: 1) politica, a partire dagli scandali e dalle violente manifestazioni del 2006 contro il governo Gyurcsány fino alla “rivoluzione costituzionale” del governo Orbán, che ha trasformato il paese in un paria nell’Unione Europea; 2) economica, con lo shock economico e finanziario dell’autunno 2008, quando il default fu evitato solo con a un ampio prestito internazionale in cambio di durissime misure sociali; 3) culturale, in quanto stando ai sondaggi d’opinione una parte consistente della popolazione non avverte più come propri valori universali quali la libertà individuale e si dichiara indifferente all’ordinamento politico del proprio paese.

In questo quadro si inserisce non solo il governo „illiberale” di Orbán ma anche l’ascesa del “movimento per l’Ungheria migliore” (Jobbik), che alle elezioni del 2014 ha raccolto il 20% dei consensi e si colloca oggi oltre al 25% –  a solo pochi punti dal partito di governo Fidesz e ben oltre tutte le formazioni di centro-sinistra. Secondo Dániel Róna, autore della prima tesi di dottorato sulla stratificazione sociale di Jobbik all’università Corvinus di Budapest, l’elettorato del movimento della destra radicale antisistema fondato nel 2007 si è stabilmente radicato proprio in due segmenti dimenticati dalle altre formazioni: i giovani (negli ultimi sei mesi Jobbik ha sorpassato il partito di Orbán nell’intera fascia di età 18-30, dove conduce ormai stabilmente, ed è al primo posto anche fra gli studenti universitari davanti al partito libertario-ecologista LMP) e soprattutto i colletti blu, cioè gli operai.

Nel periodo 2007-2010, Jobbik era un partito di protesta sociale e recriminazione etnica particolarmente popolare nelle aree de-industrializzate del nord-est del paese, conun elevato tasso di disoccupazione, la presenza di una forte minoranza rom e una pessima sicurezza pubblica. Oggi, tuttavia, la constituency di Jobbik è distribuita sul territorio: relativamente debole a Budapest e nelle principali città universitarie, dove si concentrano le élite economiche e culturali, molto forte soprattutto nei piccoli centri urbani e nelle aree economicamente depresse del nord-est e sud-ovest. Jobbik è ormai il primo partito non solo fra i disoccupati ma anche fra gli operai specializzati, in grande prevalenza maschi di etá inferiore ai 40 anni. In alcune zone si osserva un crescente interesse da parte dei piccoli imprenditori e dei commercianti: conseguenza non solo dei cinque anni di crisi economica ma anche della corruzione diffusa legata al partito di Orbán.

L’aggressività del partito di governo spinge la popolazione attiva e i ceti produttivi della provincia, già frustrati per il basso tenore di vita e scarsamente rappresentati anche sul piano sociale causa l’assenza della rappresentanza sindacale, nelle braccia di un partito dichiaratamente antioccidentale e anzi neppure troppo velatamente filorusso, ma soprattutto anti-intellettuale e antielitario.

I nuovi colletti blu che non hanno la fortuna di lavorare all’Audi di Győr, dove il management tedesco ha esportato le migliori pratiche di benessere sociale (asili, ambulatori, centri sportivi e ricreativi per i lavoratori, oltre a salari doppi rispetto alle altre fabbriche del settore automobilistico), sembrano avere trovato in Jobbik la soluzione alla propria condizione di neo-proletariato industriale in un paese della semiperiferia europea. Dove possa portare questa tendenza, in Ungheria e altrove in Europa orientale, è ancora tutto da vedere ma i segnali non sono incoraggianti.

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