Le radici storiche del problema affondano nella storia del XX secolo, come ben noto, cioè nella rivoluzione iraniana del 1979 che alterò profondamente il quadro politico-ideologico del Medio Oriente e del Golfo in presenza di un regime teocratico, non arabo e revisionista. Il secondo punto di svolta di cui vediamo oggi le ripercussioni indirette avvenne nel 2003, con la disgraziata decisione americana di invadere l’Iraq – regalando di fatto a Teheran uno spazio di influenza senza precedenti. Da allora, un obiettivo comune per Israele e Stati Uniti è stato (ancora e più di prima) il contenimento militare e l’isolamento economico-diplomatico dell’Iran, che però è sempre risultato sfuggente e probabilmente irrealistico. In effetti, ha continuato a crescere la penetrazione iraniana (via “proxy”, cioè surrogati parzialmente autonomi ma comunque utili a sfruttare opportunità), anche in Libano meridionale, Siria, Yemen, e nella piccola Striscia di Gaza.
Mentre Israele dal marzo 2009 – cioè nel periodo in cui Netanyahu è stato al governo ininterrottamente – non ha mai cessato di indicare in Teheran il centro nevralgico e perfino la mente strategica dietro qualsiasi minaccia, per la verità gli Stati Uniti hanno brevemente tentato una strada diversa, nella fase delle due presidenze di Barack Obama. E’ così che si è arrivati al fatidico “accordo nucleare” del luglio 2015, che (conviene sempre ricordare) era un’intesa multilaterale con precisi criteri operativi, dal nome ufficiale di Joint and Comprehensive Plan of Action (JCPOA). L’idea che ispirava quell’approccio negoziale era che si potesse perseguire un obiettivo parziale (quello dello stop al programma nucleare militare) e impostare intanto un dialogo sulle sanzioni economiche (per quanto difficile) e mantenere intanto una postura di deterrenza nei confronti dell’Iran. Insomma, una strategia sofisticata e su binari paralleli.
Il guaio, nel valutarne l’efficacia, è che quella strategia è stata attuata per poco più di due anni, dall’entrata in vigore nel gennaio 2016 alla rinuncia americana decisa da Donald Trump nel maggio 2018. Va notato inoltre che nel dicembre 2017 l’amministrazione Trump ha riconosciuto ufficialmente Gerusalemme come capitale di Israele – un gesto che poco ha a che fare con l’Iran ma che certo non ha contribuito a frenare gli istinti più assertivi del governo Netanyahu. Se infatti si deve ricercare un filo che connetta i vari sviluppi regionali, quei mesi a cavallo tra 2017 e 2018 sembrano un passaggio rilevante.
Circa due anni più tardi è arrivato a maturazione l’altro elemento distintivo della politica di Trump nell’area, cioè gli Accordi di Abramo siglati nell’agosto 2020, che hanno consolidato (almeno nelle intenzioni di Washington) un asse anti-iraniano, visto che l’intesa a tre con Israele e gli Emirati Arabi Uniti e l’auspicato allargamento all’Arabia Saudita non avevano certo come obiettivo primario la risoluzione della “questione palestinese”.
In sostanza, tutte le scelte regionali degli USA da inizio 2017 a inizio 2021 si sono focalizzate sul rafforzamento del rapporto con la leadership saudita e la destra israeliana, con i risultati che stiamo vedendo oggi; intanto, il regime di Teheran ha nuovamente accelerato il programma nucleare e consolidato i rapporti con i famigerati “proxy”, mentre ha perfino aperto un canale di dialogo con la stessa Arabia Saudita che è stato apparentemente facilitato dalla Cina (marzo 2023). Ci sono tutti gli elementi di un vero capolavoro diplomatico, purtroppo totalmente contrario agli interessi americani.
La responsabilità dell’amministrazione Biden è decisamente meno grave, non essendo riuscita ad invertire le linee di tendenza pur avendone compreso la pericolosità.
Molti osservatori, non soltanto vicini alle posizioni di Benjamin Netanyahu e del suo attuale governo, notano giustamente che l’accordo nucleare era già in difficoltà prima che Trump lo facesse naufragare definitivamente, e che la natura interna del regime di Teheran non sembrava comunque evolvere affatto in una direzione meno repressiva. A ciò si può replicare guardando all’esperienza dei trattati sul controllo degli armamenti durante la guerra fredda USA-URSS o al progressivo sviluppo della CSCE verso l’OSCE (un quadro di accordi in apparenza generici che però incorporavano il criterio dell’integrità territoriale e perfino un cenno ai diritti umani). Insomma, i tavoli negoziali sono spesso esperienze frustranti e faticose, ma consentono di fare piccoli passi aprendo la strada a passi più grandi, plasmando sia il quadro internazionale e perfino creando incentivi per mutamenti in politica interna.
Torniamo dunque alle premesse di fondo alla base delle politiche americane e israeliane degli ultimi anni.
La diagnosi era solo per metà giusta: l’Iran è il fulcro del problema. E’ vero infatti che un regime teocratico come quello degli ayatollah è un rischio permanente, per quanto sia insicuro di sé a fronte di un’opinione pubblica che non crede affatto nell’islamismo sciita né nell’inimicizia verso Israele come fattore identitario; ma la parte mancante della diagnosi è che quel regime, sentendosi circondato dalle forze americane (e lo è oggettivamente), è anche circondato da governi arabi scarsamente legittimi, molti dei quali inefficienti e instabili – come ci hanno drammaticamente ricordato, in un lampo, le “primavere arabe” del 2011.
In altre parole, oltre a un grave problema “persiano” c’è un enorme problema arabo, che di fatto impedisce la creazione di un sistema di sicurezza regionale relativamente stabile, anche perché tre Paesi mancano ad oggi dei requisiti minimi di statualità consolidata (Libia, Iraq, Siria) e tutti gli altri oscillano tra posizioni anti-iraniane e mobilitazione a intermittenza delle loro opinioni pubbliche in funzione anti-israeliana, con la finzione di un sostegno ai palestinesi. Non basterebbe quindi, neppure in linea teorica, eliminare completamente la minaccia iraniana per risolvere i problemi della regione, perché troppi attori – statuali e non – approfittano in modo sistematico di ogni piccolo e grande fattore di instabilità. Questo impedisce comunque l’emergere di un Medio Oriente pacifico e prospero in cui l’unica democrazia della regione, Israele, possa far valere appieno le sue capacità organizzative, la sua creatività, i suoi contatti su scala globale.
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Essendo la diagnosi corretta solo per metà, la prognosi è almeno per metà sbagliata: si deduce infatti che, se l’Iran è il nodo, allora va tagliato. Si dimentica però che i nodi si possono anche sciogliere, a volte. E’ un’operazione che richiede un diverso tipo di forza e maggiore pazienza.
Il nastro non si può certo riavvolgere a piacimento, e la leadership iraniana è oggi orientata a testare le capacità di reazione di Israele, con rischi altissimi per tutti. Parallelamente, il governo Netanyahu trova ora una conferma ideale delle tesi più oltranziste secondo cui le tre minacce esistenziali da affrontare sono Iran, Iran, Iran. Un tragico circolo vizioso è stato innescato, e si tratta di impedire che le fazioni più aggressive nei due Paesi meglio armati del Medio Oriente abbiano la guerra che forse volevano.
Ma è bene almeno ricordare che la sequenza di eventi non era affatto inevitabile, e magari trarne qualche idea per il futuro. Chi pensa di isolare Teheran dovrebbe sapere che il quadro internazionale è troppo diversificato per rendere questa opzione plausibile; chi propende per un muscolare contenimento (con ripetute operazioni chirurgiche) dovrebbe semplicemente immaginare la situazione di oggi come nuova normalità; chi prefigura addirittura la via di azioni militari massicce in territorio iraniano dovrà calcolare le conseguenze probabili su un Paese che ha sopportato quasi un decennio ininterrotto di guerra cruenta contro l’Iraq (1980-88). In tutto ciò, vanno naturalmente messi in conto anche gli effetti quasi certi sull’economia internazionale in un’area potenzialmente ampia che va dal Golfo Persico al Mar Rosso alle coste mediterranee (Israele, Libano, Siria) fino a una porzione di Oceano Indiano.
Forse vale la pena di sciogliere quel nodo, prima di doverlo davvero tagliare con la forza. Ha fatto dunque benissimo Joe Biden a lanciare un messaggio chiaro al leader israeliano: l’attacco missilistico di metà aprile gli ha involontariamente offerto una via d’uscita, cioè la possibilità di dichiarare una “vittoria” parziale, sia militare (la dimostrazione di straordinarie capacità difensive) sia diplomatica (la fine di un pericoloso isolamento diplomatico). L’opportunità andrebbe colta, senza ricorrere a un altro atto di forza che non dimostrerà nulla a nessuno.