L’escalation della guerra tecnologica sino-americana

Articolo pubblicato sul numero 99 di Aspenia

Il 7 ottobre 2022 il Bureau of Industry and Security (BIS) del dipartimento del Commercio americano ha pubblicato una serie di regole sui controlli delle esportazioni, con un impatto molto significativo sull’industria dei semiconduttori e sulla competizione tra Cina e Stati Uniti. Le regole sono volte a colpire soprattutto le attività cinesi sull’intelligenza artificiale e sul supercalcolo[1], con forti restrizioni sulla cooperazione delle imprese e dei cittadini statunitensi: alcune aziende sono inserite nelle “liste nere” del BIS, mentre si chiede alle aziende cinesi trasparenza sui loro clienti e si colpiscono le ambizioni cinesi in tutti gli elementi della supply chain (non solo fabbricazione di chip, ma anche software, progettazione, macchinari) riducendo l’accesso ai componenti statunitensi. Le azioni del BIS si inseriscono in una continua escalation della guerra tecnologica tra Washington e Pechino, che riguarda in particolare i semiconduttori, l’intelligenza artificiale e le batterie.

 

IL COMMERCIO E LA SICUREZZA NAZIONALE. Il BIS è nato come Bureau of Export Administration nel 1987, e ha preso la denominazione attuale nel 2001. Il suo mandato molto ampio, fondato sulla protezione della sicurezza nazionale e degli interessi di politica estera degli Stati Uniti, consente al dipartimento del Commercio di svolgere i compiti di monitoraggio e controllo dell’economia nazionale e internazionale stabiliti da varie leggi federali, tra cui l’Export Control Act del 1940 e del 1949, nonché il Defense Production Act del 1950 e l’International Emergency Economic Powers Act del 1977. La gestione delle regole sulle esportazioni nel contesto della guerra fredda era legata alla salvaguardia delle tecnologie militari rispetto al blocco sovietico. L’apertura alla Cina negli anni Settanta ha portato a un alleggerimento di alcuni controlli. Dopo la guerra fredda, i meccanismi di regolazione del commercio tra i blocchi sono stati sostituiti da accordi multilaterali sui beni duali, come l’Accordo di Wassenaar del 1996, che tuttavia non è vincolante.

I controlli sulle esportazioni sono uno strumento potente di intervento sulle transazioni di mercato. Per esempio, l’inserimento di un’azienda nelle “liste” del BIS può comportare l’obbligo per chi le vende componenti di chiedere l’autorizzazione del governo statunitense. Il BIS possiede inoltre un corpo di export enforcement, agenti che indagano e verificano l’operato delle aziende, con multe e pene pesanti.

Nell’ultimo decennio, i controlli sulle esportazioni sono tornati al centro della scena. Ciò dipende da vari fattori, in particolare dalle caratteristiche dell’ascesa tecnologica cinese e dalla difficoltà di definire i beni a uso militare. I due elementi sono collegati nella prospettiva della cosiddetta “fusione militare-civile” del Partito comunista cinese, volta a sviluppare le capacità offensive dell’Esercito popolare di liberazione con la collaborazione di aziende a controllo pubblico o privato. Allo stesso tempo, anche al di là della strategia cinese, lo sviluppo tecnologico attuale rende sempre più difficile la demarcazione tra tecnologie civili e tecnologie militari, e tale consapevolezza è ormai incorporata nei documenti ufficiali e programmatici degli Stati Uniti. Per esempio, secondo il rapporto della National Security Commission on Artificial Intelligence presieduta da Eric Schmidt, “l’intelligenza artificiale è la tecnologia per eccellenza a uso duale”[2].

Ora, gli Stati Uniti definiscono la Cina come avversario, e quindi pongono la limitazione delle capacità cinesi al centro della propria sicurezza nazionale, mentre la Cina, come ribadito dall’intervento di Xi Jinping al xx Congresso del Partito comunista cinese, risponde a un concetto onnicomprensivo di sicurezza che abbraccia ogni ambito tecnologico e politico. Siamo quindi davanti a uno schema inedito, per livello di interconnessione economica e per profondità del rischio. Il rischio viene non solo dallo spionaggio industriale cinese a livello globale (che per esempio nel settore dei semiconduttori è stato documentato per aziende cruciali come TSMC e ASML, basate rispettivamente a Taiwan e nei Paesi Bassi), ma anche dalla posizione preminente già raggiunta dalla Cina in alcune tecnologie (come il 5G e le batterie) e dall’ambizione dichiarata all’autosufficienza in altre, a partire dai semiconduttori. Tutto ciò convive con una profonda interconnessione economica, tra la Cina e gli Stati Uniti, e tra la Cina e gli altri attori dell’Asia orientale. La Cina è già la principale potenza manifatturiera al mondo e può offrire ai propri partner economici l’accesso al suo enorme mercato. I controlli delle esportazioni devono affrontare questo dilemma. È ciò che avviene dal 2018.

 

Leggi anche: Il punto debole della Cina nella corsa ai semiconduttori

 

SUPPLY CHAIN E SICUREZZA NAZIONALE. I controlli sulle esportazioni degli Stati Uniti, assieme al serrato scrutinio sugli investimenti esteri nei settori strategici e ad altre misure finanziarie, compongono il sistema che si può definire “sanzionismo”[3]. Questo sistema deve anzitutto basarsi su un patrimonio informativo adeguato, per rispondere all’allargamento della sicurezza nazionale in un’era di proliferazione delle tecnologie duali. La chiave è capire come funzionino le supply chain che si intendono colpire, per individuare i punti di debolezza della Cina.

Questa profondità, che dipende anche dal coordinamento con le imprese, non c’è ancora all’inizio del caso Huawei, l’azienda cinese di telecomunicazioni colpita dai controlli sulle esportazioni a partire dal 2019, sulla base della lunga indagine condotta dagli Stati Uniti, relativa alla violazione delle sanzioni all’Iran, culminata nell’arresto della direttrice finanziaria e figlia del fondatore del gruppo in Canada nel 2018. Huawei ha un’importante attività di progettazione di semiconduttori, attraverso la sussidiaria HiSilicon, che si avvale soprattutto della taiwanese TSMC. L’impatto dei controlli sulle esportazioni genera preoccupazione da parte della SIA (Semiconductor Industry Association), che raccoglie quasi tutto l’ecosistema americano dei semiconduttori. L’associazione, nel 2019, deplora le difficoltà nei negoziati tra Stati Uniti e Cina e, su Huawei, chiede di “affrontare le preoccupazioni di sicurezza nazionale degli Stati Uniti senza colpire la leadership globale e la competitività del paese”[4].

In sintesi, le imprese degli Stati Uniti rischiano di perdere fatturato, nel momento in cui quel motore di Huawei viene colpito. Il fatturato di HiSilicon, per la morsa del sanzionismo, è passato da 8,2 miliardi di dollari nel 2020 a 1,5 miliardi nel 2021. Al di là dell’industria del 5G, dove gli altri attori rilevanti sono europei e non poteva comunque emergere dal nulla un’azienda americana in grado di contrastare Huawei, gli Stati Uniti hanno invece maturato una nuova consapevolezza della propria centralità in un’industria cruciale come quella dei semiconduttori, che è la base della nostra vita digitale in tutte le sue forme.

È ciò che si comprende dal lavoro approfondito di analisi delle supply chains, che già nell’amministrazione Trump ha caratterizzato gli aspetti critici della “base industriale della difesa”, ovvero il tessuto di aziende che partecipano in termini diretti e indiretti ad appalti e forniture del Pentagono.

All’inizio dell’amministrazione Biden, sulla base dell’ordine esecutivo 14017, si è arrivati alla redazione di un rapporto a giugno 2021[5]. Il rapporto, sulla base dei dipartimenti competenti, analizza le supply chain su: manifattura di semiconduttori e advanced packaging (Commercio), batterie (Energia), minerali e materiali critici (Difesa), farmaceutica (Salute).

Per esempio, la supply chain dei semiconduttori nei suoi principali segmenti mette in luce alcuni problemi per gli Stati Uniti che riguardano la scarsa presenza di fabbriche alla frontiera della manifattura (un problema che negli anni Ottanta preoccupava già grandi manager di Intel come Robert Noyce e Andy Grove) e il sottovalutato ambito di test, assemblaggio e advanced packaging. In entrambi i segmenti, il primato è dell’Asia orientale, in particolare di Taiwan e Corea del Sud.

D’altra parte, gli Stati Uniti hanno comunque una posizione centrale nella supply chain, per la presenza di aziende cruciali in diversi ambiti: negli strumenti per la progettazione, come Synopsys e Cadence; nella progettazione, come Nvidia, AMD e Qualcomm; negli strumenti e macchinari, come Applied Materials, KLA, Lam Research. La struttura globale dell’industria rende molte di queste aziende fondamentali, tanto per l’operatività di una fabbrica avanzata, quanto per cercare di effettuare salti tecnologici a livello nazionale. Il caso Huawei ha portato gli Stati Uniti ad affinare i controlli sulle esportazioni per intervenire proprio sul potere di leva nella supply chain. Le restrizioni, attraverso l’espansione delle fattispecie della Foreign Direct Product Rule, non toccano solo ciò che è prodotto negli Stati Uniti, ma anche altri prodotti finiti che si avvalgono di tecnologie e software sotto la giurisdizione statunitense.

Questo passaggio è molto importante: le aziende cinesi non possono perseguire in modo efficace, per esempio, gli obiettivi di autosufficienza nazionale sui semiconduttori del roboante piano “Made in China 2025” (lanciato nel 2015) o le politiche governative sull’intelligenza artificiale, perché senza i componenti statunitensi nel breve-medio periodo non sono letteralmente in grado farlo. Allo stesso tempo, restrizioni così pesanti creano problemi per le aziende americane che vendono ai cinesi, e per questo il governo degli Stati Uniti deve mettere sul tavolo qualcos’altro: i soldi pubblici. I sussidi del Chips and Science Act, approvato nell’estate 2022, sono volti a garantire l’aumento della capacità manifatturiera sui semiconduttori negli Stati Uniti. A livello politico, i progetti di aziende statunitensi come Intel e Micron servono anche come forma di riparazione per le cruciali aziende della supply chain su cui Washington basa un primato ancora intatto, e può effettivamente colpire lo sviluppo cinese.

È alla luce di questa strategia articolata che bisogna leggere il discorso pronunciato dal National Security Advisor Jake Sullivan il 16 settembre 2022. Sullivan, che ha coordinato col National Security Council tutto il processo di analisi delle supply chain, afferma che l’obiettivo degli Stati Uniti non è più quello di mantenere vantaggi relativi rispetto agli avversari nelle tecnologie chiave. Il contesto è radicalmente cambiato e quindi richiede di mantenere “il vantaggio più largo possibile” nelle tecnologie più sensibili. Gli stessi controlli sulle esportazioni vanno considerati un “asset strategico per gli Stati Uniti e gli alleati per imporre costi agli avversari e, nel corso del tempo, degradare le loro capacità nel campo di battaglia”.

 

DAVID LAM E L’INCOGNITA AMERICANA. L’escalation dei controlli sulle esportazioni è avvenuta in un momento politico particolare, poco prima del XX Congresso del Partito comunista cinese, mentre la Cina è alle prese con il rallentamento della sua economia, che nel 2022 crescerà meno di quella italiana. Gli obiettivi di “Made in China 2025” sull’autonomia nei semiconduttori, ma anche sulla robotica, non sono stati raggiunti. Allo stesso tempo, il xx Congresso ha evidenziato il costante interesse di Xi Jinping per l’innovazione e la tecnologia, in particolare con la promozione della cosiddetta “cricca aerospaziale”: gli ufficiali attivi nella rincorsa cinese sui temi dell’aeronautica e dello spazio, in cui ha un ruolo sempre più rilevante l’università Beihang[6]. Nello spazio, la Cina si muove da tempo in un percorso separato da quello degli Stati Uniti[7], e ha raggiunto risultati importanti.

Nei semiconduttori, come abbiamo visto, le mosse degli Stati Uniti mettono la Cina in una posizione difficile, se consideriamo con attenzione la struttura dell’industria. Non bastano né basteranno enormi risorse pubbliche per risolvere questo dilemma. Gli Stati Uniti continueranno a lavorare, in ottica anticinese, per portare a bordo i leader dell’industria: Taiwan, Corea del Sud, Giappone, Paesi Bassi. Pechino continuerà a presidiare alcuni aspetti tecnologici non direttamente coinvolti dalle sanzioni, a cercare di innovare in modo laterale e a puntare alla sua vera forza che è l’ampiezza del mercato: la Cina è il principale acquirente mondiale di semiconduttori e non tutti sono disposti a rinunciarvi per ragioni geopolitiche.

 

Leggi anche: La logica ferrea della pressione di Pechino su Taiwan

 

La struttura della supply chain delle batterie, invece, è completamente diversa e la capacità delle politiche industriali di alterarla è tutta da dimostrare. L’Inflation Reduction Act ha inserito una clausola anticinese in questo settore, per erogare soldi pubblici solo in caso di una supply chain che garantisca la limitazione dei cinesi. Tuttavia, la Cina domina questo settore, non nella sopravvalutata dimensione dell’estrazione dei materiali (su cui le aziende cinesi hanno comunque garantito contratti a lungo termine), ma sul trattamento e la raffinazione, oltre che sulla grande scala industriale, in cui i campioni cinesi come CATL hanno superato gli altri leader del settore, giapponesi e coreani. Le misure dell’Inflation Reduction Act hanno già irritato gli alleati, a partire dagli europei che, privi di capacità di larga scala, potrebbero ritrovarsi in un angolo per colpa degli scarsi investimenti delle aziende automobilistiche negli anni in cui i cinesi hanno costruito la base del loro primato. Le aziende coreane e giapponesi potrebbero andare negli Stati Uniti per sfruttare i sussidi, mentre in Europa resterebbero disponibili solo i cinesi, ai quali si dovrebbe dire di no per ragioni di sicurezza nazionale. Pertanto, è probabile che avremo maggiori schermaglie commerciali internazionali e una corsa globale ai sussidi incontrollata. In questo contesto, i paesi europei potranno avere un ruolo se impareranno a salvaguardare e a promuovere le proprie capacità, soprattutto nella chimica, invece di colpirle in modo autolesionista con una regolazione priva di attenzione e sensibilità industriale. Il cosiddetto Green Deal ha preferito, infatti, l’annuncio delle date sui target all’analisi delle supply chain e al sostegno della capacità industriale, e questo dovrà necessariamente cambiare.

Per gli Stati Uniti c’è un altro pericolo, più profondo: che la guerra tecnologica si trasformi in una discriminazione costante verso i cittadini cinesi, con la fine dei legami culturali e scientifici tra i due paesi, che hanno già subito una notevole riduzione. È la forza di attrazione degli Stati Uniti, e in particolare della Silicon Valley, ad aver costruito la grande storia del primato dei semiconduttori. Per esempio, una delle aziende più importanti, Lam Research, è stata fondata da David K. Lam, nato in Cina. Dopo gli studi di chimica in Canada e al MIT, Lam ha approfondito il sistema di incisione al plasma, fondamentale per la produzione di semiconduttori. Ha fondato Lam Research nel 1980, con la benedizione di sua madre, che è stata tra le prime persone a investire nell’azienda come gesto di fiducia nel figlio, anche senza essere in grado di leggere il business plan in inglese. Nel 1984, Lam è stato il primo americano di origine asiatica a quotare un’azienda al Nasdaq. Nel corso degli anni è diventato una leggenda della Silicon Valley. È ancora attivo ed è stato recentemente onorato dal Museum of Chinese in America di New York.

La guerra tecnologica, attraverso filiere cruciali ma poco visibili come i semiconduttori, è il mezzo con cui Stati Uniti e Cina cercano di accelerare le debolezze dell’avversario. Gli Stati Uniti vogliono generare frustrazione nella leadership cinese, accentuare il suo isolamento in Asia orientale, colpire lo sviluppo economico come base della sua legittimazione. La Cina, secondo un affinamento della dottrina elaborata dall’intellettuale del partito Wang Huning già nel 1989, ritiene che il sistema politico e sociale degli Stati Uniti sia malato e marcio, destinato all’implosione.

È probabile che la guerra tecnologica, come mostrato dai semiconduttori, esponga soprattutto le debolezze di Pechino, accentuate dal piano “Made in China 2025”, che ha cambiato lo schema di gioco, abbandonando la prudenza di Deng Xiaoping e Zhu Rongji per giocare ai lupi guerrieri della tecnologia. Ma se gli Stati Uniti chiuderanno le porte ai futuri David Lam, saranno loro a perdere l’anima.

 

 


NOTE

[1] Per un’analisi approfondita, nella prospettiva degli Stati Uniti, si veda Greg Allen, “Choking off China’s access to the future of ai”, Center for Strategic and International Studies, 11 ottobre 2022.

[2] National Security Commission on Artificial Intelligence, “Final Report”, 2021, p. 22.

[3] Rimando su questo a Alessandro Aresu, Il dominio del xxi secolo, Feltrinelli, 2022.

[4] sia, “Statement on escalation of us-China trade and technology tensions”, 16 maggio 2019.

[5] The White House, “Building resilient supply chains, revitalizing American manufacturing, and fostering broad-based growth”, 2021.

[6] Si veda tra l’altro Shunsuke Tabeta, “Xi promotes ‘aerospace clique’ to counter us as a defense power”, Nikkei Asia, 22 ottobre 2022.

[7] Sulla separazione tra Cina e Stati Uniti nello spazio, rimando a: Alessandro Aresu, Raffaele Mauro, I cancelli del cielo. Economia e politica della grande corsa allo spazio 1950-2050, Luiss University Press, 2022.

 

 


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 99 di Aspenia

 

 

USAeconomytradetechnologyChinasecuritydigital
Comments (0)
Add Comment