L’equilibrismo strategico della politica cinese nel Golfo

Stabilità, anche a costo di un maggior coinvolgimento diplomatico nella regione: il viaggio mediorientale del presidente Xi Jinping – Arabia Saudita, Egitto, Iran – del 19-23 gennaio sintetizza gli obiettivi della nuova politica estera cinese in Medio Oriente. All’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il presidente cinese ha promesso altri 8000 soldati per le missioni di peacekeeping ONU, aumento che porterebbe Pechino a essere il primo contributore di caschi blu (attualmente sono circa tremila).

La bussola della proiezione esterna di Pechino rimane ufficialmente la classica non-interferenza negli affari interni: tuttavia, la crescente integrazione economica globale e le ambizioni di rango fanno sì che per la Cina sia sempre più difficile mantenere una postura defilata negli affari internazionali. Inoltre, il progressivo disimpegno degli Stati Uniti dal quadrante mediorientale apre gli spazi della geopolitica ad altri attori (la Russia ne sta già approfittando), incentivando così la “multipolarizzazione” di una regione che, per tradizione e deficit interni, sperimenta una forte penetrazione esterna.

Il Golfo è l’epicentro della politica mediorientale della Cina. Nonostante il calo della domanda petrolifera nazionale, causato dal rallentamento di produzione industriale e consumi interni, Pechino dipende energeticamente dal Golfo: Arabia Saudita in testa, ma anche Oman, Iran, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti (UAE). A livello sistemico, il Golfo è in grado di influenzare le dinamiche socio-politiche del Levante e di parte dell’Africa, grazie ai proventi della rendita energetica e alle reti di patronage su base transnazionale. Ecco perché relazionarsi con Arabia Saudita e Iran significa, per la Cina, dover trovare un punto di sintesi su tutti i “temi caldi” dell’agenda regionale.

Equidistanza e cautela sono le parole chiavi del rapporto fra Pechino e le due capitali rivali: il ritorno dell’Iran nel mercato petrolifero internazionale aumenterà la competizione economica fra la repubblica islamica e il regnowahhabita anche in relazione ai Paesi asiatici. La rottura delle relazioni diplomatiche fra Riyad e Teheran, seguita all’esecuzione del religioso sciita saudita Nimr Al-Nimr, rende l’equilibrismo strategico cinese ancora più fragile.

Nei giorni tesi dello scontro saudita-iraniano il vice ministro degli esteri Zhang Ming è volato sia in Arabia Saudita che in Iran (facendo così da apripista per la visita di Xi Jinping), auspicando una de-escalation tra le parti. La Cina aveva già intensificato gli sforzi diplomatici sulla Siria. Con un gesto insolito, Pechino ha infatti invitato esponenti del governo siriano e dell’opposizione per colloqui di pace sotto l’egida delle Nazioni Unite, dopo aver ospitato alcuni leader dell’opposizione al regime di Bashar Al-Assad.

Anche il conflitto in Yemen mette costantemente alla prova l’equidistanza di Pechino, che importa una limitata ma crescente quantità di petrolio yemenita dal terminal di Masila. La Cina ha votato la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite n°2216 (che impone il ritiro dei miliziani sciiti, fra cui gli huthi appoggiati dall’Iran, dai territori occupati), ma ha chiesto all’Arabia Saudita di fermare i bombardamenti sul paese. Pechino ha però pragmaticamente avviato contatti diplomatici con Ansarullah (il movimento degli insorti del nord, gli huthi) dopo il golpe del gennaio 2015. Nel corso della visita a Riyad, il presidente cinese ha reiterato il sostegno al governo legittimo dello Yemen, sostenuto dalle monarchie del Golfo, ribadendo l’indivisibilità dell’unica repubblica della Penisola arabica. Mesi fa, la Cina aveva però contribuito a dissuadere il già reticente Pakistan dal partecipare all’intervento militare della coalizione sunnita, a dispetto delle insistenze saudite. Anche Islamabad ha la necessità strategica di bilanciarsi fra sauditi e iraniani, conservando la tradizionale alleanza con Riyad ma, al contempo, esplorando nuove opportunità di business con il vicino Iran.

Le potenze asiatiche, Cina e India in testa, sono al centro del tentativo di diversificazione delle alleanze internazionali da parte delle monarchie del Golfo, soprattutto dopo il disgelo diplomatico fra Stati Uniti e Iran. Per l’Arabia Saudita, Cina e India sono già partner economico-energetici di primo piano, ma i sauditi vorrebbero ora intensificare la cooperazione nel settore della sicurezza (con uno sguardo alle forniture militari) in chiave anti-iraniana, pur nell’indispensabilità dell’ombrello di difesa statunitense. La visita di Xi Jinping a Riyad, sette anni dopo quella di Hu Jintao, giunge dopo il viaggio del premier indiano Narendra Modi negli EAU (agosto 2015): due tasselli significativi della crescente interdipendenza Golfo-Asia.

Pechino ha però una visione diversa dei rapporti con sauditi e iraniani: obiettivo della Cina è massimizzare i benefici economici mediante l’interazione parallela con le potenze rivali del Golfo, ricalcando il modello della neonata Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), che vede la compresenza di Riyad e Teheran. Infatti, gli accordi firmati dal presidente cinese nel corso del tour mediorientale sono stati soprattutto economici, come testimonia la joint-venture Saudi Aramco – Sinopec per la raffineria della città industriale saudita di Yanbu (inaugurata durante la visita), oppure i progetti per lo sviluppo della Zona Economica del Canale di Suez in Egitto. Cina e monarchie del Golfo si sono altresì impegnate al rilancio, entro il 2016, dei negoziati per la creazione di un’area di libero scambio.

La stabilità del Golfo è dunque diventata essenziale per la Cina. Hormuz e il Babel-Mandeb sono choke-pointfondamentali per l’approvvigionamento energetico e i transiti commerciali: la “Nuova Via della  Seta” delineata da Pechino nel 2013 passa innanzitutto dalla libertà di navigazione – pur avendo una dimensione anche continentale-terrestre. È anche questa la ragione per cui la Cina è fortemente interessata alla stabilizzazione del quadrante di Aden, crocevia d’insicurezza fra Golfo, Corno d’Africa e Oceano Indiano.

La scelta di costruire un “appoggio logistico” a Gibuti (di fatto una base militare permanente, la prima all’estero, di prossima apertura) conferma questo trend, funzionale anche alla difesa degli interessi economici della Cina nell’Africa orientale. La missione anti-pirateria delle unità navali cinesi, attiva dal 2008, potrebbe presto giungere alla sua conclusione, mentre Yemen e Somalia sperimentano un incessante disfacimento delle istituzioni statuali; proprio nelle acque di Aden, Cina e NATO hanno condotto nel novembre 2015 le prime esercitazione congiunte di contrasto alla pirateria.

In un momento di forte turbolenza regionale, la Cina sta singolarmente investendo maggiori risorse diplomatiche per la stabilità del Medio Oriente. Pechino sceglie così di attingere -seppur nei limiti della non-interferenza – a quell’enorme capitale politico che le deriva dal raggiungimento di un grande peso economico. In una prospettiva di interesse nazionale la Cina sta solo ricalibrando la sua politica estera mediorientale, senza mutarne, però, la strategia di fondo. Tuttavia, ciò potrebbe avere implicazioni nuove a livello regionale; specie se il complicato equilibrismo fra le due rive del Golfo divenisse sempre più difficile da mantenere.

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