Una crisi simultanea sta attraversando sia le democrazie consolidate, scosse dall’affermazione di movimenti populisti e sovranisti, sia l’ordine internazionale, sempre meno capace di coordinamento e decisamente lontano da quei parametri di istituzionalizzazione liberale che ne avevano contraddistinto quantomeno l’orizzonte. Tale constatazione ci costringe a chiederci se tra i due fenomeni non ci sia una stretta correlazione.
Sarebbe facile liquidare la questione come la manifestazione del tante volte vaticinato “declino dell’Occidente” di fronte allo spostamento geografico dell’asse del potere politico e del baricentro economico mondiale. E se la spiegazione fosse semplicemente questa, avrebbe ben poco senso affannarsi a ricercare impossibili rimedi. Tanto varrebbe rassegnarsi – questa è la parola – a un ruolo da comprimari in un mondo disegnato da altri, su valori lontani da quelli liberali e socialdemocratici: cioè espressione delle due culture politiche che hanno, non senza frizioni e tensioni, concorso a dare forma al mondo nel Novecento lottando, e alla fine trionfando, contro i totalitarismi e gli autoritarismi.
Si tratterebbe però, a mio avviso, di una spiegazione alla fin fine comoda, che ci esimerebbe dallo sforzo di comprendere se le cause della crisi non siano invece da ricercarsi prima di tutto internamente all’Occidente stesso. In questo secondo caso, non ci sarebbe nulla di ineluttabile nel nostro presente affaticamento. La possibilità di rilanciare le prospettive dell’ordine liberale internazionale e quelle delle democrazie consolidate dipenderebbe invece e anzitutto da noi, dalla nostra capacità di autoriformarci, nella consapevolezza che i mutati rapporti di potere tra vecchie e nuove o risorgenti potenze non predicono obbligati declini egemonici, men che meno ne dettano i tempi, e soprattutto non precludono reazioni e inversioni di tendenza.
L’EQUILIBRIO DEMOCRAZIA-MERCATO. La mia tesi è infatti che la crisi simultanea dell’ordine interno delle democrazie occidentali e di quello internazionale, di cui esse sono state artefici e garanti, dipenda principalmente dalla rottura dell’equilibrio tra democrazia e mercato che quel modello postulava: ovvero dalla rottura del patto sociale tra capitale e lavoro che lo Stato welfarista – tanto nella versione liberal d’Oltreoceano, quanto in quella socialdemocratica europea – aveva saputo realizzare proprio allo scopo di non soccombere di fronte alle sfide delle proposte politiche illiberali e alle contraddizioni interne del capitalismo.
I tratti salienti dell’ordine liberale internazionale – abbozzati già da Woodrow Wilson sul finire della prima guerra mondiale, ma poi compiutamente definiti da Franklin Delano Roosevelt e Winston Churchill durante la seconda – costituivano un compromesso tra la dimensione del realismo politico e quella delle aspirazioni trasformative del liberalismo. L’ordine si basava infatti sul riconoscimento della necessaria sovranità degli Stati, ma utilizzava il libero mercato e la sua diffusione non solo come un mezzo per il perseguimento del benessere e della ricchezza in campo economico, ma anche come un vincolo posto agli eccessi che la logica della sovranità poteva comportare (e aveva comportato) in politica internazionale. Il mercato era cioè visto come un efficace strumento per tenere sotto controllo l’anarchia internazionale e il frequente ricorso alla guerra che la sovranità degli Stati rendeva sempre comunque disponibile.
L’idea, classicamente liberale, era che aumentando la dimensione internazionale degli scambi economici sarebbe cresciuta la platea di quanti avrebbero avuto molto da perdere dalla loro interruzione. Ed essendo la guerra la modalità più assoluta di interruzione del commercio internazionale, gli interessi della pace sarebbero stati rafforzati proprio dal consolidamento del commercio internazionale. In un mondo che per due volte in un quarto di secolo aveva conosciuto la tragedia delle guerre mondiali, l’utilizzo del mercato, della sua logica e della sua forza per addomesticare la dimensione “selvaggia” della sovranità statale si presentava come, ed era, una strategia di successo.
D’altro canto, l’esperienza della crisi economica del 1929, delle sue lunghe e devastanti conseguenze e delle modalità attraverso le quali si era cercato di porvi rimedio, aveva dimostrato con molta chiarezza che i mercati non si autoregolano – meno che mai i mercati finanziari – e che i loro squilibri possono produrre effetti disastrosi ben oltre la sfera meramente economica, in grado di tracimare in ogni ambito sociale (era la lezione americana degli anni Trenta) e persino di travolgere le istituzioni democratiche (e il tracollo della Repubblica di Weimar con l’affermazione del nazismo era lì ad attestarlo). La lezione appresa tra le due guerre era in questo senso molto chiara: solo la creazione di un solido ceto medio – cioè l’arricchimento, in termini economici ma non solo, di ampie porzioni dei ceti popolari, la loro inclusione nel circuito del benessere, dei consumi, dell’affluenza, della cultura politica liberale – avrebbe potuto formare quel “popolo” di cui i sistemi liberali avevano disperatamente bisogno per potersi trasformare in effettivi e consolidati sistemi democratici.
È vero che l’estensione dei diritti di cittadinanza – si pensi al suffragio universale maschile – era stata raggiunta ai primi del Novecento in molte di quelle che sarebbero poi divenute le democrazie che oggi conosciamo. Ma l’inclusione politica era stata svuotata in gran parte dei suoi effetti dalla rampante diseguaglianza economico-sociale, che aveva reso i “nuovi cittadini” facile preda per i demagoghi, che proprio su quel disagio e quella disparità tra le “promesse e le premesse della democrazia” avevano costruito la loro fortuna politica, causando nel contempo la disgrazia delle proprie nazioni.
Non c’è dubbio che la guerra fredda, mentre da un lato limitava la pretesa universalistica del modello fondato su democrazia e mercato, dall’altro rafforzava le ragioni del patto sociale che ne era alla base; ed è impossibile non riconoscere che, nella sostanza, tanto il modello quanto il patto sociale si realizzavano più o meno compiutamente in Occidente traendo sostanza anche dai rapporti di forza tra quest’ultimo e il resto del mondo. Sta di fatto che proprio la fine della guerra fredda segna il punto di svolta di un’inversione che si era già avviata nei decenni precedenti: in particolare negli anni Settanta quando, mentre si costruivano gli elementi culturali che avrebbero consentito la contestazione ideologica dello Stato sociale e dell’embedded liberalism (la rivoluzione neoconservatrice), si decideva di uscire dalla crisi economica post-shock petrolifero del 1973 addossandone il costo principalmente alla forza lavoro. La decostruzione della logica e della necessità del patto sociale welfarista si consumava cioè progressivamente sul piano dell’egemonia culturale, dei rapporti di forza economico-sociali e infine nella dimensione internazionale. L’avvento dell’era della globalizzazione si accompagnava simbolicamente al tracollo dell’impero sovietico e del suo modello alternativo (costoso e liberticida) di modernizzazione.
LA GLOBALIZZAZIONE E LA FINE DEL PATTO SOCIALE NELLE DEMOCRAZIE. È con la globalizzazione che si altera compiutamente quell’equilibrio tra mercato e democrazia che passa attraverso la progressiva delegittimazione della sovranità, che della democrazia può essere il solo ambito di esercizio. Non c’è dubbio che anche in Occidente la dimensione politico-militare della sovranità (quella della sicurezza, per intenderci) era stata di fatto sussunta all’interno dell’Alleanza atlantica, con il ruolo di egemonia temperata esercitato dagli Stati Uniti: ma restava nella piena disponibilità degli Stati la dimensione della sovranità economico-finanziaria e monetaria. Certo, anche quest’ultima conosceva limitazioni legate all’interdipendenza, ma ai governi e alle maggioranze parlamentari della cui fiducia essi comunque necessitavano (al di là delle forme istituzionali in cui le diverse democrazie erano declinate), restava sempre la possibilità di sospendere gli effetti dell’interdipendenza, pagandone evidentemente il costo: scegliendo quali settori domestici privilegiare, attraverso l’alternanza delle coalizioni e dei blocchi sociali di riferimento, cioè scegliendo il costo ritenuto “minore” o più sopportabile, nel nome del mix di valori e interessi in cui si inserisce e a cui si riferisce ogni decisione politica.
Non è per nulla un caso che oggi la destra sovranista – dall’Italia all’Ungheria – agiti continuamente la bandiera della sovranità intesa nella sua dimensione della sicurezza politico-militare (chiusura dei confini, lotta ai flussi di persone, ostentazione imparaticcia e pacchiana dei simboli del patriottismo) ma sia tutt’altro che determinata nell’aggredire le conseguenze della perdita di sovranità economica derivante dall’egemonia culturale del neoliberalismo (si pensi alla recente legge sugli straordinari voluta dal governo Orban).
Negli anni della guerra fredda si teorizzava che i paesi socialisti appartenenti al Patto di Varsavia fossero effettivamente sistemi a “sovranità limitata”. Oggi non possiamo non constatare come i nostri sistemi siano tutti a sovranità limitata, dove però il sequestro della sovranità non è avvenuto a opera di una potenza straniera (l’Unione Sovietica, nel caso del Patto di Varsavia) ma a opera della cosiddetta “logica del mercato”, che in realtà non tutela la libera competizione ma protegge gli interessi più concentrati e quindi più forti. Il terreno della sovranità e perciò quello stesso della democrazia è stato incredibilmente e colpevolmente lasciato senza alcuna vigilanza. Si è persa persino la nozione che, se il mercato poteva rappresentare un freno agli eccessi della sovranità, la sovranità stessa costituiva il necessario vincolo agli eccessi del mercato.
L’idea della regolamentazione dei mercati è stata sostituita con quella della loro autoregolamentazione, che anche quando assume le sembianze del loro controllo attraverso istituzioni a loro esterne (si pensi alle cosiddette autorità indipendenti) finisce nondimeno per restare circoscritto alla logica mercatistica. Basti pensare a come si è tentato di riprodurre la stabilità finanziaria internazionale conseguente alla leadership politica degli Stati Uniti, e creata con gli accordi di Bretton Woods, una volta che il sistema è stato messo in mora proprio da Washington all’inizio degli anni Settanta. In ambito europeo questo ha prodotto una serie di tentativi – dal “serpente monetario” al Sistema monetario europeo fino all’adozione dell’euro – la cui logica è stata la sterilizzazione progressiva della sovranità politica nel nome della libertà dei mercati dal condizionamento della politica medesima.
LA ROTTURA DELL’EQUILIBRIO DEMOCRAZIA-MERCATO. Il punto che voglio sottolineare è che nessun supposto equilibrio di mercato è politicamente neutro, perché riflette e insieme nasconde, com’è inevitabile che sia, un determinato punto di compromesso a favore di alcuni valori e interessi e a discapito degli altri possibili punti di compromesso. Per nulla paradossalmente, il sistema di Bretton Woods, fondato sul riconoscimento e sull’accettazione della leadership politica americana, rendeva tutto questo esplicito. La sua sostituzione ha implicato il progressivo occultamento della “ragion politica” a fronte del perseguimento di una pretesa neutralità tecnica che ha finito col rendere intrattabile la questione della sovranità.
Non è un caso che la fine del sistema di Bretton Woods e l’avvio della ricerca di un sistema che almeno parzialmente lo potesse rimpiazzare risalgano agli anni Settanta: certo, quelli dello shock petrolifero e della susseguente crisi economica, ma anche quelli dell’offensiva neoconservatrice contro lo Stato sociale e l’idea che democrazia e mercato, sovranità e mercato, dovessero bilanciarsi e trovare un necessario punto di equilibrio. Non è un caso neppure che sia la presidenza Nixon quella che ha dato vita, da sola, a tante “autorità indipendenti” quante tutte quelle prodotte dalle presidenze precedenti; e che la stagione aurea della creazione di autorità decisionali sottratte “al condizionamento politico”, ovvero allo scrutinio democratico, inizi proprio allora.
A scanso di equivoci, nel caso dell’Italia non sto sostenendo l’opportunità dell’uscita solitaria dall’eurozona come rimedio ai guasti prodotti in passato. Ma credo sia fondamentale fare un esercizio di onestà intellettuale se si vuole non solo comprendere il successo dei movimenti populisti e sovranisti, ma anche capire come mai liberalismo e socialdemocrazia si siano trasformati da ideologie che ponevano libertà, uguaglianza e sovranità popolare al centro della propria riflessione in ideologie di legittimazione del potere.
Non si tratta tanto e solo della sovranità monetaria, ma della questione più complessa del dove si esercita il dibattito sugli obiettivi che lo strumento della sovranità monetaria intende realizzare, su chi stabilisce e in nome di chi e di che cosa quali siano i fini perseguibili, su dove e come è possibile proporre punti di sintesi tra valori e interessi differenti da quelli che servono al meglio gli incumbents. Credo sia del tutto evidente che la deriva populista e sovranista presenta più di un problema in termini di minaccia alla libertà di individui e minoranze. Ma è difficile non cogliere che la lunga precedente stagione tecnocratica ha costituito oggettivamente una minaccia alla democrazia, in termini di progressivo restringimento degli spazi e degli oggetti di ciò che è legittimamente contendibile politicamente a favore di una pretesa oggettività della razionalità economica.
Si è trattato di un pessimo servizio reso alla democrazia, ma altrettanto e forse ancor di più di un pessimo servizio reso al concetto stesso di razionalmente e scientificamente oggettivo. Mi pare che sia proprio dall’equivalenza forzata e fallace tra ciò che è razionale e ciò che è “economicamente razionale” che è passata quella svalutazione dell’approccio scientifico (nei limiti in cui questo concetto è applicabile alle scienze sociali, economia in primis) di cui il delirio “no-vax” è la manifestazione più eclatante.
SOVRANITÀ DEMOCRATICA E ORDINE LIBERALE. Se è convincente la relazione tra la costruzione del patto sociale interno che ha consolidato le democrazie novecentesche e la progressiva affermazione di un ordine internazionale liberale, riteniamo che la dimensione domestica e quella internazionale si siano rafforzate a vicenda. Se è così dobbiamo riconoscere che, seppure sia dall’interno delle democrazie che proviene la minaccia più pericolosa al mantenimento degli inediti caratteri liberali dell’ordine, la crescita dell’influenza di potenze autoritarie come la Russia di Putin e la Cina di Xi rappresenta un’ulteriore e grave fonte di preoccupazione.
Soprattutto la deriva della “nuova Cina”, che sta potenziando i tratti ampiamente liberticidi del regime con un ritorno al culto della personalità che non si ricordava dai tempi di Mao e con una commistione crescente tra potere politico e ricchezza che tradisce lo spirito delle riforme denghiane, è lo sviluppo più pericoloso. La Cina di Xi è peraltro solo il campione più poderoso di una folta pattuglia di sistemi – che comprende la Russia, ma anche le petromonarchie del Golfo – in cui chi governa il paese ne possiede anche le risorse. Rispetto alla sfida principale che la sovranità delle nostre democrazie sta conoscendo, riassumibile nella cattura del regolatore da parte dei portatori degli interessi economici concentrati, in questi sistemi, viceversa, nessun soggetto che rappresenti un ostacolo alla realizzazione degli interessi di chi occupa i vertici del potere gode di alcuna tutela. Possiamo parlare in questi casi di un vero e proprio “capitalismo di concessione” – dove la proprietà privata è sempre e comunque revocabile politicamente – che si contrappone al “capitalismo di mercato” vigente nelle nostre democrazie, dove peraltro la tutela dei diritti di proprietà è sempre più assoluta, non più temperata da alcuna preoccupazione, se non finalità, sociale.
Il fatto che dal punto di vista finanziario tutti questi diversi regimi politici siano però integrati all’interno di un unico mercato globale non fa che rendere ogni giorno più flebili le ragioni della convivenza tra la globalizzazione economica e finanziaria e le istituzioni della sovranità democratica. Giova ricordare che un sistema economico e finanziario globale si era peraltro già sviluppato prima del 1914, convivendo perfettamente con un sistema politico internazionale dai tratti tutt’altro che liberali. Certo, la natura “politica” assunta dal capitalismo in Cina, in Russia o nel Golfo dovrebbe preoccupare gli attori che si muovono nell’area del “capitalismo di mercato”. Così come, in una logica di medio periodo, il crescente nazionalismo politico e il “sovranismo” che li caratterizza dovrebbero indurre a qualche maggiore cautela e a una più attenta valutazione dei vincoli che un simile modello pone alla crescita economica nel lungo periodo. Ma la natura sempre più oligopolistica (e oligarchica) dei nostri stessi mercati potrebbe generare un ritardo nella corretta percezione del pericolo e forme di accomodamento tra gli interessi concentrati e le leadership politiche non democratiche (si pensi agli accordi conclusi dai colossi “social” con la Cina).
Non è quindi da quel lato che potremo aspettarci un sostegno alla natura liberale dell’ordine che vada oltre la “difesa del libero commercio”, peraltro spesso associata alla violazione delle norme sul copyright, allo spionaggio industriale sistematico, all’hackeraggio massiccio e all’appropriazione dei big data. Ciò che occorre piuttosto è una riproposizione dal cuore atlantico ed europeo dei valori liberal e socialdemocratici che soli possono assicurare la difesa della natura liberale dell’ordine internazionale e riaffermare la questione della sovranità democratica.
Per farlo, ripartire dall’Unione Europea è un’opportunità decisamente migliore che ripartire a prescindere dall’ue. A condizione, ovviamente, di riconoscere che altri sono arrivati per primi sul pallone, che dovrà essere politicamente “strappato loro di mano”, e non illudendosi, fin tanto che ciò non avvenga, di poter ignorare il modo in cui essi dettano il gioco e lo spazio in cui lo conducono. In termini europei, il riconoscimento che le sovranità politiche nazionali restano il solo spazio di esercizio della democrazia possibile e che la conquista del consenso dell’opinione pubblica non è più aggirabile nel nome di “ragioni superiori” – e persino di “valori superiori” – è il primo passo per ridare un futuro a sistemi che vogliano mantenere e riaffermare i loro tratti liberali e democratici.