L’economia di guerra in Russia tra de-privatizzazione e scelta cinese

Dopo il vertice dell’Organizzazione di Shangai per la Cooperazione, a Tjanjin tra fine agosto e inizio settembre, e a distanza di poche settimane dal bilaterale in Alaska con il presidente americano, Donald Trump, per il capo del Cremlino, Vladimir Putin, il quadro internazionale pareva essersi ridisegnato in modo favorevole.

Tuttavia, al netto dell’indubbio successo per essere uscito dall’angolo nel quale sembrava essere relegato, poco è cambiato in termini sostanziali. Allo stesso modo, le affermazioni di Trump dopo il bilaterale con Zelensky durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in cui prometteva a Kiev maggiore sostegno contro Mosca, hanno un valore retorico superiore a quello sostanziale. Se è vero che in Cina i governi russo e cinese hanno firmato, fra gli altri 22 contratti, un accordo strategico per la costruzione del gasdotto Siberia-2 specificatamente per il mercato cinese, la situazione economica interna in Russia non è delle migliori, mentre all’orizzonte non si vede una via d’uscita sulla guerra in Ucraina.

Il progetto di Siberia-2 tra Russia e Cina

 

Inoltre, quando il Wall Street Journal ha rivelato delle conversazioni in corso tra Exxon e Rosneft’, quindi tra USA e Russia, sembrava si ventilasse un primo passo verso il ritorno dei capitali stranieri nel Paese, grazie al nuovo clima creato dal vertice in Alaska. Un indicatore della soddisfazione del Cremlino per quell’incontro da un articolo pubblicato da Fyodor Lukyanov, molto vicino alle antenne moscovite, secondo cui il principale successo del vertice Trump-Putin è stato il rifiuto della Casa Bianca di sostenere la tesi, avanzata dall’Europa, secondo cui la Russia sarebbe la parte colpevole e, pertanto, che il conflitto debba essere risolto a favore di Kiev.

La richiesta di fondo di Putin, secondo diverse ricostruzioni, è la stessa da inizio guerra: il blocco dell’ulteriore espansione della NATO e la garanzia di un’Ucraina fuori dall’orbita occidentale. Nei fatti, i dati economici parlano chiaro: spese militari pari all’8% del PIL, aumento delle tasse, crescita asfittica per l’anno corrente, e probabile ricorso a una regolamentazione dei prezzi per i beni alimentari.

 

Le sanzioni come un’opportunità per il Cremlino

La Russia post-invasione dell’Ucraina ha puntato – per opportunismo e per necessità – su un nuovo modello economico, nato sulle ceneri del vecchio: ridistribuire le proprietà di persone considerate non sufficientemente fedeli al Cremlino e creare una nuova classe di proprietari di beni che devono le loro fortune al presidente e alla sua cerchia ristretta. I membri di questa élite, soprattutto i siloviki (servizi di sicurezza) e i loro partner commerciali, per certi versi sono i veri vincitori della guerra in Ucraina. In cambio, garantiscono la stabilità del regime, che permetterà al sistema di reinventarsi anche dopo che Putin avrà lasciato la scena politica.

 

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Gli oligarchi russi credevano che essere soggetti alle sanzioni occidentali offrisse una forma di protezione dalle estorsioni in patria, ma di fatto quelle stesse sanzioni li hanno resi sempre più inutili per il Cremlino: la loro capacità di influenzare le lotte di potere è diminuita e sono stati così sostituiti. Come il potere politico, anche quello economico si rinsalda nelle mani di Putin, che ne ha così riposizionato il baricentro, trasformando il Paese con un’economia di guerra costretta a guardare a est per (soprav)vivere.

 

Le vulnerabilità cinesi della Russia

Da quando Mosca ha invaso l’Ucraina, la Cina è diventata il pilastro dell’economia russa. Nel mezzo di una guerra commerciale e della tendenza americana all’isolazionismo nazionalista, la Russia fa ancora più affidamento su Pechino, e su Delhi sia pure in maniera diversa, con tutte le conseguenze del caso. In estate una nuova ondata di attacchi ucraini con droni a lungo raggio contro le raffinerie russe ha innescato la prima significativa crisi del carburante nel Paese dall’invasione del febbraio 2022. Si sono registrati aumenti record dei prezzi del carburante e carenze in alcune regioni. Sebbene sia improbabile che i problemi si trasformino in una crisi sistemica a livello nazionale, illustrano chiaramente le vulnerabilità dell’economia, indebolita da oltre tre anni di guerra e sanzioni.

Non solo. Dopo tre anni di inflazione intorno al 10%, le autorità russe stanno nuovamente cercando di regolamentare i prezzi dei prodotti alimentari di base e hanno avviato discussioni con i principali operatori del mercato sulle modalità di applicazione. L’obiettivo del disegno di legge proposto è di fissare i prezzi per almeno un anno con contratti a lungo termine che né il fornitore né il rivenditore potranno rivedere per 12 mesi.

 

Le nazionalizzazioni e l’amico americano

Anche se Putin sembra essere rientrato in grande stile sulla scena internazionale – e forse non ne è mai uscito, ma sono cambiate le prospettive, soprattutto europee, nei suoi confronti – il clima degli investimenti continua a peggiorare.

Per chi non ha sostegno ai massimi livelli politici, fare affari in Russia è una grande e rischiosa scommessa. Il sostegno a un accordo fra Exxon Mobil e Rosneft’ è stato discusso alla Casa Bianca, ma i legami fra le due aziende sono di lunga data. Exxon Mobil ha gestito il redditizio Sakhalin-1 per quasi 30 anni, detenendo il 30% delle azioni del progetto, uno degli investimenti internazionali più significativi della società statunitense. L’ex capo di Exxon Mobil, Rex Tillerson, è stato insignito dell’Ordine dell’Amicizia della Russia e, durante il primo mandato di Trump, ha ricoperto la carica di Segretario di Stato americano. Si può affermare senza paura di smentite che il presunto deal tra Exxon Mobil e Rosneft’ rappresenta un caso isolato e non un ritorno a un’epoca precedente, ma semplicemente un accordo tra due aziende con legami politici impeccabili.

Al contrario, le aziende stanno ancora cercando vie d’uscita dalla Russia, soprattutto a causa della continua ridistribuzione delle proprietà, che colpisce sia i russi che gli stranieri. In passato, la ragione principale per la confisca era solitamente la corruzione, come ad esempio nella recente nazionalizzazione della società mineraria aurifera YuzhUralZoloto. Ma la maggior parte dei casi di nazionalizzazione ora sono giustificati da legami con l’Occidente o dalla fornitura di assistenza ai nemici geopolitici della Russia. Negli ultimi tre mesi, lo Stato ha sequestrato le proprietà dell’aeroporto di Domodedovo, i cui intestatari apparentemente sono caduti sotto l’influenza straniera; del rivenditore di cibo in scatola Glavprodukt, il cui proprietario statunitense avrebbe interrotto le forniture all’esercito; di Lesta Games, proprietaria della parte russa del popolare gioco online World of Tanks, etichettata come “organizzazione estremista”. Accuse di estremismo sono state estese invece contro il miliardario Denis Shtengelov, a capo di KDV Group, un’azienda alimentare con un fatturato annuo di quasi 4 miliardi di dollari. L’accusa di estremismo è quindi una scusa comoda per le autorità, poiché consente loro di nazionalizzare le aziende con un colpo di penna, mentre nei casi di corruzione è necessario fornire prove.

 

La Russia taglia le previsioni di crescita economica

Decisioni che denotano difficoltà e nervosismo, sintomi di fondamentali economici che portano ad avere una visione pessimistica. Il Ministro delle Finanze, Anton Siluanov, ha dichiarato che il PIL quest’anno aumenterà solo dell’1,5%, invece del 2,5% previsto in precedenza. A luglio, la Banca Centrale ha lasciato invariate le previsioni di aprile di una crescita compresa tra l’1% e il 2%, mentre l’Istituto di Statistica Statale stima che sarà dell’1,1% – tutti dati da interpretare tenendo conto che l’aumento massiccio delle spese militari sta drogando la produzione in importanti settori industriali. E le prospettive rimangono pessime. Anche se un gran numero di sanzioni venissero revocate in breve tempo, è molto difficile che possa ripetersi quanto accaduto dopo il default russo del 1997. All’epoca, tutti prevedevano che la catastrofe finanziaria sarebbe stata così grande che nessun investitore occidentale sarebbe mai più tornato nel Paese, anche se dopo meno di cinque anni capitali e investitori stranieri si riversarono nuovamente sul mercato russo.

Le differenze però sono molte. In primo luogo, la Russia aveva una crescita annua del Pil del 7% alla fine degli anni ’90, una domanda dei consumatori in rapida crescita e una capacità produttiva sottoutilizzata. Aveva attuato diverse importanti riforme di mercato, ridotto le tasse, rafforzato i diritti di proprietà e stava cavalcando l’ondata di un’impennata dei prezzi del petrolio. Tutto ciò giustificava i rischi per gli investitori stranieri. Oggi, l’economia sta rallentando senza alcun motivo di aspettarsi una crescita superiore alla media, i redditi delle famiglie stanno iniziando a ristagnare, la domanda è soddisfatta dai fornitori nazionali e dalle importazioni cinesi, e i prezzi del petrolio non stanno crescendo. Inoltre, il Cremlino non mostra alcun segno di voler fermare le nazionalizzazioni, e le tasse sono destinate ad aumentare per finanziare la guerra.

Le autorità russe si stanno preparando ad aumentare le tasse e a tagliare le spese non militari affinché il bilancio della difesa possa continuare a crescere. L’amministratore delegato di Sberbank, German Gref, a capo della più grande banca russa e uno dei suoi economisti più influenti, si è apertamente unito a coloro che temono che la Russia si stia avvicinando alla recessione e ha chiesto alla Banca Centrale di tagliare i tassi di interesse, per contenere il raffreddamento dell’economia, come affermato in un discorso all’Eastern Economic Forum di Vladivostok.

Le entrate derivanti dal petrolio e dal gas stanno diminuendo e l’economia non può compensare tale calo, al punto che il deficit di bilancio della Russia ha quasi raggiunto i 62 miliardi di dollari e ha già superato l’obiettivo annuale. Nonostante le diffuse richieste di tagliare i tassi di interesse, sembra che la Banca di Russia non sia ancora disposta a prendere una decisione così drastica. Senza dirlo esplicitamente, la banca centrale lega il futuro economico del Paese alla durata della guerra contro l’Ucraina e alle conseguenze economiche che questa comporta: maggiore spesa pubblica, sanzioni più severe e un’economia più chiusa.

Traffico sulla Prospettiva Nevsky a San Pietroburgo

 

La missione di Putin: salvare la Russia da se stessa

Dopo aver ereditato un Paese uscito dal doppio shock del crollo dell’Unione Sovietica e del decennio ’90 del capitalismo selvaggio e sregolato, con scaffali vuoti, cifre truccate e interi ministeri che funzionavano grazie alle bugie, la stella polare di Putin è sempre stata molto semplice: Russia first. La patina ideologica serve più come strumento che come fine, che rimane quello della sopravvivenza, della ricerca di un vantaggio rispetto agli altri. Negli anni, il potere putiniano ha visto i sermoni democratici di Washington svanire, oltre alle rivoluzioni colorate che hanno attraversato lo spazio post-sovietico e si sono, forse definitivamente, infrante in Georgia.

 

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Certo, l’arroganza può far marcire uno Stato più velocemente di qualsiasi battaglione di carri armati, ma per un paese profondamente paranoico riguardo alla sicurezza sistemica, la ricerca di un accordo globale e omnicomprensivo che ne garantisca l’esistenza stessa può e deve avvenire a qualunque costo, anche quello di trasformare a medio o lungo termine l’economia a condizioni incomprensibili per noi occidentali.

Tutto ciò che il Cremlino vuole davvero è persistente controllo nello spazio della politica interna, e partner di grosso calibro su cui poter contare all’estero. Come hanno fatto brillantemente notare a The Bell, Putin crede tuttora di essere qui per assicurarsi che la Russia sopravviva, e persino prosperi. Questa è la sua ideologia, a questo si ispirano anche le scelte economiche. Al netto di tutto l’apparato retorico, le sponde che trova a Washington così come a Pechino sono utili al suo disegno.

 

 

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