Le vie dell’impero iraniano

Erano passate soltanto poche settimane da quei drammatici giorni a cavallo tra gennaio e febbraio del 1979, quando la fuga dello scià Muhammad Reza Pahlavi e il trionfale rientro in patria dell’ayatollah Ruhollah Khomeini avevano spianato la strada alla nascita della Repubblica islamica in Iran. Eppure, un gruppo di religiosi particolarmente zelanti ai vertici del potere rivoluzionario aveva già trovato il tempo per pianificare la distruzione di tutti i principali siti archeologici del Paese, considerati vestigia blasfeme di un passato pagano da cancellare. Fu solo l’opposizione di Khomeini in persona a impedire l’esecuzione del progetto in nome della salvaguardia della millenaria storia imperiale persiana, rispetto alla quale il nascente Stato teocratico doveva considerarsi erede e prosecutore.

La rigida applicazione della morale sciita veniva così piegata alle ambizioni del nuovo regime, mosso dal desiderio di riscatto verso una condizione di subalternità percepita come frutto dei soprusi occidentali e pronto a sfidare equilibri apparentemente consolidati in Medio Oriente. Da tale approccio derivano gli attuali disegni egemonici di Teheran, che trovano ancora oggi nei territori e nei cuori dei popoli arabi circostanti il principale terreno di espansione e di conquista.

Panorama di Teheran

 

Tra distinzione e proiezione di potenza

Proprio attraverso questa lente, la Repubblica islamica interpreta e definisce i suoi rapporti con i Paesi confinanti. Nel corso dei secoli, le dinastie originarie degli altipiani iranici compresi tra i contrafforti meridionali del Caucaso, i Monti Zagros e le cime innevate degli Elburz hanno costruito i loro potenti imperi dilagando soprattutto nelle terre dell’antica Mesopotamia, lungo le coste del Golfo e fino al Levante mediterraneo. Sono stati dunque principalmente gli arabi a essere oggetto di conquista per le armate provenienti da quell’Oriente tanto vicino geograficamente quanto lontano per i suoi culti ancestrali e per la diversità delle usanze. Solo in un caso il copione della Storia ha voluto invertire le parti, assegnando proprio agli arabi il ruolo di conquistatori. Siamo a metà del VII secolo – all’indomani della morte di Muhammad – quando la Persia divenne parte del Califfato dei Rashidun che, all’apice della sua ascesa, riuscì a spazzare via il traballante impero dei Sasanidi durato più di quattro secoli.

Insieme al ferro e al sangue, le armate di Ali ibn Abi Talib, cugino e genero del profeta Muhammad, portarono in Persia la nuova religione islamica. Fu una conquista non solo politica e territoriale, ma anche culturale e spirituale che, ancora oggi, è vissuta come un trauma nella coscienza collettiva del Paese. La fede nell’unico Dio e nell’ultimo dei suoi messaggeri impiegò circa tre secoli a diffondersi in maniera capillare e fa ormai parte della vita della maggioranza degli iraniani. Ma la loro caparbietà a considerarsi diversi rispetto agli altri popoli del Medio Oriente permea il tessuto sociale al di là delle opinioni politiche e religiose contingenti. Ne è chiaro esempio lo stesso sviluppo dell’Islam sciita fin dalla rottura della fine del VII secolo: oltre alle più o meno evidenti differenze teologiche rispetto ai musulmani sunniti, il perdurare dello scisma risponde anche al bisogno antropologico e sociale degli abitanti dell’antica Persia di differenziarsi e marcare le distanze dagli altri credenti.

Queste brevi considerazioni storico-culturali aiutano a meglio inquadrare e a comprendere la sfida che, da quasi mezzo secolo, il regime degli ayatollah lancia alla superpotenza americana e ai suoi clientes mediorientali, arabi e sunniti. L’Iran di oggi si considera continuatore, anche se sui generis, e non epigono di una successione plurisecolare di imperi. In questo trova la linfa per nutrire le sue ambizioni e guardare con sovrano distacco a quegli arabi considerati, nel migliore dei casi, dei parvenu immeritatamente benedetti dal Creatore – nel caso delle monarchie sunnite del Golfo – con le ricchezze di un sottosuolo senza le quali sarebbero rimasti niente di più che pastori nomadi e commercianti di perle e datteri. Una così alta opinione di sé contribuisce a plasmare la riluttanza dell’Iran contemporaneo a riconoscere altri attori imperiali insediati subito al di là dei suoi confini.

Tale approccio è mitigato solo nei rapporti con i turchi, tenendo conto delle loro altrettanto vivaci ambizioni egemoniche e dei loro richiami al passato ottomano e al presente repubblicano. Le due nazioni si sono incontrate e scontrate per secoli in un intreccio inestricabile di guerre e accordi. Ne è nato paradossalmente un modus vivendi che, seppur sempre precario, regola anche oggi i rapporti tra Ankara e Teheran in un’infinita successione di relazioni tese e riavvicinamenti tattici. Questo atteggiamento complessivo si manifestano anche nei riguardi di Israele che, sotto il velo della retorica incendiaria e delle posizioni inconciliabili, è rispettato e temuto da Teheran come entità politica vera e dalle radici profonde, anche se di recente costituzione.

Un malcelato disprezzo di fondo segna invece lo sguardo verso i Paesi arabi del Medio Oriente, percepiti come scatole vuote, frutto degli appetiti coloniali degli europei che si spartirono la carcassa dell’impero ottomano dopo la Prima guerra mondiale, oppure come possedimenti privati di case regnanti estranee alla nobile tradizione statuale persiana. Senza il loro protettore americano, difficilmente i Paesi del Golfo sarebbero al riparo dalle ambizioni iraniane. L’ostilità verso gli Stati Uniti, insieme a tante altre cause di competizione e di risentimento, è accentuata proprio dal contenimento praticato da Washington, attraverso lo Stato ebraico e le petromonarchie sunnite, nei confronti di una proiezione iraniana destinata altrimenti a irradiarsi con franchezza in tutta la penisola arabica fino al Mar Rosso e al Mediterraneo orientale.

L’Iran, il Levante e i Paesi arabi del Medio Oriente

 

Paure nel Golfo

È dunque comprensibile la paura di fondo che l’Iran continua a esercitare sulle opulente capitali del cuore petrolifero del Medio Oriente. Consapevoli che la loro straordinaria forza economica si abbina ad una altrettanto sorprendente fragilità sul piano politico e della sicurezza, le petromonarchie sono alla ricerca continua della protezione statunitense, che finisce per diventare una spasmodica ossessione quando – come accade da due decenni a questa parte – Washington mostra segni di stanchezza o disinteresse per l’area. I giri di valzer dei sauditi con i russi e i cinesi, che non hanno le capacità né le intenzioni di assumere impegni anche lontanamente paragonabili a quelli americani in Medio Oriente, sono funzionali più ad attirare l’attenzione degli USA senza arrivare alla rottura completa che a mostrare libertà nella scelta dei partner politici e commerciali.

 

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Al contrario, l’ostentazione della sintonia con Mosca e Pechino da parte delle monarchie del Golfo Persico è quasi esclusivamente finalizzata a strappare concessioni a Washington e a non perdere il suo ombrello difensivo. Lo si è visto anche nelle ore cariche di drammatica attesa del 13 aprile scorso, quando dall’Iran sono partiti droni e missili verso Israele in un’azione più dimostrativa che reale, pensata per ribadire allo Stato ebraico le linee rosse del regime degli ayatollah. Durante l’operazione, l’Arabia Saudita e la Giordania hanno dato un contributo importante, anche se non ammesso pubblicamente, alla controffensiva israeliana per abbattere gli ordigni volanti. Tale solerzia serviva a mostrare a Washington di poter essere validi componenti di un’alleanza mediorientale anti-iraniana, più che essere dettata da una reale sollecitudine per la sicurezza dello Stato ebraico.

 

Il nodo Hamas

La paura dell’Iran si fa tanto più acuta quanto più Teheran mostra la sua disinvoltura a ignorare le differenze confessionali interne alla umma islamica in nome del perseguimento di obiettivi squisitamente strategici. Ne è un esempio il legame con Hamas, approfonditosi negli ultimi anni e divenuto palese in occasione del massacro del 7 ottobre, che avrebbe avuto scarse probabilità di successo senza l’appoggio politico, finanziario e logistico di Teheran – sebbene ciò non implichi necessariamente una diretta partecipazione e un coinvolgimento nella pianificazione dell’attacco. Il sostegno iraniano alle formazioni politico-militari palestinesi è diventato più consistente a seguito del ridimensionamento delle ambizioni del presidente turco Erdoğan a guidare l’Islam politico riunito nella galassia della Fratellanza musulmana: ridimensionamento dovuto all’esigenza di non perdere i soldi del Qatar indispensabili a puntellare la traballante economia di Ankara.

L’importanza di Hamas quale pilastro del cosiddetto “asse della resistenza” a guida iraniana è reso palese anche da iniziative apparentemente prive di importanza, ma in realtà cariche di valore simbolico. La partecipazione di Ismail Haniyeh alla cerimonia di inaugurazione della presidenza di Masoud Pezeshkian a Teheran e i colloqui con la Guida Suprema Ali Khamenei testimoniano la piena integrazione dei leader del movimento politico-terroristico palestinese alla corte degli ayatollah. Il suo trasferimento dal Qatar, dove risiedeva dal 2019, ha richiesto l’organizzazione di un’operazione pericolosa sul piano della sicurezza. Ma gli iraniani hanno comunque deciso di correre il rischio poi concretizzatosi nell’uccisione di Haniyeh pur di mostrare plasticamente la loro ascendenza sulle formazioni palestinesi.

Il regime degli ayatollah non si è quindi lasciato sfuggire l’occasione per incunearsi nelle divisioni interne ai Paesi a maggioranza sunnita per realizzare i suoi progetti egemonici. Mentre per attori come Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen e i gruppi iracheni il comune retroterra sciita ha facilitato l’ingresso nell’orbita iraniana, per Hamas le cose non erano così scontate. Ma la disinvoltura del regime degli ayatollah a inserire proxy di affiliazione sunnita è difficile da inquadrare solo se non si tiene conto delle logiche imperiali della Repubblica islamica.

 

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Lo schieramento di Teheran a favore della resistenza all’intervento militare israeliano nella Striscia di Gaza, ormai in corso da dieci mesi, non è solo coerente con la vicinanza a Hamas e con l’ostilità allo Stato ebraico. L’Iran si è impegnato in un’impresa ben più ampia e potenzialmente carica di conseguenze nel lungo periodo. L’obiettivo è accattivarsi la simpatia delle masse arabe, sensibili alle sofferenze dei palestinesi e in palese contrasto con l’imbarazzante posizione dei rispettivi governi, che non sono andati al di là delle aride formule di condanna della reazione di Israele ai massacri del 7 ottobre, pur definita sproporzionata e insensibile alle sofferenze dei civili.

L’Ayatollah Khamenei con il capo politico di Hamas Ismail Haniyeh nel novembre 2023 a Teheran

 

Il disagio è più marcato nel caso dell’Arabia Saudita che, a settembre dello scorso anno, aveva lasciato trapelare la vicinanza alla conclusione dei negoziati per giungere allo storico avvio di relazioni diplomatiche ufficiali con lo Stato ebraico. Teheran, facendosi alfiere della causa palestinese, punta a conquistare il cuore degli arabi. Da una tale posizione, l’Iran potrebbe disporre in futuro di un inaspettato ma potente strumento di pressione sui governi mediorientali, sempre timorosi di dover fronteggiare eventuali fiammate di violenza provenienti dalle piazze inferocite.

In effetti l’Iran appare come l’unico Paese mediorientale che non si nasconde dietro sterili note diplomatiche, schierandosi con forza a favore di Hamas e dei palestinesi. È presto per dire se questo approccio sarà foriero dei risultati che Teheran scientemente persegue per accreditarsi come inaspettato megafono delle masse arabe. Si tratta di un paziente lavoro di captatio benevolentiae che i governi arabi, soprattutto quelli del Golfo, hanno colto immediatamente non senza malcelata preoccupazione. Cosa che li obbliga a fare molta attenzione per non apparire interessati solo a salvaguardare i rapporti più o meno evidenti con lo Stato ebraico, a scapito della questione palestinese che, fino a pochi mesi fa, quegli stessi governi avevano ampiamente dimostrato di considerare un punto tranquillamente negoziabile.

L’Iran dispone di numerosi strumenti di comunicazione in lingua araba per veicolare i suoi messaggi, che vanno dalle televisioni e dalle pagine sui principali social network controllate da Hezbollah ai canali iracheni e yemeniti, senza contare le trasmissioni in arabo gestite direttamente dall’Islamic Republic of Iran Broadcasting. Il network qatarino Al-Jazeera, da parte sua, sta raccontando senza soluzione di continuità l’evoluzione del conflitto a Gaza con una narrativa che evidenzia le atrocità commesse dalle IDF e le sofferenze dei palestinesi. Tale linea editoriale è espressione delle già note fratture interne alle Monarchie del Golfo, con Doha che cerca di approfittarne per mostrare di non essere indifferente al dramma di Gaza mettendo così in cattiva luce i sauditi e gli emiratini per le loro posizioni più moderate.

La partita a tutto campo che la Repubblica islamica intende continuare a giocare per modificare a suo vantaggio gli equilibri geopolitici del Medio Oriente contemporaneo interessa dunque gli ambiti più disparati, compresi quelli apparentemente ininfluenti sulla politica internazionale. Nonostante decenni di isolamento e di sanzioni economiche occidentali, Teheran non rinuncia a inseguire velleità egemoniche grazie all’approccio imperiale agli equilibri regionali, frutto di una tradizione ben più antica della Repubblica islamica rispetto alla quale il regime degli ayatollah non si considera estraneo.

Lo stesso annuncio dell’imminente accordo di mutua difesa, che gli Stati Uniti stanno negoziando con l’Arabia Saudita, non sconvolge i piani di Teheran – che intanto ha comunque aperto un canale di dialogo diretto con i sauditi, ufficializzato nel marzo 2023 con una certa enfasi ma pochi effetti concreti. L’impegno americano a difendere Riad per trattato, in maniera simile agli alleati della NATO e al Giappone, non apporta cambiamenti rilevanti al modo iraniano di concepire la sua posizione in Medio Oriente. È più Riad che preme affinché l’accordo di firmato prima delle elezioni americane di novembre, nonostante la cautela di Washington, ancora indecisa tra l’ulteriore sovraestensione dei suoi già numerosi impegni in giro per il mondo e la necessità di puntellare un alleato strategico ma debole.

 

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L’impazienza dei sauditi è un’ulteriore conferma per Teheran che, senza la protezione degli americani e, in forme più o meno evidenti, degli israeliani, le contrade desertiche della penisola arabica e le terre comprese tra i monti dell’antica Persia e il Levante mediterraneo sarebbero tutte nella disponibilità delle sue ambizioni di grandezza. D’altronde, è proprio in questa regione che il corso dei secoli ha visto l’espansione e la contrazione dei domini delle dinastie originarie degli altipiani iranici rispetto alle quali la Repubblica islamica continua a mostrare un’inaspettata continuità.

 

 

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