Le vie della prosperità

Questo articolo è pubblicato sul numero 4-2025 di Aspenia

Una delle lezioni dei dazi, e prima ancora delle sanzioni, è che, come aveva scritto a suo tempo Adam Posen su Foreign Affairs (“The end of globalization?”), sono le alleanze, e non l’economia o la finanza di per sé che contano. O meglio, le due cose vanno insieme. La cosiddetta “resilienza” della globalizzazione – che si fonda anche su strutture fisse come i cavi sottomarini e la rete – consiste nel fatto che, in una economia interdipendente e multipolare, i circuiti, i commerci, le rotte si riorganizzano e le strozzature trovano (quasi) sempre una via d’uscita, anche alternativa o triangolare, almeno fintanto che dall’altra parte del filo c’è un big player o una grande coalizione. Argentina e Brasile – tanto per fare un esempio ricavato dall’attualità di questi mesi – hanno, nel contesto della guerra commerciale, rapidamente sostituito gli Stati Uniti nelle esportazioni di soia verso la Cina. C’è poi il “paradosso dei dazi”, quello di usarli per chiudere il mercato interno e per forzare altri paesi ad aprire il proprio. Per non parlare del “paradosso delle sanzioni”: chi ha il potere di usarle, le usa; chi le usa, però, mina il consenso su cui si fonda il suo potere. Insomma, il backfiring è un fatto.

E dunque la strategia economica conta, ma solo se è una complessiva e organica economic statecraft, se cioè incorpora elementi di alta strategia politica tout court. Ricordammo, all’epoca dell’aggressione russa all’Ucraina, che perfino le sanzioni all’Italia fascista del 1935-1936 non avevano funzionato perché, tra le altre cose, non vi avevano aderito la Germania (da cui l’Italia dipendeva per l’importazione di rottami per l’acciaio) e gli Stati Uniti (importazioni di petrolio), due paesi che non facevano (gli Stati Uniti) o non facevano più (la Germania) parte della Società delle Nazioni.

Occorre dunque ripensare alle modalità con le quali allineare le “alleanze” alla “finanza”. L’esempio più noto di una costruzione economico-politica (alleanze e finanza) di successo è, ovviamente, il Piano Marshall, spesso citato a sproposito, ma le cui lezioni di fondo – pur nella consapevolezza della irripetibilità di quella situazione storica – restano tuttora valide.

 

L’ECONOMIA POLITICA DEL PIANO MARSHALL. Che cosa fu dunque il Piano Marshall? Fu anzitutto un programma di aiuti per la ricostruzione dell’Europa (di qui il nome ufficiale: European Recovery Program, o ERP), certo; e se a beneficiarne in termini assoluti furono alcuni grandi paesi come Francia, Italia, Regno Unito, non va dimenticato che, in proporzione, ne beneficiarono di più alcuni piccoli Stati a economia aperta come i Paesi Bassi. Articolato in grants (trasferimenti gratuiti) e loans (prestiti a basso interesse), esso fu un fattore importante – finanziario, ma anche psicologico – nella ripresa dell’economia europea e nel superamento del dollar gap, la carenza di dollari nei paesi europei. Fu un grande meccanismo di re-immissione in circolo dei dollari.

 

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Ma l’ERP fu anche un programma politico, come emerse chiaramente nelle parole pronunciate dal segretario di Stato George Marshall in quel suo brevissimo ed efficacissimo discorso del 5 giugno del 1947: se da una parte, infatti, egli disse che “la nostra politica non si indirizza contro qualcosa o qualcuno, ma contro la fame, la povertà, la disperazione e il caos”, dall’altra parte disse anche che “il suo scopo dovrebbe essere la rivitalizzazione dell’economia mondiale al fine di consentire l’emergere di condizioni politiche e sociali all’interno delle quali possano esistere istituzioni libere”. Il riferimento all’incipiente guerra fredda (nel 1946 Churchill aveva già parlato della discesa di una cortina di ferro) e all’Unione Sovietica non è dunque troppo velato.

In generale, il Piano Marshall aveva due obiettivi di economic statecraft, uno prettamente economico e l’altro prettamente politico, ma dall’uno dipendeva l’altro e viceversa. L’obiettivo economico era evitare un’ampia depressione postbellica per l’economia americana. La memoria della Grande crisi e della Grande depressione era ben viva. Con la guerra l’economia americana aveva prodotto a pieno ritmo e si temeva un hard landing, una correzione penosa nella transizione da un’economia di guerra a un’economia di pace. La ricostruzione del mercato europeo avrebbe assicurato alle esportazioni americane la domanda di beni necessaria a scongiurare il peggio, aprendo un’età di prosperità condivisa. E non a caso, una delle condizioni poste dagli americani fu la creazione ex novo di una Organizzazione europea per la Cooperazione economica (OECE), che nacque a Parigi l’anno dopo, nel 1948 (anno di avvio del Piano Marshall, che durò poi quattro anni pieni, fino al 31 dicembre del 1951) per coordinare e gestire in modo collegiale, in chiave espansiva, quegli aiuti; ma anche – e la cosa non era secondaria – per favorire la liberalizzazione degli scambi intraeuropei, spianando la strada al mercato comune che sarebbe venuto alla fine del decennio (tanto che nel 1960 l’OECE mutò ragione sociale in OCSE, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico, andando al di là dell’Europa).

In ogni caso, c’è qui una lezione importante: per ogni creditore c’è un debitore, e per ogni offerente una potenziale domanda. Non è un saggio creditore, né un saggio offerente chi dimentica questa semplice verità. Chi distrugge gli altri, in un’economia interdipendente, può finire per distruggere sé stesso. Certo, vi possono essere obiettivi specifici e si può anche ragionare solo di parti, e non di mondo intero: ma questo non fa che accrescere la necessità delle coalizioni.

L’obiettivo politico non era meno rilevante: legare a sé l’Europa, almeno la sua parte occidentale (dal momento che i paesi dell’Est finirono per rifiutare gli aiuti per le pressioni esercitate da Mosca), e costituire un blocco economico-politico largo, capace di resistere all’esterno all’influenza dell’Unione Sovietica e, all’interno, alla presenza del comunismo democratico organizzato in forti partiti, come in Francia e in Italia. Degli aiuti beneficiarono sedici paesi, ben al di là di quella che sarebbe stata l’Europa dei Sei (quella della CECA, 1951, e poi della CEE, 1957), includendo, per esempio, Islanda e Portogallo sull’Atlantico, Norvegia e Svezia nel Mare del Nord, ma anche Grecia e Turchia nel Mediterraneo orientale, precostituendo in certo senso la geografia più larga, sia quella originaria sia quella successiva, del Patto Atlantico (1949). Quest’ultimo, a sua volta, contemplava e contempla tuttora elementi di coordinamento della politica economica. In sintesi, il Piano Marshall fu una infrastruttura economico-finanziaria, ma anche politica, capace di incorporare pensiero e programma, mezzi e fini: il materiale e l’immaginario.

È possibile, oggi, pensare a una nuova, inedita sintesi politico-pratica? Forse, ma è bene sapere che tre importanti fattori, presenti nel dopoguerra e oggi assenti, remano contro.

Il primo: la leadership non più indiscussa degli Stati Uniti. Il secondo: tre anni prima dell’annuncio del Piano Marshall, erano state gettate le basi a Bretton Woods di un grande disegno, anche istituzionale, per la cooperazione economica e monetaria internazionale, che oggi è messo in forte discussione. Il terzo: Bretton Woods e il Piano Marshall avevano alle spalle una lunga “semina” intellettuale, quella del New Deal di Franklin Delano Roosevelt e della Teoria generale di John Maynard Keynes. Oggi abbiamo frammenti di teoria, non una nuova sintesi. Sicché noi possiamo auspicare un cambio di mentalità, ma solo se correggiamo gli errori, anche intellettuali, e ricostruiamo un pensiero all’altezza dei nostri tempi e delle differenti sfide politiche di oggi.

 

PERCHÉ UN PIANO MARSHALL CINESE È IMPOSSIBILE. Uno degli errori degli analisti è forse la sottovalutazione del quadro politico: gli Stati Uniti del dopoguerra più che compensarono il loro attivo con il Piano Marshall e le tante forme di aiuti alla Corea, al Giappone e così via, cioè anche con le alleanze, il soft power e la protezione militare.

La Cina di oggi, che pure fa e tanto ha fatto dal 1978 a oggi, specie dopo l’ingresso nel WTO nel dicembre del 2001, rovesciando la sua secolare arretratezza e realizzando un portentoso balzo in avanti tecnologico, può fare relativamente poco di tutto ciò: non solo perché non ha (ancora) né può avere una grande moneta di riserva globale – anche se l’internazionalizzazione della moneta cinese è un importante processo in corso, come mostra per esempio la conversione da parte dell’Etiopia in yuan di una percentuale delle riserve detenute in dollari – senza quella fiducia che solo può derivare dall’esistenza di uno stato di diritto che rispetta la rule of law (e questa è una lezione che anche Donald Trump dovrebbe ricordare a sé stesso); ma anche perché non ha elementi di immaginario spendibili su larga scala. Quando un giorno gran parte dei giovani del resto del mondo vorrà vivere “alla cinese”, allora forse sarà diverso, ma resta un fatto che un certo numero di giovani in giro per il mondo guarda (guardava?) all’America e all’Europa – e all’Occidente geopolitico in senso più ampio – come a luoghi di benessere, libertà, progettualità, in cui lavorare, studiare, vivere. E la presenza di grandi istituzioni e tradizioni scientifiche ha un ruolo in questo.

 

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Soprattutto, la Cina può fare relativamente poco di tutto ciò che insegna il Piano Marshall perché in un certo senso ha essa tanti amici, ma non ha praticamente alleati, se si escludono paesi come la Corea del Nord, l’Iran, la Russia. Certo, le sue alleanze e la sua capacità di influenza sono enormemente cresciuti – e non intendiamo minimamente sottovalutare alcuna delle sue iniziative anche recenti, in ambito BRICS o nella Shanghai Cooperation Organization, per non dire nel campo tecnico-scientifico – ma quei fattori non sono cresciuti (ancora) così tanto da determinare il controllo di paesi chiave (la battaglia per Taiwan ne è parte), delle rotte (si veda la via dell’Artico) o dei porti. Basta pensare al tentativo di “circondare” e “circumnavigare” l’Africa, che ha incontrato fin qui un limite nei paesi che si affacciano sull’Atlantico, o la contrastata iniziativa per il controllo del Canale di Panama, al centro di un conflitto legal-politico, oppure ancora il porto di Chancay, in Perù, sviluppato dalla China Ocean Shipping Company per la penetrazione economica in Ameria Latina.

In questo quadro – in cui il peso della Cina su un piatto della bilancia trova dei contrappesi sull’altro – fanno eccezione la sua capacità produttiva, la disponibilità di materie prime, anche critiche, e il peso del surplus. Nulla che si possa sottovalutare, specie nel controllo di punti critici delle catene globali del valore. Ma anche questi aspetti sono, per Pechino come per qualsiasi altro paese, in certa misura soggetti alla legge di interdipendenza alla quale si accennava più sopra: a ogni offerente occorre un compratore. Certo, per la Cina (per la sua dimensione, anche economica; per la sua popolazione; per il suo mercato interno, se sviluppato) quella “legge” ha un valore solo relativo, ma non trascurabile, se si tiene conto dei suoi obiettivi di sviluppo, interno ed esterno. La Cina ha bisogno del mondo, tanto – forse appena di meno – quanto esso ha bisogno di lei.

Certo, i casi di controllo e di restrizioni nell’esportazione di minerali critici e di terre rare, specie se in azioni di coercizione diplomatica, devono preoccupare (si veda un tentativo di farvi fronte nell’accordo “United States and Australia Framework for securing of supply in the mining and processing of critical minerals and rare earths”, del 20 ottobre 2025). E si pone, in ogni caso, il problema della gestione globale delle materie prime di cui Keynes aveva discusso negli anni Trenta.

Martin Sandbu si chiede, in questo stesso numero di Aspenia, se la Cina non possa introdurre un qualche meccanismo di re-immissione e ristrutturazione del proprio surplus. In un certo senso, la Belt and Road Initiative è stato un tentativo di questo tipo ma, al di là di specifici e non secondari vantaggi in certe aree e paesi, non ha creato quella spinta che la leadership cinese sperava di suscitare. Ma la cultura e la filosofia (anche pratica) cinese guardano al lungo termine: al 2035, al 2050 e oltre.

 

IL CAPITALE POLITICO DELLE COALIZIONI ECONOMICHE. Il discorso di alcuni mesi fa del presidente Trump alla Knesset (13 ottobre 2025) ha suscitato interesse, anche per la ripresa di quella Via del cotone che dall’India può, attraversando il Medio Oriente, raggiungere le sponde europee. Vi si ritrovano elementi di non effimera strategia. Ma il capitale politico delle alleanze economiche ha bisogno di coerenza e di fiducia, e molti sono i segni di contraddizione in Trump: il principale dei quali è stato ed è di minare, con i dazi, le basi della prosperità economica di aree e paesi alleati sotto il profilo militare, come il Giappone, l’Europa, l’India. Ma forse è da aspettarselo da una amministrazione non cooperativa, che crede nell’imprevedibilità come fattore di potenza e, di conseguenza, governa con l’effetto sorpresa. Tuttavia, è compito degli osservatori tenere gli occhi aperti sui cambiamenti di fondo, non sugli specchietti per le allodole. Non è facile, anche perché tanti sono i fronti aperti: dal Canada al Venezuela, da Gaza all’Ucraina.

C’è poi chi spiega questa apparente contraddittorietà di Trump in altro modo, e cioè con il concetto di “potere relativo”. A Trump interesserebbe non solo e non tanto accrescere i fattori di potenza americani in senso assoluto, ma soprattutto diminuire quelli altrui – Cina in testa – in senso relativo, aumentando ove possibile il distacco (in termini di potere o reddito relativo) anche a costo di una eventuale perdita secca per tutti (una lose-lose policy), anche se ciò si traduce in una più bassa crescita potenziale del prodotto globale. E qui l’economia politica (quella neoclassica) mostrerebbe, infine, la corda nella comprensione della logica delle relazioni internazionali.

L’economia “massimizza”, la power politics può anche minimizzare o neutralizzare. Tanto che di recente Chris Miller ha scritto sul Financial Times (28 ottobre 2025) che per le tre più grandi economie del pianeta “le sole misure che assicurano una reale influenza sono quelle che generano costi molto più alti per i rivali che per sé stessi”. È uno schema lose-lose (relativo). Questo – è evidente – non fa che accrescere l’importanza delle alleanze e delle coalizioni (il “capitale politico”) per ammortizzare ed eludere eventuali perdite, economiche e politiche.

Forse una coalizione economico-politica, che includa certamente gli Stati Uniti – ma che non si riassuma solo negli Stati Uniti o nelle iniziative più o meno isolate del suo presidente – e di cui l’Europa e l’Occidente “politico” siano parte attiva, potrebbe spingersi più avanti di così, in uno sforzo ideale e materiale di immaginazione pratica: ripartendo dallo spirito di Keynes del 1919 (Le conseguenze economiche della pace), che non poco ispirò il Piano Marshall del 1947. In fondo, “anche se il risultato dovesse deluderci – scrisse l’economista di Cambridge in quella celebre opera – non è il caso di basare le nostre azioni su aspettative migliori, e di credere che la prosperità e felicità di un paese promuovono quelle altrui, che la solidarietà umana non è una favola, e che le nazioni possono ancora permettersi di trattare altre nazioni come loro simili?”.

Una guerra si può anche vincere; ma vincere la pace è altra cosa. Le vie della prosperità: sono queste che uniscono il mondo o larga parte di esso. Una volta, ai tempi di Marshall, si sarebbe detto: enlightened self-interest. A questo sforzo, per cultura e interessi, se non per quella grande forza storica che è la necessità (ananké), l’Europa dovrebbe fornire un contributo di idee.

 

 


Questo articolo è pubblicato sul numero 4-2025 di Aspenia.

 

 

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