ASPENIA ONLINE: L’Afghanistan è (assieme al Pakistan) una propaggine orientale di una vasta area geopolitica che spesso viene definita “arco di crisi”, dalle coste atlantiche del Nord Africa fino all’Asia centrale, passando per la penisola arabica e il Caucaso – un tema che lei ha affrontato tra l’altro in un libro del 2013. E’ difficile catturare in un’unica immagine uno spazio così grande, e soprattutto capirne le connessioni con gli interessi dell’Europa e dell’Italia. Come si presentano oggi le connessioni può sintetizzare l’insieme di flussi (politiche, economiche, di sicurezza) lungo un asse che attraversa tre continenti?
Alessandro Minuto Rizzo: Bisogna capire che la realtà è molto complessa, compresa quella internazionale. A volte lo scenario è apparentemente statico come nel lungo periodo della guerra fredda. Anche in tal caso avvengono fatti rilevanti, solo non tali da modificare i dati di fondo. Gli analisti sono sempre tentati di razionalizzare gli schemi che presentano, per cercare di capirli meglio e per spiegare agli altri quello che si pensa succederà.
La definizione “arco di crisi” indica una parte del mondo fondamentalmente instabile: è un’area che parte dal Marocco sull’Atlantico per arrivare all’Asia Centrale, all’Afghanistan , al sub-continente indiano, attraverso il Caucaso e la penisola arabica. L’espressione è entrata nel linguaggio corrente dopo la fine della guerra fredda, per descrivere un mondo non più controllato dalle grandi potenze e potenziale fonte di crisi acute.
Le nostre connessioni in quella parte di mondo mi paiono oggi sfilacciate. Abbiamo un nord Africa che decolla a stento e dove giganteggia – almeno per l’Italia – l’abracadabra libico. Il Levante e la penisola arabica sono più frammentate che mai, ed è assente qualsiasi cooperazione regionale. L’Iran è un tema fin troppo noto , e può creare molti disagi. Il Pakistan è un paese a porte girevoli: entra un politico, apparentemente all’inglese , mentre esce un militare con i baffi, e così via. L’India è una democrazia affermata, ma oggi ha un governo nazionalista con mire egemoniche regionali.
Gli attori esterni incidono in fondo poco, se guardiamo alla sostanza. Il Presidente Trump ha accelerato un moto ondivago americano già esistente e pare interessato realmente all’Arabia Saudita e poco altro.
L’Unione Europea ha un’influenza politica minima, anche se è prodiga in aiuti economici. Ciò non dipende dalle sue istituzioni, ma dal ripiegamento su se stessi dei paesi europei. La Russia persegue un‘abile azione diplomatica da XIX secolo, da cui trae vantaggi tattici, ma in realtà non ha il peso necessario per fare di più. La regione araba, ma anche quella grande area che si trova più a est, appaiono quindi sostanzialmente stagnanti e prive dei meccanismi regionali che sarebbero necessari.
AO: Le vicende di un Paese come l’Afghanistan possono apparire incomprensibili per un osservatore occidentale: un paese lontanissimo, senza accessi al mare e con un’orografia inospitale che sembra isolarlo, eppure anche un crocevia di antiche vie di comunicazione, che ha periodicamente attirato l’attenzione di grandi potenze. Nella sua esperienza diretta, è proprio la carenza di collegamenti positivi e vantaggiosi per la popolazione afgana a costituire uno dei problemi nei rapporti col resto del mondo? In altre parole, la storia del Paese giustifica una sorta di vittimismo e di fondamentale diffidenza verso gli stranieri?
AMR: L’Afghanistan rappresenta un enigma complicato. Credo che la causa principale sia proprio la lontananza geografica, che ha sempre pesato nella storia. E’ un Paese privo di sbocchi al mare, ma perfino di ferrovie che lo colleghino con i paesi vicini. I quali a loro volta non sono sono percepiti come “centrali” in alcun senso.
Parliamo quindi di un Paese che fino a ieri era davvero remoto, storicamente cuscinetto fra l’impero coloniale britannico e l’espansione zarista in Asia Centrale. E caratterizzato da una forte diffidenza verso gli stranieri, che viene soprattutto dall’esperienza delle periodiche invasioni cui ha dovuto resistere per sopravvivere. Prima delle operazioni a guida americana iniziate nell’ottobre 2001 (“Enduring Freedom”), c’era stata l’invasione sovietica nel 1979, la madre delle tragedie afghane contemporanee, che ha comportano tanti anni di guerra crudele e l’esodo di quasi metà della popolazione .
AO: Un’ampia coalizione di Paesi occidentali è presente e attiva nel Paese dal 2002, sia con responsabilità di sicurezza (incentrate sulla NATO) sia di ricostruzione e sviluppo (con varie forme di collaborazione e il coinvolgimento di ONG). Che bilancio si può stilare dopo oltre un quindicennio di sforzi? Le risorse iniettate nell’economia afgana sono state davvero ingenti, e tutte le maggiori teorie sullo sviluppo socio-economico sono state testate, quasi fossimo in un esperimento vivente. Quali sono i successi che possiamo ascrivere alla comunità internazionale e quali le note dolenti?
AMR: La comunità internazionale nel suo insieme, caso raro, ha appoggiato una presenza armata nel paese dal 2002. E il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sostiene questo impegno fin da allora. La NATO è stata incaricata di fornire la “cornice di sicurezza” raccogliendo molti altri paesi nella coalizione multinazionale ISAF (International Security Assistance Force).
Questo schema ha funzionato abbastanza bene, ma con forze insufficienti rispetto alla grande dimensione geografica dell’Afghanistan, e con il limite di avere delle responsabilità solo per la sicurezza senza alcun ruolo formale sulle vicende politiche.
Ricordo poi Donald Rumsfeld, Segretario alla Difesa con George W.Bush, lamentarsi in incontri privati per il fatto che uno stato moderno può dare ordini alle sue forze armate, ma è impotente per la giustizia, l’istruzione ecc. In altre parole, il “crisis management” è storicamente affidato agli eserciti, ma non si può costringere un magistrato ad andare a Kabul. In base alla mia lunga esperienza in aree di crisi, ritengo si tratti di un tema reale.
Un problema connesso è quello del coordinamento: in occasione di alcuni incontri con il norvegese Kai Eide, che è stato rappresentante del Segretario Generale dell’ONU a Kabul tra il 2008 e il 2010, mi disse che 40-45 paesi facevano attività di assistenza allo sviluppo in modo indipendente, cioè non coordinato, e solo 18 gli avevano scritto una lettera specificando i loro programmi.
Un giorno fui spedito nella remota Bamyan (famosa per le statue dei Budda), nella mia veste di “acting Secretary General” della NATO; feci un giro della zona con il colonnello neozelandese in comando, e mi raccontò che Italia e Francia avevano due interessanti progetti infrastrutturali nella stessa provincia, i cui tempi e modalità erano completamente indipendenti.
Tutto questo per dire che di soldi se ne sono spesi molti, ma in modo tutt’ altro che efficiente. In sostanza, la NATO ha fatto il suo mestiere per la parte militare, mentre gli aiuti civili hanno prodotto poco e la gestione politica nel corso degli anni è stata molto discutibile.
AO: Si è spesso parlato di un unico complesso geopolitico Afghanistan-Pakistan (“Af-Pak”), in ragione dei legami etnico-culturali che caratterizzano le zone di confine tra i due Paesi. E il Pakistan (dove peraltro fu ucciso Osama bin Laden nel 2011 dagli Stati Uniti) ha svolto un ruolo a dir poco ambivalente in tutto il percorso della crisi afgana dal 2001 in poi: una sorta di semi-alleato degli Stati Uniti, con stretti rapporti con la Cina e la tradizionale inimicizia verso l’India, e certamente con suoi autonomi interessi in Afghanistan. Come valuta la posizione attuale del Pakistan nel futuro della regione?
AMR: Non è sbagliato parlare di “Af-Pak”. L’etnia dei Pasthun è maggioritaria in Afghanistan, esprime sempre il Presidente e ha esattamente il suo corrispettivo in Pakistan. Il confine tra i due Paesi è stato stabilito nel 1893 dalle autorità coloniali britanniche. La connivenza con i Talebani è quindi una costante e le zone di confine in Pakistan rappresentano un sicuro rifugio per i guerrieri afghani.
Lo stesso governo di Islamabad cerca di esercitare una specie di protettorato sull’Afghanistan. Non dimentichiamo l’ossessione pakistana della parità con l’India e quindi una grande diffidenza verso tutti.
Mi sono recato più volte a Islambad e ricordo un mio incontro con il Presidente, Generale Pervez Musharraf: dichiarò che era personalmente impegnato contro ogni forma di terrorismo ma che purtroppo le zone di confine del paese erano sottosviluppate sia economicamente che socialmente. Rimaneva perciò difficile per il governo nazionale esercitarvi un pieno controllo. Ritengo, in effetti, che il Pakistan sia strutturalmente un paese fragile e che il Presidente non avesse tutti i torti. Mi fu spiegato che all’atto dell’indipendenza, nel 1947, il governo era alloggiato in tende alla periferia di Karachi; l’esercito rappresenta per molti l’unità nazionale, e ciò spiega perché ancora oggi sia la professione più ambita dai giovani.
E’ altrettanto vero, però, che la disponibilità dell’arma nucleare congiunta all’instabilità politica, rende il paese potenzialmente assai pericoloso. Sarebbe dunque opportuno cercare di non isolarlo, indipendentemente da altre considerazioni.
AO: I negoziati in corso tra i talebani e gli Stati Uniti sono stati oggetto di critiche soprattutto per l’esclusione del governo di Kabul, che però oggettivamente non ha mai acquisito il reale controllo di vaste porzioni del territorio afgano. Come valuta le recenti mosse di Washington, con l’evidente desiderio di districarsi quanto prima degli impegni militari nel Paese?
Si era parlato più volte in passato di negoziare la pace con i Talebani, e questi ultimi avevano anche aperto un ufficio “diplomatico” in Qatar. Vari tentativi erano andati a vuoto, ma questa volta i negoziatori americani fanno capire che si tratta sul serio e che una bozza di accordo è in via di redazione. Da parte talebana vi sarebbe l’impegno solenne a non lanciare attacchi terroristici verso gli Stati Uniti. Ma questo basta? Tutto finirebbe così?
Si metterebbe fine ad un impegno militare, politico ed economico su vasta scala ,iniziato nel 2001. Tutto il mondo esprimerà un giudizio, che potrebbe essere di sollievo, ma probabilmente non benevolo verso Washington. Le stesse Nazioni Unite hanno molto investito nel processo politico interno e ormai si sono svolte più tornate elettorali nel paese. Esistono partiti e voci indipendenti, e il governo nazionale afghano non è quindi un qualsiasi governo fantoccio, su cui farsi pochi scrupoli.
E’ vero, d’altra parte, che la situazione politica è peggiorata negli ultimi anni poiché l’accoppiata Ghani-Abdullah (Presidente il primo, Primo Ministro il secondo) è partita male. Nelle elezioni presidenziali del 2014, Abdullah era nettamente in testa al primo turno ma, essendo di etnia tagika, i Pashtun si sono rivoltati in massa ed è saltato fuori Ghani all’ultimo momento. E’ una persona rispettabile, ma senza un vero seguito, e ha vinto al secondo turno con una forzatura che ha lasciato il segno. Vedremo quali equilibri usciranno dalle prossime elezioni, fissate per luglio – anche se tra seri dubbi sulla praticabilità di questa scadenza.
Ho conosciuto Abdullah quando era Ministro degli Esteri, al momento in cui la NATO prese la direzione delle operazioni militari nell’agosto 2003. Come ho raccontato nel libro “La strada per Kabul” (il Mulino, 2009), mi è sempre sembrato un personaggio autorevole e articolato.
Escludere oggi il governo di Kabul dai negoziati riporta la memoria ai tempi del Vietnam. Speriamo che la storia non si ripeta, ma è impossibile sapere se quanto è stato costruito in questi anni non crollerebbe, nel contesto di qualche governo di coalizione. L’Afghanistan di oggi è ben diverso da quello del 2003 ed è molto migliorato; sarebbe davvero triste vedere di nuovo donne con il burqa per le strade di Kabul.
AO: Su questo sfondo, che contributo (militare, economico, o di altro tipo) possono realisticamente dare i Paesi europei, Italia compresa? Per quale motivo e in che misura si dovrebbe ancora inserire un impegno in Afghanistan tra gli obiettivi della politica estera e di sicurezza del nostro Paese?
AMR: Si è sentita molte volte la domanda: ma perché impegnarsi così lontano? La realtà internazionale cambia sotto i nostri occhi. L’11 Settembre ha decretato la morte della geografia e il pianeta non è mai stato così piccolo. L’eroina che uccide oggi i giovani europei viene dall’Afghanistan; se l’instabilità dilaga in Asia Centrale anche noi ne pagheremo le conseguenze; se i Talebani, Al-Qaida e Osama bin Laden non fossero stati sconfitti l’Asia Centrale sarebbe in crisi.
In questo quadro, l’Italia fa comunque parte del gruppo delle grandi democrazie e come tale è giusto e naturale che partecipi alla sicurezza collettiva secondo i suoi mezzi.
Anche i rapporti bilaterali sono più interessanti di quanto si pensi. Fino al 1921 il Regno Unito gestiva la politica estera dell’Afghanistan, ma poi l’Italia fu la seconda potenza ad aprire un’ambasciata a Kabul. Due re afghani, costretti all’esilio, scelsero Roma come residenza e Mohammed Zahir Scià è vissuto 30 anni all’Olgiata prima di rientrare a Kabul nel 2002. Molti nostri archeologi di fama hanno frequentato a lungo il paese e Giuseppe Tucci, cultore di quelle civiltà, era uno degli stranieri più noti in Afghanistan ancora pochi anni fa. Lo stesso Presidente Karzai – nell’ultima occasione in cui lo incontrai, nel 2012 – ci tenne a ricordare il ruolo storico dell’Italia.
È chiaro che ogni processo di pace va incoraggiato e dobbiamo ora augurarci che un buon compromesso politico venga raggiunto. Ma è bene ripeterlo ancora una volta: la presenza in Afghanistan dal 2001 non è mai stata una guerra di conquista, e il destino del Paese ci interessa più di quanto sembri.