Le tentazioni antidemocratiche nell’Europa di oggi

Ciao dittatore! Il saluto rivolto da Jean-Claude Juncker al primo ministro ungherese Viktor Orban al summit euro-orientale di Riga, di fronte ai giornalisti schierati, è stata forse solo una provocazione. Tanto più che i due convivono nella stessa formazione politica europea, il Partito Popolare, pur su posizioni molto diverse. Ed è in effetti quasi sempre sul tono dello scherzo, del disinteresse o del pregiudizio che l’Europa finisce a discutere sullo stato della sua democrazia, pur essendo questo un misuratore fondamentale del suo funzionamento.

Valutarlo non è un esercizio facile, soprattutto considerando che l’Europa di cui stiamo parlando è ormai l’insieme di una trentina di storie politiche ed eredità culturali nazionali, tutte piuttosto peculiari. Su queste si è sovrapposta una costruzione variegata fatta di istituzioni, diritti e poteri di tipo nuovo, quella comunitaria appunto, che in modo disordinato è andata ad arricchire, ma anche a confondere e complicare, la situazione precedente. Non si è trattato infatti di un innesto semplice, come potrebbe essere la costruzione di un palazzo su delle fondamenta già solide: tutt’altro.

Come sempre, le condizioni della nascita e l’ambiente della crescita contano molto nella formazione: vale per le persone ma anche per le loro creazioni di ingegneria politica. L’integrazione europea si sviluppò nel segno del rigetto per il totalitarismo – che attraverso il nazi-fascismo aveva ridotto il continente a un cumulo di rovine e con Stalin minacciava i paesi alleati degli americani – e per il nazionalismo che aveva dimostrato di saper trasformare i popoli europei e i loro governi in irriducibili nemici.

Dunque, tutto cominciò sotto le bandiere del liberalismo: fondamento della nuova Comunità europea – appunto “sovranazionale” – erano la libertà di movimento per le persone, per le merci e i servizi, per i capitali, che sarebbero state rese possibili da un (lento) adeguamento legislativo. E più in generale i diritti fondamentali dell’uomo, grazie all’adozione di una carta, la CEDU, che si ispira a quella delle Nazioni Unite. Due diverse corti di giustizia ne avrebbero garantito la tutela.

Un vero cambiamento di paradigma insomma, pensando all’Europa degli anni Trenta, e a quella dei secoli precedenti, ma anche solo a quella parte del continente in quel momento retta dai regimi socialisti. Mentre l’Europa occidentale, dagli anni del boom in poi, adottava questa prospettiva nuova, i principi delle libertà sovranazionali venivano regolarmente reclamati durante le varie rivolte che percorrevano l’Europa centro-orientale: non deve stupire che lo spirito pro-europeo visto nelle strade di Kiev lo scorso anno riecheggi quello di Budapest del 1956 – sintetizzato nel famoso appello “moriamo per l’Ungheria e per l’Europa” rivolto allora dall’agenzia di stampa nazionale al resto del mondo.

Naturalmente, la realtà non corrisponde a un quadro così idilliaco. La Comunità e poi l’Unione Europea prevedevano un allargamento dei diritti individuali fin lì mai sperimentato e accettabile con entusiasmo; ma impiantare allo stesso tempo una struttura diversa di regole, giurisdizioni, gerarchie, responsabilità, necessitava un difficile adattamento. E poi, le condizioni nelle quali l’integrazione era nata stavano cambiando già negli anni Novanta, con il crollo del blocco sovietico.

Per prima cosa, il motore originario franco-tedesco dell’Europa (un’intesa tra due forze preminenti e simili, che trascinava gli altri) è finito rottamato. Ora il consenso a Bruxelles si modula attorno alla volontà di Berlino – molto più secondo i puri rapporti di forza che grazie a una capacità autentica di leadership. Inoltre, l’integrazione ha smesso di essere economicamente conveniente per tutti: la moneta unica forgiata sulle regole del Deutschemark, almeno fino agli interventi di Mario Draghi, ha prodotto una valuta troppo forte che ha finito per privilegiare la concentrazione economica nell’area centrale del continente.

Infine, il concetto di cittadinanza europea, che avrebbe dovuto essere il contenitore delle citate libertà, ha visto la luce solo molto parzialmente. Da un lato, lo spazio politico comunitario è restato incompiuto per la resistenza di molti governi, a cominciare da quelli francesi e inglesi, a cedere pezzi importanti delle loro attribuzioni nazionali. Dall’altro, il cambiamento della struttura produttiva del continente, dagli anni Ottanta in poi, col suo carico di ansie e preoccupazioni, ha ricreato la necessità di disegnare barriere e confini di protezione. Questi processi, felici per alcune fasce sociali ma deleteri per altre – con le seconde che sono diventate più numerose dallo scoppio dell’ultima crisi – sono stati accompagnati infatti da una sfiducia profonda nei confronti di quello spazio sovranazionale di cui non si intravedono una forma e un contenuto convincenti e rassicuranti.

Sono dunque cresciuti di numero e di peso, nell’arena politica di tutti i paesi, i partiti interpreti di questo stato d’animo. Partendo dal presupposto dell’illegittimità di un’entità “superiore” a imporre delle regole alle parti che la compongono, queste forze politiche hanno difeso il postulato che meno Europa significasse più libertà, nel senso del ritorno a un diritto basato solamente sulla lingua e sul territorio; e più democrazia, nel senso del ritorno a una sovranità esclusiva dello stato entro i confini della nazione. L’Unione Europea diveniva dunque, come nelle suggestive parole di Jean-Marie Le Pen, “quella prigione dei popoli che spero di campare abbastanza per veder morire”.

Alcuni leader in particolare hanno saputo unire a questo richiamo nazionalista anche uno populista: è stato il caso di Marine Le Pen o dell’austriaco Hans-Christian Strache, ma anche dell’euroscettico di governo Victor Orban: “chi è contro di me non è un vero ungherese”, la sua versione del messaggio nazional-populista. Un messaggio spesso declinato in termini più facilmente comprensibili dall’opinione pubblica, grazie anche all’uso della lingua nazionale: un vantaggio importante nelle campagne elettorali, mentre invece l’unica maniera di esprimersi della “tecnocrazia bruxellese” è un sintetico inglese, peraltro spesso molto asettico.

Nella lotta contro lo spazio politico sovranazionale, la ricostruzione dei confini nazionali voluta da  questi partiti prevede un programma fatto di protezionismo, chiusura delle frontiere, “preferenza nazionale” per alcuni diritti tra cui quelli sociali, dirigismo statalista. Cioè la distruzione dell’espansione dei diritti presupposta dall’Unione Europea e della dimensione liberalista e universale delle sue attribuzioni.

Non manca d’altronde un modello, nell’Europa di oggi, per un paese che tornasse ad avere caratteristiche del genere. È la Russia di Vladimir Putin: molto simile per struttura politica, economica, sociale e militare agli stati europei illiberali della fine dell’800. E’ proprio da Mosca che arrivano molti dei finanziamenti che i nazional-populisti ricevono; e il Cremlino non fa neppure mancare assistenza e formazione politica ai loro quadri dirigenti. In alcuni partiti, come il Front National, ciò è più evidente, ma lo si nota anche ad esempio dalla svolta pro russa nel programma di politica estera dell’ELDD (Europa della Libertà e della Democrazia Diretta), il gruppo dell’Europarlamento capeggiato da Nigel Farage dell’UKIP – di cui fa parte anche il Movimento 5 Stelle.

L’idea di integrazione europea è in crisi esistenziale e sarebbe sbagliato ridurne la patologia esclusivamente alla sfida nazionalista lanciata da molti dei suoi territori. La stessa qualità democratica dell’Unione traballa non poco; l’UE magari non sarà un “organo di una dominazione post-democratica”, come l’ha definita Jürgen Habermas. Deve però completare la costruzione dello spazio politico entro cui la sua innovazione democratica abbia un senso – trovando una misura di compromesso accettabile con le eredità delle culture nazionali – o il suo edificio non resisterà a lungo alle pressioni che riceve.

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