L’economia cinese continua a crescere (il PIL registra +1.6% nell’ultimo trimestre del 2024) ma a tassi inferiori rispetto agli anni precedenti. Nel frattempo il secondo insediamento di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti ha già portato all’entrata vigore di dazi del 10% su tutte le importazioni di merci cinesi, il che avrà certamente delle conseguenze (benché sia ancora difficile stimare di che tipo, e quanto profonde), su un sistema produttivo basato sulle esportazioni. La risposta di Pechino non si è fatta attendere, imponendo dazi agli Stati Uniti del 15% su carbone e gas naturale liquefatto e del 10% sul petrolio greggio, attrezzature per l’agricoltura e un piccolo numero di veicoli e berline di grossa cilindrata.
Il capo del governo Li Qiang, durante la riunione plenaria del Consiglio di Stato del 5 febbraio, ha affermato la necessità di rispondere alle aspettative e alle preoccupazioni della popolazione cinese, intensificando gli sforzi per migliorare gli aggiustamenti anticiclici in risposta ai cambiamenti delle condizioni politico-economiche. La crisi del settore immobiliare degli scorsi anni ha in effetti causato disoccupazione diffusa e un’erosione del potere d’acquisto della classe media che ha portato ad una diminuzione dei consumi interni e quindi delle importazioni. Nel 2024 si è registrato un nuovo record nel surplus commerciale cinese: 990 miliardi di dollari di surplus, come differenza tra 3.580 miliardi di esportazioni e 2.590 miliardi di importazioni, sorpassando così il record del 2022 di 838 miliardi di dollari. Le importazioni crescono meno anche perché in alcuni settori, come quello tecnologico e automobilistico, la Cina si è resa sempre più indipendente dall’estero.
Questo cambio di passo è dovuto dalle politiche introdotte da Pechino a partire dal 2015, anno in cui Xi Jinping durante la quinta Riunione Plenaria del diciottesimo Comitato centrale del CPC ha introdotto il concetto di “sviluppo di alta qualità” [高质量发展]. L’obiettivo era quello di allontanarsi da una crescita quantitativa ad alta velocità, che ha caratterizzato la Cina tra gli anni 1980 e 2010, e perseguire la crescita di lungo periodo, più innovativa ed ecosostenibile, che punti alla domanda interna e allo sviluppo tecnologico indipendente. Esempio concreto di questo cambiamento è la politica industriale Made in China 2025, inaugurata dieci anni fa e che attraverso sussidi governativi diretti, investimenti esteri e acquisizioni, mobilitazione delle aziende sostenute dallo Stato, ha contribuito a far emergere la Cina come leader globale nella produzione di pannelli solari, veicoli elettrici, droni, cantieristica navale e ferrovia ad alta velocità. Questi settori, cruciali per la cosiddetta Quarta Rivoluzione Industriale, integrano big data, cloud computing e altre tecnologie emergenti nelle catene di fornitura manifatturiere globali.
Un ruolo centrale nello sviluppo dei settori coinvolti nel Made in China 2025 è stato giocato dai semiconduttori. La Cina rappresenta circa il 60% della domanda globale di semiconduttori, ma produce solo il 13% dell’offerta globale. Nonostante i progressi fatti, in parte grazie a legami con l’estero (acquisizioni, partnership e licenze tecnologiche), Pechino dipende ancora da strumenti e attrezzature straniere per la ricerca e la produzione di chip avanzati che può importare in maniera contingentata a causa delle restrizioni imposte soprattutto dagli Stati Uniti già durante l’amministrazione Biden. E’ per questo motivo che l’annuncio ai mercati della creazione di un nuovo software di intelligenza artificiale (Deepseek) a fine gennaio ha creato stupore: l’azienda cinese afferma di aver utilizzato solo duemila chip di Nvidia, un numero molto inferiore ai 16mila GPU che sarebbero necessarie ad altri modelli di dimensioni e capacità simili.
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Il concetto di “sviluppo di alta qualità”, mirato ad attivare un modello di crescita basato sugli investimenti e l’individuazione di nuove fonti produttive, ha negli anni aumentato le sovraccapacità già esistenti dovute soprattutto al sostegno del settore manifatturiero. In un contesto attuale di domanda interna limitata, gli sforzi per indirizzare ulteriore capacità produttiva verso i mercati di esportazione sono diventati essenziali.
Per la Cina, quindi, da tempo è diventata una priorità fondamentale crearsi un’immagine positiva a livello globale e presentare il Paese come partner affidabile e cooperativo con cui instaurare rapporti di reciproco interesse. Dal 2001, anno di entrata nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), la Cina ha intessuto diverse relazioni economico-commerciali sia a livello bilaterale che multilaterale. L’ultimo accordo commerciale (FTA) è stato firmato tra Cina e Maldive ed è entrato in vigore il 1° gennaio 2025. Con questo in totale sono 23 FTAs con 30 Paesi. La scelta della Cina di emergere come leader regionale dell’Asia Pacifico (decisione che già con l’amministrazione Obama aveva portato alla politica di contenimento statunitense) ha portato alla realizzazione di accordi commerciali con i Paesi membri dell’ASEAN, che, come blocco, costituiscono il principale partner commerciale cinese. Ad oggi sono in vigore l’ASEAN-China Free Trade Area (ACFTA) e il Comprehensive Economic Partnership (RCEP) a cui partecipano anche Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud.
A queste iniziative si somma la famosa Belt and Road Initiative (BRI). Lanciata nel 2013 dall’attuale presidente Xi Jinping, ha l’obiettivo dichiarato di non usare le vecchie manovre geopolitiche ma di raggiungere un nuovo modello di cooperazione reciproca (discorso di XI Jinping durante l’apertura del Forum sulla BRI del 14 maggio 2017) attraverso la costruzione di infrastrutture di trasporto ed energetiche. All’inizio del 2024 l’80% dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite, compresi diversi Paesi europei, avevano preso parte al progetto attraverso la firma di accordi bilaterali. Nel 2023 gli investimenti cinesi nei Paesi BRI sono stati i più alti dal 2018 e quasi l’80% in più rispetto al 2022, con le aziende cinesi che hanno investito quasi 50 miliardi di dollari in progetti all’estero.
Ma l’incapacità di alcuni paesi del Sud Globale di rimborsare i prestiti è sempre più preoccupante per Pechino, che ha annunciato un cambiamento di politica verso progetti “piccoli ed eleganti” da cui la Cina potrà continuare a trarre un vantaggio: il sistema di navigazione Beidou, le telecomunicazioni di Huawei, le energie rinnovabili e l’intelligenza artificiale, solo per citarne alcuni. Interpretando la BRI come un investimento politico a lungo termine (anche in termini di soft power) il ridimensionamento di alcuni progetti è comunque visto dai leader cinesi come un successo.
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In Europa, dopo un iniziale slancio più diffuso nei confronti della BRI, si stanno delineando due atteggiamenti differenti: da un lato l’Europa occidentale sta spostando l’attenzione da investimenti infrastrutturali fisici e in beni industriali (sempre più protetti dalle acquisizioni cinesi dalla legislazione nazionale e dell’UE) alla connettività finanziaria e monetaria; dall’altro lato vari Paesi dell’Europa orientale continuano a promuovere progetti BRI e a cercare di attrarre investimenti cinesi.
Gli investimenti diretti esteri (IDE) giocano un ruolo minoritario nella politica economica cinese, date le maggiori limitazioni in termini di condizionalità rispetto ai Paesi sviluppati. Nonostante ciò, il valore di investimenti esteri cinese è cresciuto rapidamente da soli 28 miliardi di dollari nel 2000 a circa 2.900 miliardi nel 2023. Gran parte di questo volume di investimenti è stato utilizzato per fusioni e acquisizioni, che hanno attirato l’attenzione dello stesso governo cinese, portando a una maggiore sorveglianza del mercato e a una riduzione dei flussi di investimento in uscita dal 2017. Una ripartizione regionale degli IDE cinesi in uscita indica che i flussi di investimento sono diretti principalmente verso l’Asia nei settori di leasing e servizi alle imprese, industria manifatturiera, commercio all’ingrosso e al dettaglio e servizi finanziari.
Xi Jinping ha recentemente affermato l’intenzione di attuare politiche macroeconomiche più proattive, in modo da realizzare gli obiettivi e i compiti del 14° Piano quinquennale (2021-2025) e gettare solide basi per il 15° Piano quinquennale (2026-2030). Per il prossimo anno, il Paese dovrebbe adottare una politica fiscale più proattiva e fissare un rapporto deficit/PIL più elevato (è attualmente al 3% secondo i dati ufficiali), oltre a garantire che la sua politica fiscale sia costantemente incisiva e di maggiore impatto.
Alla luce delle mutevoli dinamiche di politica commerciale dovute alla sovrapproduzione cinese, come per quasi tutti gli altri governi anche per quello della Repubblica Popolare la grande incognita rimangono gli Stati Uniti e le scelte economiche del loro presidente.