Gli episodi di terrorismo non lasciano, nella grande maggioranza dei casi, una traccia macroscopica sulla politica. L’11 settembre 2001 è proprio la rarissima eccezione che conferma la regola.
Questa considerazione vale anche per la strage perpetrata a Orlando, in Florida, il 12 giugno. Perfino se sarà confermata la rivendicazione di ISIS, cioè una qualche reale affiliazione del giovane americano che ha ucciso circa 50 persone e ne ha ferite altrettante in una discoteca, né le politiche di sicurezza americane né il quadro della campagna presidenziale in corso saranno seriamente influenzati.
Come è inevitabile, sia il Presidente in carica sia i candidati a succederlo hanno fatto e faranno molti riferimenti alla carneficina di Orlando, ma quasi nulla cambierà per gli Stati Uniti sul piano delle politiche di sicurezza. A ridosso di un attentato, la tentazione è sempre di vedere i fatti come un probabile punto di svolta che può spingere le grandi scelte collettive verso una direzione nuova.
Passata però l’emozione (del tutto comprensibile) e l’indignazione (del tutto giusta), i trend generali torneranno a essere dominati dalla forza d’inerzia della politica – interna e internazionale. Il Presidente Obama rimane un leader nella fase terminale del suo mandato, con scarsa capacità oggettiva di influire sul medio e lungo periodo – nonostante la sua ritrovata popolarità. Donald Trump continua a dominare i circuiti mediatici con affermazioni provocatorie e, anche in questo ennesimo caso, poco sensate (non è davvero chiaro perché mai Obama dovrebbe dimettersi e come le ricette “trumpiste” contro ISIS avrebbero fatto la differenza rispetto a un attentatore come quello del 12 giugno).
Infine, i due candidati democratici restano favorevoli a una forte limitazione del libero acquisto di armi automatiche da guerra da parte dei cittadini americani – l’identica posizione che, con numerosi appelli accorati, ha preso lo stesso presidente in carica fin dal 2008, senza ottenere la necessaria collaborazione del Congresso.
È proprio qui che si trova forse l’unica eccezione alla regola generale per cui gli attentati non cambiano quasi nulla: è possibile che si attivi finalmente un vasto movimento di opinione contro l’accesso indiscriminato alle armi, sufficientemente forte da creare un’analoga maggioranza anche al Congresso. E certo la posizione “pro-armi” del mondo conservatore – per quanto radicata sia nella tradizione sia nella Costituzione americana – diventa sempre più difficile da mantenere. Vedremo come Trump affronterà questo problema spinoso, al di là della solita vena retorica aggressiva che lascia a desiderare sulle soluzioni concrete.
Se guardiamo poi alla politica estera, è chiaro che il presunto legame con ISIS rende ancor più preoccupante qualunque episodio violento – anche se ovviamente per le vittime non fa alcuna vera differenza. Eppure, la linea seguita da Washington nei due mandati di Obama non può essere alterata radicalmente senza una valutazione del tutto diversa delle opzioni militari americane (in Siria, Iraq, Libia, Afghanistan, per cominciare), e questa non sembra all’orizzonte.
Nessuno, in altre parole, appare intenzionato ad aumentare ulteriormente l’impegno diretto degli Stati Uniti contro ISIS, visto che un aumento sensibile c’è gia’ stato negli ultimi mesi – a dispetto dell’istinto super-cauto di questo Presidente in tema di forza militare.
La strage di Orlando conferma semmai un timore che probabilmente è ben presente in tutti i candidati alla Casa Bianca e nei loro elettori: l’amministrazione Obama lascia in eredità alcuni gravi conflitti incancreniti, in Iraq (nonostante il “ritiro” voluto quasi a tutti i costi), in Siria e in vari altri Paesi di Medio Oriente e Nord Africa. Sono conflitti che continuano a produrre un contagio pericoloso con effetti reticolari e spesso imprevedibili.
Come se non bastasse, ora torna in evidenza anche un contagio “afgano”: è infatti dall’Afghanistan (dove l’America intevenne in modo massiccio proprio a seguito dell’11 settembre, ben 15 anni fa) che sono arrivati negli USA i genitori del giovane assassino di Orlando. Lui è un cittadino americano, nato a New York, un figlio di immigrati come tantissimi altri. Il suo gesto tragico non farà la storia, ma per analizzarlo fino in fondo la storia andrà forse studiata ancora.