Il Congresso è notoriamente un elemento cruciale del sistema costituzionale americano. Lo si dimentica troppo spesso, a causa del ruolo della Presidenza nel catalizzare l’attenzione su un’unica personalità e un unico centro di potere – quello della Casa Bianca. In molti casi, tuttavia, il Congresso fa realmente la differenza, come si è visto in questi due anni.
Pur essendo stati sia Camera che Senato in mani repubblicane dal 2016, i membri del Congresso hanno svolto un ruolo attivo nell’orientare la politica estera, rispetto ai frequenti scatti repentini e ai toni assertivi adottati da Donald Trump e dal suo gruppo assai ristretto di collaboratori fidati. In alcuni casi il Congresso ha sostenuto (o quantomeno tollerato) la linea della Casa Bianca, ma in altri ha contrastato decisamente le inclinazioni del Presidente, con qualche successo.
Su almeno due dossier – la TransPacific Partnership (TPP) e la possibile revisione del NAFTA – le scelte di rottura dell’amministrazione hanno trovato un contesto di riserve trasversali sulla situazione pregressa già condivise da quasi tutto lo spettro politico, e dunque una sostanziale disponibilità a lasciar agire il team di Trump. Non va dimenticato che, da candidata, la stessa Hillary Clinton aveva espresso varie preoccupazioni per l’impianto del TPP come era stato negoziato dall’amministrazione Obama, e che una diffusa insoddisfazione per alcuni aspetti del NAFTA era presente anche negli ambienti democratici.
Diverso il caso dell’accordo di Parigi sul cambiamento climatico: qui lo spartiacque idelogico era – e resta – netto, in presenza di una sorta di “consenso debole” per le posizioni di Obama che coinvolge buona parte del grande business ma che non è bastato a bloccare la svolta trumpiana. Il punto è proprio che il sostegno all’approccio di Parigi, per quanto ampio, è debole e sottile.
Le critiche all’accordo sono in certa misura sensate quando sottolineano l’incompletezza degli sforzi promessi (e ancor più di quelli compiuti) dalle maggiori economie, e non c’è dubbio che i costi certi per le imprese americane sarebbero stati immediati mentre i possibili benefici sarebbero stati dilazionati. Ma l’oggetto del contendere è filosofico prima che pratico: l’attuale Presidente non vuole accettare imposizioni multilaterali, meno che mai sulla base di un’intesa negoziata da Barack Obama. La struttura produttiva dell’economia americana sta andando, di per sé, in una direzione largamente compatibile con i vincoli di Parigi, eppure non è questo che conta nel dibatitto impostato dal Presidente. Il Congresso a guida repubblicana ha così seguito la linea di minore resistenza, abbandonando impegni vaghi e neppure strettamente vincolanti in attesa di tempi migliori per discutere davvero di importanti cambiamenti tecnologici, e magari degli incentivi/disincentivi adeguati per i settori più inquinanti. Non si tratta più neppure di “negare” il cambiamento climatico (i veri “deniers” sono ormai una minoranza in calo), ma semmai di tarare i possibili interventi in modo da non danneggiare troppo alcuni settori tradizionali che sono probabilmente destinati a contrarsi fortemente in ogni caso – si pensi all’industria del carbone. In breve, quello che Trump ha presentato come uno scontro di principio è stato gestito dai parlamentari come un problema ben più pratico che si ritiene di poter rimandare ancora.
Arriviamo così a un dossier dai toni più nettamente ideologici: l’accordo nucleare con l’Iran (il cosiddetto JCPOA del 2015). Qui c’è un aspetto interessante proprio in termini di prerogative costituzionali nel sistema americano, poiché quell’accordo multilaterale (Iran, Stati Uniti, Cina, Russia, Germania, Francia, Regno Unito, e UE come tale) non è stato sottoposto dall’amministrazione Obama all’approvazione del Congresso in quanto non tecnicamente un trattato internazionale – circostanza che è stata indicata da Trump come motivo in più per uscirne, visto lo scarso sostegno parlamentare. In effetti, anche se fossimo in presenza di un trattato, il Presidente avrebbe avuto comunque la possibilità di ritirare la partecipazione americana, gestendo poi semmai il rapporto con il Congresso; ma resta il fatto che in questo caso il Capo dell’Esecutivo ha voluto prendere un’iniziativa internamente autonoma, oltre che unilaterale sul piano internazionale. Era chiaro a tutti che Obama si era assunto un rischio significativo con l’apertura a Teheran, subendo dure critiche dai Repubblicani fin dall’inizio; ma la scelta strategica di Trump è stata legata indissolubilmente al rafforzamento dell’asse con l’Arabia Saudita e Israele, ed è in questa ottica che andranno valutate le conseguenza più ampie della politica verso l’Iran.
Ecco allora una delle due questioni di politica estera “tradizionale” – appunto quella saudita, l’altra essendo la Russia – sulle quali l’organo legislativo sembra aver avuto un ruolo importante, costringendo sostanzialmente l’amministrazione a cambiare rotta.
Uno stretto rapporto di collaborazione pragmatica con Riyad è una costante della politica estera americana, non certo un’innovazione di Donald Trump; eppure il livello di sostegno offerto alla nuova leadership di Mohamed bin Salman – il principe ereditario che ha consolidato rapidamente il suo ruolo primario nel complicato sistema saudita – è inusitato e aveva destato preoccupazioni a Washington anche in ambienti conservatori. Ciò soprattutto per l’inesperienza del Principe e per alcune sue iniziative poco prudenti, sia in chiave regionale (la guerra in Yemen anzitutto, ma anche lo scontro politico con il Qatar, il tentativo maldestro di far dimettere il Primo Ministro libanese Saad Hariri, un serio incidente diplomatico con il Canada) sia in chiave interna. Poi è arrivato l’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi a Istanbul: improvvisamente, tutti i dubbi si sono trasformati in una richiesta pressante all’amministrazione di prendere le distanze in modo esplicito. Con evidente riluttanza, Trump lo ha fatto, lasciando così un grande punto interrogativo sulla sua intera strategia mediorientale.
Un voltafaccia quasi completo dello stesso tipo si era già verificato con la Russia, dopo la luna di miele con Vladimir Putin che aveva caratterizzato i mesi a cavallo dell’insediamento di Donald Trump. Anche in quel caso, i leader repubblicani del Congresso avevano spinto per una linea decisamente più anti-russa di quella preferita – e spesso annunciata, seppur in termini vaghi – dal Presidente. Come per bin Salman, c’era stato un tentativo di forte personalizzazione del rapporto bilaterale (che si è osservato del resto con Xi Jinping e con Kim Jong Un, nel bene e nel male, oltre che con i maggiori leader occidentali), cioè una tendenza che per sua natura non può essere gradita a un’istituzione come il Congresso. L’atteggiamento russo, sulla stessa traiettoria di un maggiore attivismo quasi sempre in contrato con gli interessi USA che si era manifestata negli anni di Obama, ha infine spinto la Casa Bianca a trattare Mosca come un problema – magari non globale – piuttosto che una soluzione. E si è così arrivati alla recente decisione di denunciare il Trattato del 1987 sulle armi nucleari “tattiche” (INF – Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty, firmato da Ronald Reagan e Michail Gorbaciov), ha trovato il Partito Repubblicano piuttosto diviso (tra i fautori del classico controllo degli armamenti e gli assertori di una nuova fase di contrasto alle ambizioni russe). Lo stile di Trump, che aborre le consultazioni e i lunghi preprativi, si conferma molto rischioso per la coesione del GOP, ma almeno per ora l’indurimento della posizione verso la Russia sembra mettere d’accordo tutti, pur con diversi accenti.
Ancora più complicato e pericoloso è il quadro che si sta delineando nei rapporti con la Cina. La frustrazione montante verso le ben note pratiche protezionistiche adottate da Pechino – nonostante la Cina sia membro del WTO da oltre 15 anni – è largamente condivisa. Certo, il metodo usato da questa amministrazione, con sanzioni ad ampio spettro, ha ben pochi precedenti, e soprattutto quel metodo segna in realtà un cambio di passo: l’obiettivo di Washington sembra ora un vero “decoupling” delle due maggiori economie del pianeta, lasciando emergere anche in modo palese le molte divergenze di interessi geopolitici. Una specie di rivoluzione copernicana, che il Congresso ha seguito con attenzione anche nel contesto dell’aumento consistente delle spese americane per la difesa voluto da Trump – nel complesso ben accolto, pur a dispetto di qualche timore per il debito pubblico in forte crescita. Con la Cina si giocano chiaramente i futuri equilibri globali, e l’accelerazione impressa da Trump sui numerosi elementi di dissenso ha cambiato la dinamica degli ultimi anni; sarà dunque opportuno seguire con cura le “China policy” tratteggiate dai personaggi emergenti in questa tornata elettorale e in quella del 2020.
C’è poi la questione migratoria, che a intermittenza riemerge soprattutto quando il Presidente ha bisogno di una leva da usare rapidamente per mobilitare la sua base – dal famigerato muro di frontiera con il Messico in avanti. Sull’immigrazione, Deputati e Senatori del Partito Repubblicano hanno esercitato una certa pressione per ammorbidire le posizioni del presidente soprattutto sulla separazione forzosa dei figli dai genitori al confine – che di fatto ha portato anche alla reclusione di minori. La cosiddetta “zero tolerance” è stata sostanzialmente un boomerang per l’amministrazione, generando una crisi acuta all’inizio dell’estate 2018 che non ha risolto alcun problema ma ha avuto effetti negativi sull’immagine degli Stati Uniti come paese di accoglienza, oltre ovviamente ad aggravare le fratture interne. Potremmo dire che in questo caso il Congresso ha tentato di contenere i danni, mentre il Presidente non trovava una via d’uscita dalla crisi di confine che si era autoimposto. La tensione è stata però forte anche perché Trump ha spesso accusato proprio i parlamentari di non aver saputo trovare una soluzione legislativa per la grande questione dei milioni di irregolari che vivono in territorio americano, il che è oggettivamente vero.
La prossima battaglia potrebbe essere nuovamente sugli immigrati, questa volta addirittura sul principio di fondo che regola la cittadinanza negli Stati Uniti: lo ius soli. Non è chiaro se il Presidente intenda dare seguito alla dichiarazione d’intenti fatta alla vigilia del Midterm – revocare appunto la concessione automatica della cittadinanza per chi sia nato nel Paese da genitori irregolari – ma è certo che il Congresso sarà direttamente investito della questione, se non altro perché il principio è sancito costituzionalmente nel Quattordicesimo Emendamento. Saremmo cioè di fronte a un potenziale scontro di poteri, se Trump facesse davvero ricorso a un “Executive Order” come ha ipotizzato (e come quasi tutti i costituzionalisti ritengono inaccettabile), oltre che a una questione delicata nel merito. Una questione che peraltro tocca la natura stessa dell’identità americana e dunque un terreno scivoloso perfino per chi, come Donald Trump, ha sempre cercato lo scontro sul piano identitario e spesso consolidato così la sua base elettorale.
Sullo sfondo dei rapporti istituzionali si sono naturalmente mossi, nel biennio 2017-18, anche i ruoli e le ambizioni personali di figure come Paul Ryan alla Camera e Mitch McConnell al Senato, che non hanno avuto vita facile all’ombra di un Presidente iper-attivo come Donald Trump. Ryan, che forse si considera tuttora in corsa per future posizioni di primissimo piano, ha annunciato la scorsa primavera di non ricandidarsi al Congresso, rimarcando in sostanza una frattura interna al Partito tra chi si è schierato totalmente con il Presidente e chi invece cerca una propria linea in parte autonoma. Nei mesi successivi al voto di Midterm capiremo meglio come si organizzeranno i Repubblicani in vista delle presidenziali del 2020.
Insomma, se lo scenario post-Midterm vedrà un Congresso diviso, sarà importante comunque seguire il rapporto con la Casa Bianca sulla sostanza e il merito delle questioni di politica estera, anche tra gli stessi Repubblicani – al di là delle possibili tentazioni di impeachment o di altre azioni “dimostrative” da parte dei Democratici. La divisioni dei poteri negli Stati Uniti è un dato molto resiliente, come tutti i Presidenti hanno imparato sulla propria pelle.