Joe Biden è diventato presidente in uno dei momenti più difficili della storia americana. Centinaia di migliaia di morti per la pandemia, crisi economica devastante, tensioni razziali. Un presidente su cui non ci si faceva molte illusioni, soprattutto a sinistra; un politico che da 50 anni gli americani conoscono per il suo moderatismo, il buon senso, spesso le sue gaffe. In realtà, dopo i primi 100 giorni di presidenza, Biden ha sorpreso molti. Messa da parte ogni speranza di accordarsi con i Repubblicani (almeno nell’immediato), il nuovo presidente ha elaborato un piano di interventi federali, riaffermati il 28 aprile al Congresso, da quasi 6000 miliardi di dollari, che punta a raddrizzare profonde diseguaglianze sociali ed economiche e che ricorda, per ampiezza e coraggio, altri momenti della storia americana: il New Deal rooseveltiano e la Great Society di Lyndon Johnson.
Soprattutto, Biden sta ridefinendo cosa significa essere democratici nel 21esimo secolo. La cosa presuppone alcune importanti conferme, a livello politico e ideologico-culturale, ma anche significative novità di approccio e strategia. A titolo di esempio, vediamone due.
LA POLITICA ESTERA. Nel discorso alle camere riunite del Congresso, il primo da quando è diventato presidente, Biden non ha dedicato molto spazio alle questioni internazionali. C’è stata la rivendicazione della necessità del ritiro all’Afghanistan; e c’è stata la promessa di utilizzare severità di giudizio, richiamo ai diritti e offerta di collaborazione per quei Paesi che rappresentano una sfida diretta all’America e ai suoi valori: Russia, Cina, Corea del Nord, Iran. In realtà, proprio sulle questioni internazionali si sta verificando un importante cambiamento di paradigma rispetto a decenni di politica democratica (e anche, in parte, repubblicana).
Le prime settimane di presidenza Biden sono state segnate da una scia di annunci frenetici. Gli Stati Uniti sono rientrati nella World Health Organization, nell’Accordo sul clima di Parigi, hanno ripreso a finanziare l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi e a Vienna sono tornati a sedersi al tavolo dei negoziati con l’Iran. Mentre il Segretario di Stato Antony Blinken rassicurava i vecchi alleati sulla solidità dell’alleanza con l’America, il Tesoro imponeva o allargava sanzioni nei confronti della Russia, della Cina, del Myanmar e dell’Arabia Saudita.
La pioggia di iniziative è apparsa come il ritorno a un’antica e consolidata tradizione di multilateralismo, che vede gli Stati Uniti come perno e garante di un sistema di alleanze e poteri globali. Proprio Blinken ha passato buona parte dei primi tre mesi del suo mandato a ristabilire la vecchia ortodossia liberal-democratica: ciò che ha portato gli USA a prendere forti posizioni pubbliche contro la repressione militare nel Myanmar e quella degli uiguri in Cina, contro gli abusi in Etiopia e la persecuzione di Alexei Navalny in Russia, oltre all’atto finale di un lungo percorso: il riconoscimento del genocidio armeno – che inevitabilmente aumenta la tensione con la Turchia.
La strategia risponde ovviamente al bisogno di riaffermare valori e riparare alleanze dopo i quattro anni di Donald Trump e il suo continuo flirtare con despoti e regimi. Proprio Cina, Russia e Turchia stanno avvertendo gli effetti più significativi del cambio di guida alla Casa Bianca. Il ritorno all’ortodossia democratica in politica estera – che cerca di equilibrare interessi strategici americani e valori liberali – non deve però far trascurare un fatto: la situazione geopolitica globale è mutata e anche la politica estera americana sta cambiando.
I quattro anni di Donald Trump e la sua dottrina dell’“America First” non sono passati senza lasciar traccia. Anzi: proprio la teoria e la pratica della dottrina internazionale di Trump sono il riconoscimento che il mondo è cambiato e che gli Stati Uniti si trovano ad agire in un contesto molto più incerto e competitivo. L’intervento americano non è più garanzia di successo o di gestione dei conflitti internazionali: la concorrenza con la Cina in Africa, la sempre maggiore autonomia del continente latino-americano, i conflitti politici ed economici in Europa, le guerre in Afghanistan e Siria, lo stallo infinito del conflitto israelo-palestinese sono lì a dimostralo.
A questo proposito, proprio Antony Blinken ha pronunciato qualcosa di molto interessante in marzo: “Abbiamo fissato le priorità internazionali dell’amministrazione Biden facendoci una semplice domanda: che cosa la nostra politica estera significherà per i lavoratori americani e per le loro famiglie? Che cosa dobbiamo fare in giro per il mondo per renderci più forti in casa nostra?”. La dichiarazione mostra il salto fatto dalla dottrina democratica in politica estera. Blinken non usa ovviamente il termine “America First”, ma quello molto meno compromettente di “foreign policy for American workers”; il significato non è però molto diverso. La vecchia ortodossia dell’America garante e “guardiano” del mondo è superata in nome di una politica estera che non dimentica interessi geo-politici e valori ma che guarda soprattutto all’interno, agli interessi dei “lavoratori americani e delle loro famiglie”. In questo senso vanno intese mosse come il ritiro definitivo dall’Afghanistan, l’accresciuta competizione con la Cina, la decisione di colpire le forme di evasione fiscale internazionale delle aziende americane.
Biden, che viene da oltre cinquant’anni di intenso lavoro al Senato sugli affari internazionali, che ha fortemente creduto al sistema di alleanze globali gestito dagli Stati Uniti dopo la fine della Seconda guerra mondiale, è insomma anche il politico che riconosce il tramonto di quell’ordine e mette il suggello a una nuova politica estera democratica: molto più attenta agli interessi nazionali; sempre meno fiduciosa sulla possibilità degli Stati Uniti di agire e decidere nel mondo.
LE QUESTIONI INTERNE E I NUOVI EQUILIBRI NEL PARTITO DEMOCRATICO. Questo mutamento di paradigma a livello internazionale è anche il portato dei nuovi equilibri all’interno del Partito Democratico. Mettere l’accento, come Biden sta facendo, su sanità, educazione, lavoro, giustizia razziale porta inevitabilmente alla prevalenza delle questioni interne su quelle più globali, inerenti alla “missione” dell’America nel mondo.
Anche da questo punto di vista si avvertono del resto novità importanti, che tendono a ridefinire la politica democratica e che il discorso al Congresso di mercoledì ha evidenziato. Quello che appare evidente è infatti l’abbandono da parte di Biden dell’approccio bipartisan che per decenni ha caratterizzato la strategia democratica. Bill Clinton fu maestro nel costringere l’ala liberal del suo partito ad accettare politiche moderate e di accordo con i Repubblicani. Barack Obama perse mesi e mesi nel tentativo di negoziare compromessi con l’opposizione, dalla sanità alle armi all’immigrazione, spesso senza ottenere nulla e anzi indebolendo fortemente la sua azione.
Quelle politiche rispondevano a una convinzione: e cioè che spostare il partito troppo a sinistra finisse per alienare il centro moderato e l’elettorato indipendente, mettendo a serio rischio la possibilità stessa di governo dei democratici. Biden è stato incarnazione e alfiere di questa politica. Sempre al centro del centro nel suo partito. Sempre pronto a negoziare nei corridoi e nell’aula del Senato. Anche in questo caso però, come già per le questioni internazionali, sono intervenuti significativi mutamenti che Biden interpreta. Il Partito Democratico, nell’ultimo decennio, si è spostato a sinistra. A trasformarlo sono stati gruppi e idee che, dal basso, hanno agito nella società e nella politica americana: prima il movimento che si è opposto alla guerra in Afghanistan e Iraq; poi quello che ha chiesto una maggior redistribuzione economica ai tempi di Occupy Wall Street; infine le tensioni per la giustizia razziale rappresentate da Black Lives Matter.
Biden, da sempre al centro del centro, ha fatto quindi quello che ha fatto il suo partito: si è spostato a sinistra. La voglia di moderazione e compromesso che è stata l’ortodossia democratica negli anni di Bill Clinton e Barack Obama è stata messa da parte e il nuovo presidente ha preso una serie di posizioni decisamente progressiste.
Ha fatto sentire, chiara e inequivocabile, la sua voce sulle questioni razziali, parlando apertamente di “razzismo sistemico” della società americana, chiedendo una condanna per l’assassino di George Floyd e avanzando la necessità di una riforma della polizia. È stato durissimo contro i tentativi di limitare il voto delle minoranze. Non ha avuto esitazioni di sorta (Biden è cattolico) quando si è trattato di riaffermare i diritti riproduttivi delle donne. Ha abbracciato senza esitazioni la causa della comunità transgender. Ha creato l’amministrazione più attenta alle questioni di genere, di identità etnica e razziale della storia americana. Ha rilanciato la necessità di una legge sul controllo delle armi e affermato la volontà dell’amministrazione USA di impegnarsi nella riduzione delle emissioni inquinanti.
Non tutto ovviamente è andato in questo senso. Le esitazioni dell’amministrazione in tema di immigrazione (con la ripresa di molte delle politiche di contenimento dei flussi migratori messe in atto da Trump) rivelano le preoccupazioni di Biden di non esporsi troppo a sinistra, scontentando fette di elettorato moderato più guardinghe in tema di immigrazione. Ma, nell’insieme, Biden ha interpretato quanto successo nel Partito Democratico in questi anni: l’ascesa dei nuovi movimenti e gruppi di pressione, soprattutto delle comunità afro-americane che sono state decisive per la sua vittoria; la diminuita influenza del tradizionale establishment di Washington.
In questo ha contato anche un’altra considerazione. Biden si è convinto che l’America è pronta oggi a soluzioni ben più radicali rispetto al passato. La pandemia ha approfondito differenze sociali e di reddito non più sostenibili; le manifestazioni di protesta per gli afro-americani uccisi dalla polizia rivelano una rabbia razziale (e sociale) che non può più essere ignorata. Biden, che ha sempre mostrato un grande istinto nel porsi al centro del mainstream, ha capito che il mainstream del suo partito ha subito un deciso smottamento a sinistra.
In tutto questo, per finire, si rivela anche un’apparente beffa della Storia. Il politico che ha per cinquant’anni incarnato il potere dell’establishment del Partito Democratico è anche quello che ne decreta la fine. L’uomo che era stato scelto come candidato alla presidenza per la sua calma e rassicurante continuità è anche quello che precipita processi storici a lungo trattenuti. Il presidente che doveva essere “di transizione” – quattro anni di mandato e nulla più, per superare lo shock degli anni di Donald Trump – si rivela motore di una trasformazione per molti versi storica dell’economia, del governo, della società americana.