Le scelte difficili dell’Europa post-atlantica

 Il modo in cui Washington ha negoziato la revisione del Nafta, il trattato commerciale con Messico e Canada, conferma due tratti centrali della strategia di Donald Trump. Primo: il capo della Casa Bianca ritiene che gli accordi internazionali ereditati dal passato ledano gli interessi del popolo americano. E quindi intende liberarsene (è il caso dell’accordo nucleare con l’Iran) o migliorarli a favore degli Stati Uniti (è appunto il caso del Nafta). Secondo: per raggiungere questo obiettivo, Washington utilizza quasi esclusivamente canali bilaterali, alternando minacce e concessioni.

La convinzione di Trump, infatti, è che in una trattativa aperta fra Stati nazionali in competizione, l’America sia comparativamente più forte. E’ il vantaggio del sovranismo quando a praticarlo è un paese più sovrano degli altri. Il risultato – come dimostrano i dettagli dell’accordo trattato (separatamente) con Messico e Canada – è in realtà un aggiustamento pragmatico; ma intanto il presidente americano può rivendicare di fronte all’elettorato le sue capacità di “deal-maker”.

Un’Europa muta

Si vedrà nei prossimi mesi quanto questa logica, per definizione ostile a negoziati multilaterali, porterà a progressi veri sul dossier nucleare nord-coreano; o permetterà di chiudere a favore di Washington la prova di forza commerciale con la Cina. Il metodo, in ogni caso, è ormai consolidato: nella visione dell’attuale capo della Casa Bianca, espressa da ultimo all’Assemblea delle Nazioni Unite, l’America agisce da potenza revisionista sul piano internazionale.

Le parole di Trump al Palazzo di Vetro sono state derise, come si sa. In realtà – e al netto di incoerenze, imprecisioni e vanità – andrebbero prese maledettamente sul serio, in particolare dagli alleati tradizionali di un’America che non intende più sostenere gli oneri del vecchio “ordine liberale” e lo mette anzi in discussione. L’Unione Europea è di per sé, per come è costruita, parte di quell’ordine; ed è quanto di più lontano si possa immaginare dalla visione internazionale di Trump. Non è chiaro se il presidente americano punti volutamente a indebolire l’UE dall’esterno, con un disegno speculare a quello di Vladimir Putin; o se pensi semplicemente che l’Europa, dominata dalla Germania e abbandonata dalla Gran Bretagna, finirà per disgregarsi da sola. Il punto, in ogni caso, è che l’integrazione europea non può più contare, nonostante la rilevanza che mantiene la NATO, sulla tradizionale garanzia politica americana. E questo apre un interrogativo esistenziale: l’Europa senza America riuscirà a sopravvivere?

Emmanuel Macron risponde di sì. La sua visione di un’Europa sovrana aggiorna la vecchia ambizione francese di concepire l’Europa non solo come spazio (comune) ma come potenza (autonoma). E’ una scelta in teoria necessaria, dato che la competizione globale avviene ormai fra grandi poli economico-commerciali, incluso il polo “americano” attorno al Nafta riformato. Ma l’Europa sembra preda di pulsioni nazionalistiche. E la Francia è sempre troppo francese per apparire fino in fondo europea.

Un’alternativa è il “bandwagoning”: salire a bordo della linea americana, puntando su rapporti bilaterali preferenziali. E’ quanto pensano di fare una parte dei movimenti sovranisti europei, Lega inclusa. Ed è quanto sta già facendo il governo della Polonia, che Donald Trump, sfidando Bruxelles, ha citato a New York quale modello politico da emulare. La scommessa, in questo caso, è di pensare che la affinità ideologica produca anche una convergenza di interessi nazionali. Non è così: come dimostrano le differenze fra Londra e Washington sul commercio internazionale o sulla gestione del dossier nucleare con l’Iran, la comune diffidenza verso l’Europa, in nome della sovranità nazionale, non produce di per sé relazioni speciali in politica estera.

Ultima opzione è il multilateralismo per sottrazione: senza gli Stati Uniti e basato su convergenze occasionali fra l’Europa e altre potenze, incluse Russia e Cina. E’ la strada tentata dalla Germania in particolare. Ma che ha due limiti evidenti. Da un lato, l’Europa rischia, senza l’America, uno sbilanciamento eccessivo verso l’Eurasia. Dall’altro, resterà comunque estremamente vulnerabile alle pressioni (sanzioni) di Washington.

In realtà, l’unica vera opzione che viene praticata dal Vecchio Continente è di aspettare che sia l’America stessa a cambiare. Ma si tratta di un calcolo sbagliato: il declino del vecchio ordine atlantico è ormai consumato, Trump o non Trump. E la dipendenza post-bellica ha fatto il suo tempo. Per non lasciarsi dividere dall’esterno, e per non disgregarsi al suo interno, l’Europa deve riuscire a costruire un rapporto più maturo e più adulto con gli Stati Uniti. Rifondare il legame fra le democrazie occidentali, nell’era dell’ascesa delle potenze autoritarie, rientra nei migliori interessi europei – e in quelli dell’America. E’ una sfida che passa anche da nuovi accordi commerciali e sugli investimenti; l’Europa, traendo le lezioni giuste dai fallimenti passati (TTIP) e dagli accordi post-Nafta, dovrà evitare di giocare solo una partita di rimessa. 

Una versione di questo articolo è stata pubblicata su La Stampa del 2 ottobre.

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