Le scelte di Israele un anno dopo l’attacco di Hamas

«La guerra non sarà breve» ha dichiarato Benjamin Netanyahu a un anno dall’inizio delle operazioni militari nella Striscia di Gaza. Ma il premier israeliano stavolta non si riferisce al conflitto contro Hamas che ha assorbito l’attenzione dell’opinione pubblica israeliana per dodici lunghi mesi. Sul tavolo del gabinetto di guerra di Tel Aviv c’è un piano più ampio che intende affondare definitivamente le formazioni sciite filo-iraniane del Medio Oriente.

Un soldato attraversa un memoriale per le vittime del 7 Ottobre

 

Molti si aspettavano che il drammatico anniversario degli attentati di Hamas (7 ottobre 2023) che hanno scatenato l’invasione di Gaza sarebbe stato organizzato intorno a due figure: vittime e ostaggi. Da un lato si immaginavano le personalità di spicco della politica israeliana, Netanyahu in testa, sui palchi allestiti nella capitale con le candele sullo sfondo e il fiocco giallo sulle giacche, simbolo delle trattative per riportare a casa gli ostaggi. Ma i gruppi dei familiari dei rapiti, insieme alle organizzazioni che da oltre due anni protestano contro le riforme giudiziarie volute dal primo ministro e dal suo governo, avevano promesso che avrebbero fatto di tutto per impedire ai leader di strumentalizzare la situazione. «Riportiamo a casa gli ostaggi, cessate il fuoco ora» recitano i cartelli che ogni giorno vengono esposti su Kaplan street, nei pressi del ministero della Difesa. Accanto, il volto di Netanyahu sporcato da una mano insanguinata. «Nessuna passerella sui corpi dei nostri cari» urlavano ai megafoni i manifestanti alla vigilia della visita e del discorso di Netanyahu al palazzo dell’ONU di New York, il 27 settembre. Anche se la tregua cercata per mesi dagli Stati Uniti e mediata dal Qatar e dall’Egitto si è arenata più volte e al momento sembra scivolata agli ultimi posti tra le priorità dell’agenda della Knesset.

 

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Fino agli inizi di settembre, tuttavia, non era stato così. Almeno tre incontri tenuti al Cairo e in Qatar avrebbero dovuto essere quelli «decisivi» secondo la stampa di mezzo mondo. Al centro la proposta statunitense del 2 luglio che proponeva di dividere in due fasi la tregua: una immediata con il rilascio di alcuni ostaggi in cambio del cessate il fuoco e dell’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza; e una progressiva che avrebbe permesso nuovi colloqui durante un periodo di almeno sei settimane.

Ma alla fine dell’estate Netanyahu ha dato mandato alla sua delegazione di negoziare il controllo israeliano sui corridoi Filadelfia e Netzarim. Il primo è il confine tra Gaza e l’Egitto e il governo dice che sia fondamentale occuparlo per evitare che possano riprendere gli scambi alla frontiera –  anche se diversi analisti sostengono che il vero motivo sia quello, puro e semplice, di tenere sotto scacco il territorio occupato anche dal lato egiziano. Il secondo taglia la Striscia al centro e stabilisce di fatto una divisione tra quella che potrebbe essere considerata una lunga zona cuscinetto occupata nell’area a nord della città di Gaza. Il famoso scrittore israeliano Ilan Pappè, all’indomani dell’ennesimo nulla di fatto ha dichiarato in un’intervista all’emittente araba Al Jazeera che: «Netanyahu rifiuterà la proposta americana, qualunque essa sia… la sua strategia principale è quella di continuare la guerra perché ritiene che sia l’unico modo per assicurare la sua sopravvivenza politica». Ma gli Stati Uniti non hanno abbandonato i tentativi di raggiungere un cessate il fuoco, nonostante ai giornalisti che gli chiedevano se Netanyahu stesse facendo abbastanza per la tregua, Joe Biden abbia risposto secco «no».

«Non è vero che per la nostra sicurezza è fondamentale mantenere l’occupazione del Corridoio Filadelfia, se dovesse servire potremmo riprenderne il controllo in otto ore al massimo» ha dichiarato Yoav Gallant, ministro della Difesa e parte del gabinetto di guerra. Dello stesso parere gli ex capi dell’esercito israeliano Benny Gantz e Gadi Eisenkot, ora leader del partito d’opposizione di Unità nazionale, che il 2 settembre sono apparsi in tv per sostenere, in buona sostanza, che il premier stesse mentendo e che l’accordo per gli ostaggi si doveva finalizzare al più presto. Dopo i commenti di Netanyahu, il leader dell’opposizione Yair Lapid aveva scritto su X (ex Twitter) che quando «Israele ha evacuato il Corridoio di Filadelfia 19 anni fa, Netanyahu ha votato a favore. Sia nel governo che nella Knesset. Poi Netanyahu è stato primo ministro per 15 anni. Non gli è mai venuto in mente di riprendere il controllo del Corridoio di Filadelfia. Si è preoccupato di inviare le forze israeliane nel corridoio solo otto mesi dopo l’inizio dell’attuale guerra».

Inizialmente Hamas aveva chiesto che la controparte si ritirasse completamente da Gaza come condizione necessaria per firmare l’accordo, posizione che, tuttavia, è stata fortemente indebolita dagli eventi. Questo dunque il quadro al confine sud-occidentale di Israele, con vaste operazioni tuttora in corso.

 

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I vertici israeliani avevano già in mente un piano che spostasse l’attenzione dalla Striscia e ora, con i bombardamenti che hanno decimato i vertici di Hezbollah, le operazioni militari in Libano del sud e i raid costanti su Beirut, e l’arrivo dell’Iran da protagonista sulla scena, il quadro è completamente diverso.

Innanzitutto, come notano diversi analisti, la decisione di Tel Aviv di far detonare la crisi in Libano ha parzialmente oscurato la guerra in corso a Gaza, almeno a livello mediatico. Com’è noto Hezbollah non è una piccola milizia male armata e numericamente insignificante come Hamas. E dunque un maggiore sforzo militare richiede un salto comunicativo che il portavoce dell’esercito israeliano, Daniel Hagari, ha subito messo in atto. «Non stiamo facendo la guerra contro il Libano o contro la popolazione libanese» ha dichiarato l’ufficiale, «ma contro Hezbollah».

Peccato che i bombardamenti a Beirut abbiano effetti devastanti su tutta la capitale e nel Paese, secondo i dati del ministero della Salute, le operazioni israeliane hanno già causato più di mille vittime e 1 milione e 400 mila sfollati. Di questi oltre 300mila hanno passato il confine con la Siria, con tutti i rischi che questa decisione comporta a livello di sicurezza personale, di prospettive economiche e di diritti negati. In ogni caso i droni israeliani sorvolano costantemente Beirut, ogni notte vengono lanciati nuovi missili e le forze di terra hanno già iniziato le prime incursione oltre il confine con il Libano.

 

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Dunque l’anniversario del 7 Ottobre in Israele è stato quasi monopolizzato dallo sforzo bellico contro il Libano e dalle ulteriori minacce all’Iran dopo le azioni missilistiche di entrambe le parti. Certo, il ricordo degli ostaggi uccisi o delle vittime del rave di un anno fa occupa quasi tutte le pagine dei giornali e l’intero palinsesto televisivo. Ma si tratta di una commemorazione molto al di sotto delle aspettative di qualche settimana fa. Netanyahu e i suoi generali hanno dichiarato che risponderanno all’attacco iraniano del 1° ottobre, quando da Teheran partirono circa 180 missili, molti dei quali colpirono il suolo israeliano, pur senza vittime, e ora quella parte della popolazione che non condivide l’entusiasmo per «la distruzione dell’Asse del Male» come il premier definisce sistematicamente la Repubblica Islamica e le sue emanazioni regionali, vive nell’angoscia.

L’Iran ha già dichiarato che se Israele risponderà la sua rappresaglia sarà «implacabile», il che vuol dire che siamo già entrati in quel pericoloso turbine di minacce e contro-minacce in cui sembra che lo Stato che non risponde si dichiari automaticamente più debole. Bisogna riconoscere che la strategia militare di «guerra ai nemici di Israele, per un nuovo ordine in Medio Oriente» è piaciuta a molti israeliani, i quali non solo hanno recuperato fiducia nel primo ministro (risalito nei sondaggi di gradimento in maniera impressionante) ma hanno iniziato a sostenere le sue ragioni. Il punto, tuttavia, è che già da molto tempo prima degli attacchi di Hamas, il Likud ha imposto alla politica e alla società israeliana una svolta militarista e suprematista, che trova la sua espressione pratica nell’aggressività e nell’impunità dei coloni in Cisgiordania, più volte condannati dall’ONU come «occupanti illegali», e nella voglia di «farla finita una volta per tutte con i nemici dello Stato ebraico», per usare un’espressione cara a Netanyahu.

Tale radicalizzazione ha trovato nell’aggressione di Hamas terreno fertile per abbandonare ogni freno e ora, un anno e 42mila morti dopo, la guerra a Gaza sembra quasi senza via d’uscita. I giornalisti di Haaretz, della rivista +972, o delle testate progressiste statunitensi, tra i pochi a cui è permesso criticare apertamente le scelte israeliane, si chiedono spesso quali siano gli obiettivi raggiunti dall’invasione di Gaza, se Tel Aviv ha davvero chiaro un punto-limite che potrà definire «vittoria» e quale sarà la sorte degli ostaggi.

Questi ultimi ormai sembrano derubricati a una questione di minore importanza per un governo che ha messo i panni del gabinetto di guerra permanente, ora contro il Libano e (si teme) presto contro l’Iran.

 

 

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