Le sanzioni economico-finanziarie nell’era dell’interdipendenza

Sin dalla fine del primo conflitto mondiale il ricorso a regimi sanzionatori da parte degli Stati e delle organizzazioni internazionali ha rappresentato un elemento chiave delle relazioni globali. Nate come strumento coercitivo volto a prevenire o ad affiancare l’uso della forza militare, le sanzioni si sono progressivamente trasformate in un pilastro della governance economica globale e del sistema di relazioni internazionali, capace di influenzare tanto i rapporti tra privati quanto quelli tra Stati.

Nella visione internazionalista di Woodrow Wilson, incentrata sulla prevenzione dei conflitti, le sanzioni costituivano il principale deterrente della Società delle Nazioni – ideata e promossa proprio dal presidente americano. La mancata adesione degli Stati Uniti all’organo sovrannazionale nel 1919 (per la mancata ratifica del Trattato di Versailles da parte del Congresso), e l’impossibilità di coagulare un consenso intorno agli embarghi collettivi, resero però il boicottaggio economico difficilmente applicabile. Lo dimostrarono l’invasione giapponese della Manciuria nel 1931 e l’annessione dell’Etiopia da parte dell’Italia nel 1936, in cui l’effetto deterrente fu minimo vista l’assenza di un fronte compatto di Paesi sanzionatori.

Nel secondo dopoguerra emerse l’idea secondo cui l’uso della forza fosse indispensabile per garantire il rispetto degli embarghi commerciali. Il blocco navale a Cuba, imposto dall’amministrazione Kennedy nel 1962 nel contesto della crisi missilistica con l’URSS, mostrò come solo un intervento diretto della marina statunitense potesse assicurare l’interruzione degli scambi. Trent’anni più tardi, con l’Iraq di Saddam Hussein, fu l’ONU ad autorizzare un embargo sulle esportazioni di petrolio dopo la prima guerra del Golfo. In quel caso, le misure riuscirono a degradare la capacità offensiva irachena e i programmi bellici di Bagdad, benché il potere del dittatore rimase intatto, nonostante i costi sostenuti per assicurare la presenza navale nel Golfo Persico e i tentativi di elusione del regime.

Con la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia, le sanzioni hanno cambiato forma. Agli embarghi tradizionali si sono affiancati nuovi strumenti coercitivi che sfruttano la centralità del dollaro e dei sistemi di pagamento internazionali (come il sistema SWIFT, basato peraltro in Belgio). Le restrizioni sono divenute più mirate, capaci di colpire individui ed entità – come terroristi e reti di narcotrafficanti – ed evitare le catastrofi umanitarie generate da programmi inefficaci come oil-for-food, creato nel 1995 dalle Nazioni Unite per permettere all’Iraq di vendere petrolio in cambio di cibo, medicine e beni umanitari.

A crescere è stata anche la pervasività. Sfruttando i nodi critici dell’economia mondiale, le sanzioni hanno assunto una natura spiccatamente extraterritoriale e sono mutate anche le finalità. Se durante la guerra fredda e nei primi anni 90’ miravano all’isolamento politico e in alcuni casi al regime change – come nel caso di Cuba – o avevano un carattere puramente afflittivo – come contro l’Iraq dopo il ritiro dal Kuwait – oggi puntano più a modificare comportamenti specifici. Sempre più Stati le impiegano per infliggere un danno proporzionato a quello subito o costringere un Paese a rinunciare a determinate condotte in corso. È il caso del programma nucleare iraniano o dell’invasione russa dell’Ucraina, dove le misure restrittive non sono più semplici strumenti accessori, ma leve strutturali della politica estera, capaci di ridefinire i confini della sovranità economica e politica

 

Le nuove frontiere della coercizione economica

Tra gli effetti più rilevanti dell’interdipendenza economica tra Stati vi sono i chokepoint finanziari rappresentati dai sistemi di pagamento, dall’accesso alle valute e dalla messaggistica finanziaria. Proprio questi nodi critici costituiscono oggi la base delle sanzioni unilaterali, adottate con crescente frequenza dagli Stati Uniti e, in misura minore, dall’Unione Europea.

In tale contesto il dollaro continua ad assolvere tre funzioni centrali nell’economia globale, che ne rafforzano il ruolo di leva geopolitica oltre che monetaria. La valuta statunitense è riserva di valore, che le Banche Centrali accumulano come garanzia di stabilità e protezione contro i rischi valutari come il deprezzamento della propria moneta. È poi l’unità di conto più importante con cui vengono denominate la gran parte delle attività e delle operazioni finanziarie internazionali. Infine, rappresenta il principale mezzo di scambio per regolare pagamenti e transazioni tra Stati con valute diverse, in particolare nel commercio delle materie prime. Il caso del petrolio, scambiato in dollari sui mercati internazionali come conseguenza del primo shock petrolifero (1973), resta l’esempio più emblematico di questa funzione.

A consolidare ulteriormente la centralità del dollaro concorrono le infrastrutture finanziarie che convogliano i flussi internazionali di capitale. Il Clearing House Interbank Payments System (CHIPS), con sede a New York, è il principale sistema di compensazione per i pagamenti transfrontalieri in dollari, resi possibili grazie al circuito delle più importanti banche statunitensi che operano come correspondent bank per istituti stranieri, evitando le lungaggini e le incertezze dovute all’assenza di riserve in valuta estera. In parallelo, il sistema di messaggistica finanziaria SWIFT, con sede legale in Belgio ma di fatto integrato nell’architettura valutaria dominata dal dollaro, consente la trasmissione delle istruzioni di pagamento tra oltre undicimila istituti di credito nel mondo. L’incontestata centralità del dollaro, unita al controllo esercitato dagli Stati Uniti su questi chokepoints, fa sì che l’esclusione da CHIPS o da SWIFT equivalga a un embargo economico con i Paesi occidentali che, se inserito in una più ampia cornice sanzionatoria, può produrre effetti sovrapponibili a quelli di un blocco navale.

A partire dagli attentati dell’11 settembre 2001, il ricorso alle sanzioni è avvenuto in misura crescente contro una pluralità di entità statuali e attori pubblici e privati. Secondo un report di Chatham House, alla fine del 2023 si contavano circa 600 regimi sanzionatori commerciali, militari e finanziari, il 74% dei quali era riferibile a Stati Uniti, Regno Unito, Unione Europea e ONU. La stragrande maggioranza di tali restrizioni era però di natura unilaterale, ovvero adottata in assenza di un via libera da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Se negli anni ’90 l’approccio prevalente era di natura multilaterale – con l’appoggio di Mosca nei casi di Iraq, Rwanda e Afghanistan – attualmente solo il 6% delle sanzioni è riferibile al Consiglio di Sicurezza ONU, l’unico organo legittimato a adottare sanzioni vincolanti per tutti gli Stati membri in base al diritto internazionale. Il dato è in progressiva diminuzione a causa dello stallo dovuto al veto di Cina e Russia sul rinnovo delle misure esistenti e sull’adozione di ulteriori restrizioni. Anche per questo motivo, nel luglio 2015 Francia, Gran Bretagna e Germania introdussero, mediante la firma del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) con l’Iran, il cosiddetto meccanismo di snapback. La clausola fu concepita per consentire, come avvenuto poi effettivamente nel settembre di quest’anno, il ripristino automatico di tutte le sanzioni che l’ONU aveva imposto all’Iran prima dell’accordo nucleare e successivamente revocato.

 

Limiti dell’unilateralismo e rischio inefficacia

La frammentazione del quadro sanzionatorio comporta in primo luogo un significativo aggravio regolatorio per gli operatori economici, che si trovano costretti a fronteggiare una pluralità di regimi restrittivi adottati su base unilaterale da diversi blocchi di Stati contrapposti. A titolo esemplificativo, nel 2023 secondo la già citata analisi di Chatham House, le sanzioni statunitensi si estendevano a Stati e attori economici che rappresentano circa un quinto del PIL mondiale. Questo approccio definito da alcuni commentatori come “oligopolare” comporta il rischio che una transazione finanziaria o commerciale tra due o più Stati, sia allo stesso tempo permessa o vietata in base ai diversi meccanismi sanzionatori in vigore. Il rischio è ancora più alto nel caso delle sanzioni secondarie, che si applicano indipendentemente dal nesso con una determinata valuta o con la sede legale delle entità coinvolte. È il caso, ad esempio, della francese Total, costretta a ritirarsi nel 2018 dall’Iran sotto la scure dell’OFAC o di BNP Paribas, multata per 8,9 miliardi di dollari nel 2014 per aver violato le sanzioni statunitensi nei confronti di Sudan, Cuba e Iran.

Nel tentativo di sfuggire ai chokepoints del dollaro e del sistema SWIFT, vi sono alcuni Stati come Russia e Cina che hanno sviluppato infrastrutture finanziarie alternative. Originariamente nate a scopo di facilitare l’elusione o attenuare l’impatto delle sanzioni occidentali, oggi vengono presentate come vere e proprie alternative fruibili dai Paesi del Sud Globale, nonché come punto di partenza del processo di “dedollarizzazione”. È il caso dei sistemi di pagamento MIR o di quello di messaggistica SPFS, sviluppato da Mosca sin dalla prima ondata di sanzioni del 2014, successiva all’annessione della Crimea e perfezionato ed esportato a partire dall’invasione dell’Ucraina nel 2022 per mitigare gli effetti dell’esclusione della Russia dalle infrastrutture finanziarie globali.

 

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Anche Pechino ha messo a punto sistemi sovrapponibili come il CIPS, che si connota per una maggiore autonomia rispetto agli analoghi occidentali e conta circa 1700 partecipanti, seppur in maggioranza indiretti, in 119 Paesi. In questo caso, più che una contromisura ad iniziative statunitensi, la Cina mira a costruire una politica commerciale autonoma e alternativa che dalla manifattura abbraccia le transazioni finali, garantendo al cliente una politica di de-risking e affidabilità a prescindere dalle contingenze geopolitiche.

I risultati ottenuti da Pechino restano comunque abbastanza ridotti. Al momento il sistema CIPS è adottato da meno di 2000 entità, mentre lo SWIFT ne collega oltre 11.500 in più di 200 Paesi. Inoltre, una delle ragioni della scarsa attrattività di questi strumenti è data dalla politica monetaria cinese, in quanto la People’s Bank of China non è indipendente, rispondendo direttamente al governo centrale, il renminbi è soggetto a un cambio gestito con banda di oscillazione e persistono controlli stringenti sui movimenti di capitale. Tuttavia, la nascita delle valute digitali da affiancare a quelle “tradizionali” potrebbe contribuire a dissipare le preoccupazioni sulla politica monetaria della Cina, tantopiù se non accompagnata da iniziative analoghe degli Stati Uniti e dell’UE.

Maggiore fortuna hanno avuto invece le restrizioni adottate da Pechino nell’ottobre 2025, che hanno esteso i controlli all’esportazione a terre rare lavorate e magneti, introducendo nuove licenze e clausole di export control che impongono autorizzazioni anche per prodotti fabbricati all’estero quando incorporano materiali o tecnologie di origine cinese. Queste misure, che si aggiungono alle precedenti restrizioni su gallio, germanio e grafite, hanno riportato gli Stati Uniti al tavolo negoziale dopo l’inasprimento dei dazi della primavera 2025 e la risposta di Pechino con controlli sempre più stringenti sulle materie prime critiche. Un risultato analogo non è stato ottenibile dalla Russia che, pur avendo quasi azzerato i flussi di idrocarburi verso l’Europa, non è riuscita a ostacolare il sostegno all’Ucraina, anche perché la riduzione delle forniture è dipesa in larga parte da decisioni adottate dall’Unione stessa. L’UE, infatti, ha progressivamente diversificato le proprie fonti di approvvigionamento e, a fronte di una situazione inizialmente disastrosa, il 20 ottobre 2025, dopo quasi quattro anni di guerra, ha stabilito la cessazione dei contratti residui di gas russo entro il 1° gennaio 2028. Come nel caso delle sanzioni occidentali, l’efficacia di una restrizione dipende meno dalla sua ampiezza e più dalla capacità di garantirne il rispetto e dall’assenza di alternative percorribili sul mercato.

 

La partita dell’extraterritorialità

Il nodo principale delle sanzioni unilaterali – specialmente per quelle adottate dagli Stati Uniti – si conferma l’extraterritorialità delle misure, che comporta l’applicazione delle restrizioni anche a soggetti non statunitensi, qualora sussista un qualsiasi legame con la giurisdizione americana, come l’utilizzo del dollaro, il ricorso ad una correspondent bank americana o il semplice impiego di tecnologie o componentistica di origine statunitense. Tali allargamenti dell’ambito di applicazione territoriale videro una prima applicazione su larga scala con l’Iran and Libya Sanctions Act del 1996 (ILSA).

Da allora, il ricorso all’extraterritorialità è divenuto sistematico, sfruttando il cosiddetto US nexus: oltre all’utilizzo del dollaro nelle transazioni, assumono rilievo il coinvolgimento di cittadini o entità statunitensi e l’impiego di infrastrutture sottoposte alla giurisdizione degli Stati Uniti. In tal modo Washington ha potuto paralizzare i rapporti commerciali con gli Stati sanzionati. In alcuni casi, le restrizioni hanno colpito operatori di Paesi terzi anche in assenza di legami diretti con gli Stati Uniti, per il solo fatto di aver partecipato a transazioni considerate vietate.

Nel 1996 la reazione europea non tardò ad arrivare. Con il “Regolamento di blocco”, l’UE dichiarò prive di effetto nel territorio comunitario le sanzioni extraterritoriali statunitensi, imponendo agli operatori di conformarvisi e aprendo così un contenzioso che, seppur con alterne vicende, ancora oggi rimane irrisolto. Ciò non ha tuttavia impedito che nei decenni successivi grandi istituti finanziari venissero colpiti da sanzioni miliardarie per aver effettuato transazioni in dollari con Paesi sotto embargo statunitense, a dimostrazione della forza coercitiva di Washington e delle difficoltà incontrate da Bruxelles nel proteggere i propri operatori.

Oggi, mentre il processo di pace tra Russia e Ucraina continua a non produrre risultati concreti, l’Unione Europea si trova di fronte a un bivio. Nel diciannovesimo pacchetto proposto dalla Commissione il 19 settembre, il Consiglio valuterà non solo un inasprimento delle restrizioni nei confronti di alcune raffinerie in Paesi terzi, tra cui la Cina, ma anche un possibile divieto di transazioni con banche extra-UE, per frenare l’elusione tramite piattaforme cripto e circuiti finanziari alternativi come MIR.

 

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Lo sforzo antielusivo, avviato con la clausola di non-riesportazione e con il divieto di connessione al sistema russo di messaggistica finanziaria SPFS, si sta trasformando in misure rivolte agli operatori europei che, di fatto, producono effetti anche su soggetti esterni all’Unione. Non si tratta però di secondary sanctions in senso statunitense, né di vera extraterritorialità. A differenza degli Stati Uniti, che possono imporre obblighi diretti a soggetti stranieri anche in assenza di uno “US nexus”, l’Unione Europea agisce principalmente attraverso la leva dell’accesso al suo mercato interno. Le restrizioni si traducono nel divieto per gli operatori europei di intrattenere rapporti con determinate entità di Paesi terzi, precludendo così a queste ultime l’ingresso nello spazio economico europeo.

Questo nuovo approccio, dettato più da ragioni contingenti che da una reale ridefinizione del posizionamento geopolitico dell’UE, solleva ulteriori dubbi se confrontato con l’adozione, in passato, di strumenti come il meccanismo anti-coercizione e il già citato Regolamento di blocco del 1996. Entrambi, infatti, sono stati concepiti per difendere le imprese europee dagli effetti di misure coercitive di varia natura, accomunate dall’elemento dell’extraterritorialità. Tale antinomia giuridica, ancora irrisolta, può tuttavia rappresentare l’occasione per ridefinire il perimetro della politica estera dell’Unione, ricorrendo a strumenti non solo difensivi, ma anche capaci di tutelare più efficacemente gli interessi degli Stati membri e di costituire una deterrenza credibile in uno scenario internazionale sempre più frammentato e imprevedibile.

 

Le incerte prospettive future

Oggi le sanzioni unilaterali conoscono una popolarità inaspettata, frutto di un dividendo della pace ormai esaurito. Il ricorso alla guerra economica su larga scala può essere letto in due modi, non necessariamente alternativi. Da un lato, come la necessità di prevenire lo spargimento di sangue, condivisa tacitamente da un numero di Stati ben maggiore di quanto non sia immediatamente intuibile. Dall’altro, come il riflesso del progresso tecnologico e della finanziarizzazione dell’economia, che hanno reso tali misure più accessibili e meno onerose per quegli attori che controllano i principali chokepoint.

Nell’America di Donald Trump, tuttavia, il panorama è cambiato. Dopo una prima fase segnata dal ricorso a strumenti “ibridi”, come i dazi secondari e altre misure extraterritoriali applicate anche al Venezuela, la Casa Bianca ha imboccato una linea più tradizionale. Le nuove sanzioni contro Lukoil e Rosneft, i giganti dell’industria petrolifera russa, segnano infatti un ritorno alle restrizioni classiche, con il congelamento dei beni e il divieto di transazioni per soggetti statunitensi e stranieri.

È la prima volta dall’inizio del mandato di Trump che il Dipartimento del Tesoro colpisce in modo così diretto la principale fonte di reddito di Mosca, approfittando del calo del prezzo del greggio e riaffermando la centralità delle sanzioni economiche come strumento di pressione politica, per ottenere il tanto agognato cessate il fuoco in Ucraina. In parallelo, la Cina ha inaugurato un nuovo fronte con le proprie contro-sanzioni, basate su export control di terre rare e tecnologie critiche di lavorazione, segnando l’ingresso di Pechino nel campo delle misure coercitive e mettendo per la prima volta in discussione la supremazia americana.

 

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La partita si estende ormai ben oltre la dimensione commerciale o finanziaria: il terreno delle sanzioni tecnologiche – microchip, intelligenza artificiale, servizi cloud – definisce nuovi domini di competizione, in cui l’Occidente si trova spesso costretto a inseguire. In prospettiva, scenari come una crisi su Taiwan potrebbero rappresentare il vero banco di prova per la tenuta e l’efficacia dei regimi sanzionatori. Più che l’emergere di un’alternativa credibile al dollaro, ancora lontana dall’orizzonte, si intravede il rischio di una crescente frammentazione del commercio globale. In un contesto segnato dal friend-shoring e dal reshoring, le sanzioni non sono soltanto strumenti di pressione ma diventano elementi ordinari e ricorrenti della governance globale, ridefinendo gli equilibri economici e politici del futuro.

 

 

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