Le ragioni delle scelte tedesche

Dopo mesi di cauto (e criticato) attendismo, il governo di Angela Merkel ha improvvisamente abbandonato i lidi del rigore nei conti pubblici per passare all’offensiva. Ciò sulla base di considerazioni contingenti, in massima parte legate all’eccezionalità della crisi.

Prima del varo delle recenti manovre economiche1, la Germania era reduce da un biennio di moderata crescita del PIL, sostenuta in gran parte dal boom delle esportazioni. I conti pubblici, dopo tre anni di sforamento dei parametri di Maastricht, erano in ordine: a fine 2007 si era persino raggiunto un leggero surplus di bilancio (come non accadeva dal1969), pari a 70 milioni di euro. Si trattava dell’effetto congiunto dell’inasprimento dell’Iva e della crescita dell’occupazione, che avevano sostenuto i (pur sempre deboli) consumi e quindi le imposte dirette ed indirette. Il mercato del lavoro, ossigenato dalle quattro leggi Hartz varate nella passata legislatura e rincuorato dalla congiuntura favorevole, aveva poi visto il numero dei disoccupati diminuire sensibilmente, passando dai quasi cinque milioni del 2005 ai poco meno di tre del novembre 2008. Grazie ad efficaci meccanismi di welfare to work, lo Stato ha così risparmiato tra il 2004 e il 2007 circa 25 miliardi di euro nell’erogazione degli assegni di disoccupazione, a fronte di un aumento dei posti di lavoro ascrivibili non certo solo al campo dei contratti a tempo indeterminato.

In virtù di una politica salariale oculata e ad un costo del lavoro mantenutosi sostanzialmente costante2 rispetto a quello italiano, francese o inglese, le imprese tedesche, da sempre leader mondiali in produzioni ad alto valore aggiunto, hanno poi reagito con successo agli stimoli della globalizzazione, reggendo bene la concorrenza asiatica e aumentando la produttività. Dopo che negli anni ’90 la capacità delle imprese tedesche di competere a livello internazionale era colata a picco, il made in Germany è così tornato a fiorire, in primo luogo grazie ad una massiccia delocalizzazione. La riforma della tassazione corporate, entrata in vigore il 1° gennaio dello scorso anno, pur con qualche ombra, pareva proseguire nella direzione di una politica market-friendly, attenta a creare condizioni favorevoli per la libera iniziativa senza opprimerla con un carico fiscale eccessivo. Infine, agli stessi principi sembrava essere improntata anche la riforma pensionistica approvata nel 2007, che però è risultata molto impopolare: si pensava infatti che soltanto un esecutivo di unità nazionale sarebbe stato in grado di tamponarne gli effetti sul consenso senza grossi smottamenti.

Sulla scia delle riforme varate da Gerhard Schröder, l’esecutivo di grande coalizione ha così governato per poco meno di tre anni nel segno della continuità con l’esperienza new labour. Certo, la litigiosità e l’estrema diversità di vedute tra CDU, CSU ed SPD hanno prodotto anche clamorosi fallimenti (si pensi al caso della privatizzazione di Deutsche Bahn), compromessi di comodo (si prenda la riforma del federalismo o della tassa di successione) e perfino misure di retroguardia, in generale poco rispettose della concorrenza (lampante è l’esempio del salario minimo per il settore postale, che fa il paio con il complicato ordito centralista della riforma sanitaria). D’altro canto, però, intorno alla celebre Agenda 2010, il pacchetto di provvedimenti volti allo snellimento dello Stato sociale, CDU ed SPD hanno cementato in questi anni un franco spirito bipartisan: Agenda 2010 è così diventata l’incarnazione della Soziale Marktwirtschaft del nuovo secolo, la stella polare da seguire per realizzare un nuovo “miracolo” tedesco. Solo la componente più massimalista dell’SPD, impostasi nell’ultimo Congresso di Amburgo a seguito della fuga in avanti di Die Linke nei sondaggi, sembrava poter mettere a repentaglio questo traguardo. In realtà, il cambio ai vertici del partito dello scorso settembre pare aver messo al sicuro una volta per tutte il prezioso lascito di Schröder. Contrariamente a quanto ci si ostina a dire, il risultato principale di quell’azione di governo non è stato l’incremento della povertà o della forchetta tra poveri e ricchi. Ad essa ha infatti contribuito molto di più l’attuale squilibrio del sistema fiscale. Secondo uno studio dell’istituto economico di Colonia, le indagini dell’OCSE su cui sovente ci si basa per suffragare il dato della crescente povertà tedesca, si riferiscono al periodo 2003-2005. Oggi la situazione è ben diversa: nel biennio 2006-2007 la povertà in Germania è progressivamente calata ed il tasso è comunque ben al di sotto di quello medio fissato dall’OCSE3.

Detto ciò, v’è da chiedersi fino a che punto CDU/CSU ed SPD siano riuscite nell’impresa di non distorcere o addirittura di non vanificare quest’esperienza, alla luce della crisi economica in atto. La risposta è difficile, in primo luogo perché alcune delle misure predisposte con i recenti pacchetti congiunturali devono ancora entrare in vigore; in secondo luogo perché altre decisioni- si pensi al salvataggio di Opel o al tetto per gli stipendi dei manager- devono tuttora essere prese. Certo è che il catalogo di eventi degli ultimi mesi potrebbe segnare lo spartiacque di una nuova era nella gestione della politica economica tedesca, nella quale parole come “statalizzazione” ed “esproprio” non fanno più paura.

E ciò suona tanto più strano se si considera che, ai primi segnali di turbolenza, la Cancelliera e il suo Ministro delle Finanze sottostimarono l’ipotesi di un programma organico, inteso ad evitare il default del sistema bancario nel suo complesso, continuando a prediligere interventi caso per caso. L’impressione generale fu quella di un governo debole, dilaniato da meschine controversie interne e incapace di mettere a fuoco la reale portata della crisi. D’altra parte, la preoccupazione principale dell’esecutivo rimaneva quella del pareggio di bilancio entro il 2011. Tradire questo obiettivo avrebbe infatti significato venir meno al patto di coalizione (Koalitionsvertrag), svuotando di significato l’intera manovra governativa, che nei precedenti tre anni aveva ruotato tutta intorno a tale target.

Quando la recrudescenza della crisi e le pressioni di Francia e Gran Bretagna hanno imposto l’azione, la Germania è comunque andata avanti da sola, frustrando ogni slancio europeo, quasi che l’eccezionalità della situazione potesse consentire di accantonare il progetto di rafforzamento dell’unione politica all’interno di Eurolandia. Sembra dunque che la Repubblica federale punti alla creazione di un “nucleo duro” europeo, che rafforzi l’integrazione franco-tedesca, ma fondando tale nucleo sostanzialmente sulla cooperazione intergovernativa e non più su quella unione politica che a suo tempo la stessa Angela Merkel voleva vedere realizzata con l’ingresso dei nuovi membri. Tale temporaneo cambiamento di prospettiva è funzionale ad un processo di “introversione” politica, messo in atto del governo di Berlino al fine di concentrarsi il più possibile su problemi di natura domestica, in un anno disseminato da numerosissimi appuntamenti elettorali. In tale contesto, sarebbe infatti difficile spiegare ai cittadini tedeschi il motivo per il quale dovrebbero accollarsi gli oneri delle debolezze di cui soffrono Stati che per anni hanno vissuto al di sopra delle proprie possibilità. D’altro canto, nelle condizioni attuali, è anche arduo pensare di dare una scossa ad un’economia appiattita sulle esportazioni attraverso misure meramente “interne”. Finché i principali clienti tedeschi (tra i quali proprio i paesi dell’Est) non torneranno a crescere, è quindi assai improbabile che la Germania si possa risollevare.

Di qui le critiche rivolte da molti economisti al Modell Deutschland degli ultimi anni. In un suo editoriale per il Financial Times4, Stefan Collignon mette in dubbio che sia questo l’archetipo di sviluppo adeguato, domandandosi se non sia forse meglio che la Germania privilegi l’aumento dei salari e la ripresa dei consumi interni piuttosto che una forsennata gara alla competizione internazionale. Che si torni cioè al “capitalismo renano” propriamente detto, fatto di cogestione nelle decisioni industriali, crescita lenta ma costante ed assistenzialismo diffuso. Una proposta che sembra stridere con la tabella di marcia degli ultimi due lustri, ma che con un prolungarsi indefinito della crisi e dei provvedimenti di emergenza potrebbe guadagnare credito anche tra i politici tedeschi.

 

1 Per un quadro di insieme si vedano i contributi di Veronica de Romanis per la versione online di Aspenia.
2 Studio IZA sull’andamento della disoccupazione tedesca realizzato per il think tank INSM. http://www.insm.de/Downloads/Gutachten_IZA_6.10.2008.pdf
3 A parlarne è stato anche il think tank INSM http://www.insm-oekonomenblog.de/allgemein/armut-veraltetes-bild
4 L’articolo è reperibile a questo indirizzo http://www.ft.com/cms/s/0/69642058-e662-11dd-8e4f-0000779fd2ac.html

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