Passa quasi un decennio, e nel dicembre scorso il Presidente Trump scrive, a seguito delle proteste contro il governo di Hassan Rouhani: “Oppressive regimes cannot endure forever, and the day will come when the Iranian people will face a choice. The world is watching!”. In un altro dei suoi classici tweet, dichiara: “The entire world understands that the good people of Iran want change, and, other than the vast military power of the United States, that Iran’s people are what their leaders fear the most….”. Il Dipartimento di Stato, in una nota degli stessi giorni, ricorda che il Segretario di Stato, Rex Tillerson, è dalla parte di “those elements inside of Iran that would lead to a peaceful transition of government. Those elements are there, certainly as we know” (citando in particolare la sua audizione al Congresso del 14 giugno 2017).
Siamo dunque di fronte a un caso di grande continuità negli indirizzi di politica estera americana? Si tratta della tutela di interessi nazionali di fondo che gli Stati Uniti perseguono a prescindere dall’amministrazione in carica? A prima vista è così, ma l’apparenza inganna decisamente: Washington deve gestire, nel 2018 come nel 2009, e naturalmente come nel 2011 con le tante “rivolte arabe” che si propagarono nel Medio Oriente, una sfida delicatissima. Il modo scelto da Obama per gestirla è stato però profondamente diverso da quello scelto da Donald Trump, e questa differenza avrà effetti sulle opzioni disponibili per gli Stati Uniti.
L’amministrazione in carica nel 2009 aveva una visione graduale e multilaterale del possibile “disimpegno” americano da alcune questioni mediorientali. Il piano per l’Iran si incentrava sul contenimento del programma nucleare e sulla creazione di un certo “spazio di manovra” per l’evoluzione interna spontanea del paese grazie alle forze politiche più moderate – certo non eredi di Thomas Jefferson, ma meno radicali e rigide di altre, nel contesto iraniano. Con la controparte del governo Rouhani, Obama arrivò al sospirato accordo nel luglio 2015 (il Joint Comprehensive Plan of Action), senza farsi troppe illusioni, sperando però che questo producesse anche un cambiamento degli equilibri interni. Ora, si deve ricordare che le proteste più recenti in Iran sono in parte motivate proprio dalle aspettative deluse che quell’intesa aveva sollevato in termini di ripresa economica.
Va anche ricordato che l’accordo nucleare era – probabilmente – visto da Obama come un primo passo verso la riduzione della dipendenza americana da due attori regionali che hanno a lungo condizionato e limitato le scelte e le opzioni di Washington: Arabia Saudita e Israele – che infatti si sono sempre espresse con durezza contro l’intesa con l’Iran. Alcune delle loro obiezioni sono sensate e perfettamente legittime, ma resta il fatto che gli interessi di Washington non convergono automaticamente con quelli di Riyad e/o di Gerusalemme, e non si vede perché dovrebbero.
Con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, cambia – oltre a molto altro – l’atteggiamento verso i processi di “democratizzazione”. In uno dei rari tentativi di chiarimento concettuale che sono stati resi pubblici nei primi mesi dell’amministrazione, l’Assistente alla Sicurezza Nazionale, H.R. McMaster, e il capo dei consiglieri economici del Presidente, Gary Cohn (Wall Street Journal, 30 maggio 2017), presentavano un approccio generale:
“We engage with the world not to impose our way of life but to ‘secure the blessings of liberty for ourselves and our posterity.’ That means identifying the interests and principles that make America uncommon and advancing them in the Middle East, with our NATO allies, with the G-7 nations and beyond. (…) the world is not a “global community” but an arena where nations, nongovernmental actors and businesses engage and compete for advantage. We bring to this forum unmatched military, political, economic, cultural and moral strength. Rather than deny this elemental nature of international affairs, we embrace it.”
Non ne emerge davvero alcun particolare interesse per l’evoluzione interna di altri Paesi, che siano amici, partner, avversari, nemici.
Qualche concessione alla promozione dei diritti umani e civili è però presente nella più recente National Security Strategy of the United States del dicembre scorso in cui si precisa ad esempio, in termini assai tradizionali: “We support, with our words and actions, those who live under oppressive regimes and who seek freedom, individual dignity, and the rule of law.” Ma questa affermazione molto “convenzionale” è subito mitigata da una sorta di caveat: “We aid others judiciously, aligning our means to our objectives,but with a firm belief that we can improve the lives of others while establishing conditions for a more secure and prosperous world.”
Nel complesso, in questo documento programmatico i riferimenti alle condizioni interne ad altri paesi rimangono confinati in circa tre pagine su un totale di circa cinquanta. A chiarire le priorità di fondo nella regione mediorientale, basta del resto l’indicazione delle priorità americane: “The United States seeks a Middle East that is not a safe haven or breeding ground for jihadist terrorists, not dominated by any power hostile to the United States, and that contributes to a stable global energy market. The United States has learned that neither aspirations for democratic transformation nor disengagement can insulate us from the region’s problems. We must be realistic about our expectations for the region without allowing pessimism to obscure our interests or vision for a modern Middle East.”
Altrettanto chiaro è un passaggio della breve prefazione a firma del Presidente:
“During my first year in office, you have witnessed my America First foreign policy in action. We are prioritizing the interests of our citizens and protecting our sovereign rights as a nation. (…)We will pursue this beautiful vision—a world of strong, sovereign, and independent nations, each with its own cultures and dreams, thriving sideby-side in prosperity, freedom, and peace…”
In sostanza, il peso degli assetti interni è qui esplicitamente marginale rispetto al rapporto con Paesi (cioè governi) “forti”. Sappiamo, in realtà, che i documenti ufficiali possono essere fuorvianti e sono spesso poco rilevanti, anche se rivelano la forma mentis di chi li ha scritti o approvati; comunque, per una valutazione complessiva è opportuno concentrarsi soprattutto sulle azioni tangibili.
In tal senso, è arduo stabilire se il “piano Obama” per l’Iran fosse realistico e funzionale agli interessi americani, oltre che magari alla stabilizzazione del Medio Oriente; forse è tardi per farlo, se il suo pilastro essenziale – la limitazione temporanea del programma nucleare iraniano per via negoziata e multilaterale – sarà del tutto eliminato dall’attuale amministrazione e dal Congresso. In ogni caso, quel piano aveva una sua coerenza strategica.
Lo stesso non si può dire, ad oggi, della linea seguita da Trump, che oscilla senza trovare un centro di gravità. Non lo trova in parte per ragioni concettuali: la ricerca costante dei cosiddetti “vantaggi relativi” (competere per “vincere” su ogni tavolo) porta a una continua ridefinizione degli obiettivi per poter sopravanzare la propria controparte. Al contrario, la ricerca dei “vantaggi assoluti” che parte dal presupposto di obiettivi generali e piuttosto stabili, da perseguire spesso assieme ad altri attori.
Un’altra motivazione per l’incertezza americana è pratica: l’allineamento quasi totale con la monarchia saudita intensifica a sua volta reazioni regionali destabilizzanti (come in Yemen ma anche in Siria e altrove), visto l’iperattivismo di Riyad in questa fase. In breve, gli Stati Uniti sono oscillanti, l’Iran sarà pure inaffidabile, ma l’Arabia Saudita è quasi imprevedibile (al di là, appunto, della sua ostilità verso Teheran). Seguirla pedissequamente non è una vera forma di “leadership” neppure secondo i criteri di “America First”.
Le difficoltà in cui si dibatte Washington in Medio Oriente non sono certo del tutto nuove: cambiamento “pro-democrazia” e stabilità attraverso regimi autoritari sono obiettivi classici che hanno imposto compromessi sgradevoli a qualsiasi presidenza. Ma c’è oggi una differenza di fondo rispetto all’amministrazione Obama se si guarda a Teheran, visto che Trump ha espresso più volte l’intenzione di interrompere il dialogo avviato con l’Iran.
Lo ha fatto per considerazioni anzitutto di equilibrio regionale, visto che un’enfasi reale sulla politica interna “non-democratica” porterebbe automaticamente Washington in rotta di collisione anche con Paesi come l’Arabia Saudita (che, nonostante le prime coraggiose aperture del Crown Prince Mohammed bin Salman, non è proprio un modello di democrazia liberale). In altre parole, non ci si può spingere troppo oltre una condanna generica dell’attuale regime iraniano, agevolata (tatticamente) dal fatto che proprio con la presidenza Rouhani è stato concluso l’accordo nucleare tanto detestato da Trump. La promozione della democrazia non è affatto all’ordine del giorno.
Rispetto a possibili interferenze sulla politica interna iraniana la prudenza di Obama fu accompagnata da un generico sostegno per le legittime proteste popolari e per la prospettiva di una maggiore democratizzazione – dunque, fu una linea ambigua. L’attuale amministrazione, che invece incoraggia con forza chi protesta, non sembra però orientata a schierarsi con gli avversari del regime fino al punto di promettere qualsiasi coinvolgimento diretto: è dunque anch’essa intrappolata nell’ambiguità. Donald Trump si trova allora a navigare senza neppure la sua bussola preferita: fare il contrario di quanto ha fatto, o avrebbe fatto, Barack Obama – perché la posizione dell’ex-Presidente non era lineare né limpida in questo caso, e non fornisce dunque un punto di riferimento.
Se allarghiamo la prospettiva per guardare anche alle rivolte arabe del 2011, Obama tentò di muoversi lungo una linea sottile, tra un generico interesse per il potenziale (democratico- modernizzatore) delle proteste e i timori di instabilità. Cercò di non scegliere mai una parte in causa da sposare pienamente – che fossero i militari da sempre al potere, i Fratelli Musulmani, gli studenti “laici”, etc. Fece errori (soprattutto in Siria) e forse non ebbe alcuna reale influenza sugli eventi, ma se non altro evitò di aggravare la conflittualità regionale – tranne che in Libia, con un breve intervento di cui si è poi pentito apertamente. Obama definì comunque gli interessi americani in modo limitato e seguì la via diplomatica per gestire la questione iraniana, senza rompere i rapporti con nessun Paese arabo, né naturalmente con Israele.
A giudicare dall’atteggiamento assunto da Trump sulle vicende iraniane di fine 2017, si apre un quesito per il futuro, forse già a breve termine. Se ci saranno sviluppi analoghi al 2011 in alcuni paesi arabi, il vero problema è che la sua amministrazione rischia di non avere alcun parametro per definire gli interessi americani – né un ragionato sostegno per le proteste popolari, né un puro calcolo di Realpolitik, né una rete di alleanze stabili (visto soprattutto il comportamento alquanto erratico dei sauditi), né certamente un percorso possibile di disgelo con l’Iran. Non si vede chi potrà mai beneficiare di questa forte “ambiguità strategica” della maggiore potenza mondiale.
Come si regolerà Washington nel gestire la prossima ondata di proteste popolari, alla luce della propria dichiarata preferenza per “nazioni forti, sovrane e indipendenti”?