La domanda energetica in Africa australe è in continuo aumento. Nei prossimi 10 anni, secondo la Banca Mondiale, ci sarà una crescita ulteriore del 40%. Il potenziale, soprattutto nel mercato delle rinnovabili, è elevato, tanto da attirare le attenzioni di investitori privati ed istituzionali, sia locali che internazionali. La pandemia sta rallentando il passaggio dall’uso dei combustibili fossili alle energie pulite, ma entro il 2050, alcuni dei Paesi della regione, agevolati da condizioni climatiche favorevoli, puntano ad azzerare l’uso di carbone, petrolio e gas naturale.
Nonostante tra i 16 Stati che compongono la SADC (Southern Africa Development Community) ci siano alcune delle economie più virtuose del Continente per reddito pro capite come Seychelles, Mauritius, Sudafrica, Namibia e Botswana, il 50% dei 345 milioni di abitanti che vivono nella regione sono ancora senza energia, in particolare nelle zone rurali. Per agevolare la distribuzione elettrica tra i Paesi e ridurre i costi, nel 2017, quasi tutti gli Stati membri della SADC, hanno firmato il SAPP (Southern Africa Power Pool), un protocollo che coinvolge le maggiori utility energetiche della regione. Un piano di lungo periodo, target 2040, che ha permesso di risparmiare 42 miliardi di dollari, in attesa che la produzione di energia pulita aumenti sensibilmente. A metà 2018 (ultimi dati disponibili), in tutta la regione, sono stati prodotti 21.700 megawatt da impianti eolici, solari ed idroelettrici, la metà del fabbisogno energetico del solo Sudafrica. Secondo le previsioni di International Future (Ifs), nei prossimi vent’anni, il Sudafrica rimarrà il Paese che produrrà più energia in Africa australe. Angola e Tanzania, invece, i due Stati che incrementeranno maggiormente il loro fabbisogno energetico.
In Sudafrica Le prime luci si accesero nel 1882 a Kimberley, l’allora capitale dei diamanti, per illuminare le attività estrattive nelle miniere. La Repubblica sudafricana ancora non esisteva e fu un produttore indipendente a garantire la produzione e la distribuzione energetica. Un excursus storico cruciale per capire che la discussione sulla privatizzazione dell’energia è sempre stata un tema centrale nel Paese. In realtà, da più di un secolo, lo Stato amministra la rete elettrica, ma le pressioni per la privatizzazione di alcuni rami o dell’intero settore sono all’ordine del giorno. L’utility pubblica, Eskom, fu fondata nel 1910 ed ancora oggi produce il 95% dell’energia sudafricana. Nel 1994, anno storico per l’elezione di Nelson Mandela e l’inizio della democrazia nella “Nazione Arcobaleno”, la Banca Mondiale stima che 13 milioni di sudafricani, circa il 40% della popolazione, fossero collegati alla rete elettrica. Oggi il 91% dei sudafricani accedono almeno ad una fonte energetica, anche se in alcune zone rurali o sovraffollate la connessione può risultare instabile.
Le politiche energetiche sudafricane sono tuttavia criticate dalla comunità internazionale per l’alto tasso di anidride carbonica generata. Osservando le immagini prodotte dalla NASA, la regione dello Mpumalanga è considerata tra le più inquinate al mondo per quantità di CO2 rilasciata nell’aria. Nonostante le condizioni geografiche favorevoli che permetterebbero la costruzione di massicci impianti solari e fotovoltaici, la fonte energetica primaria in Sudafrica è ancora il carbone. Al momento, su una produzione di energia complessiva pari a circa 52mila megawatt, solo 4mila sono energia pulita. Il piano energetico nazionale (Integrated Resource Plan), approvato nel 2019 dal Ministro dell’Energia sudafricano, Gwede Mantashe, prevede entro il 2030 una progressiva riduzione dei combustibili fossili a favore delle energie rinnovabili.
Ma che il carbone rimanga centrale nello sviluppo energetico sudafricano lo dimostra la decisione di portare avanti e terminare la costruzione di Medupi, una centrale a carbone localizzata nella regione del Limpopo e che dovrebbe entrare in funzione nei prossimi mesi dopo 13 anni di lavori. Una volta terminato diventerà il maggior impianto energetico a carbone a raffreddamento secco al mondo. Da solo sarà in grado di generare 4.800 megawatt di energia, l’equivalente di quanto prodotto da tutti gli impianti di rinnovabili nel 2019. L’opera è costata a Eskom 9 miliardi di dollari e la magistratura sta investigando per corruzione.
Dall’inizio dei lavori, nel 2007, i costi sono lievitati del 300%; le spese per la centrale di Medupi avrebbero un ruolo cruciale nel debito complessivo di Eskom, pari a 24 miliardi di euro. Una situazione di gravità assoluta che ha portato al malfunzionamento di numerosi centrali nel Paese ed al razionamento energetico (loadshedding) anche nei grandi centri urbani, causando danni economici giornalieri per 140 milioni di dollari. In contemporanea al debito sono cresciute anche le tariffe energetiche, aumentate del 466% dal 2006 al 2017. Numeri che hanno costretto il Presidente del Paese, Cyril Ramaphosa, ad una nuova manovra di ristrutturazione del debito, immettendo nelle casse di Eskom 16 miliardi di dollari per fermare l’emorragia ed evitare il blackout energetico.
Non solo: il carbone in Sudafrica significa sviluppo, ma anche occupazione. Oltre a rappresentare il 2% del pil, garantisce lavoro a circa 80mila persone soprattutto in Limpopo e Mpumalanga, due delle regioni più povere del Paese e dove si trovano quasi tutte le 15 centrali a carbone. La Banca Mondiale, basandosi sulla ratio dipendenti-consumatori, ritiene che per il funzionamento di Eskom servano all’incirca 14mila dipendenti. Dal 2003 al 2017, invece, i lavoratori contrattualizzati sono passati da 32mila a 47.600, anche se il governo prevede una riduzione di 11mila unità nei prossimi due anni. Solo le utility pubbliche di Zimbabwe e Zambia, entrambi Paesi con gravi problemi energetici, hanno un numero di dipendenti superiori alla sudafricana Eskom.
Secondo l’Energy Research Center dell’Università di Città del Capo, nel 1980 erano 140mila i lavoratori impegnati nell’estrazione di carbone, mentre nel 2045 saranno tra 20 e 45mila. Per evitare di ingrossare ulteriormente la sacca della disoccupazione che, anche a causa della pandemia, ha superato il 30%, servono dei piani immediati per garantire un’alternativa di impiego ai lavoratori del carbone. All’interno del programma lanciato dai produttori indipendenti di energie rinnovabili (Renewable Energy Independent Power Producers Procurement Programme – REIPPPP) si prevede anche la creazione di 38mila posti di lavoro, di cui 4mila permanenti: figure di professionisti in grado di creare localmente le tecnologie necessarie per produrre energia pulita, come richiesto dal Governo che mira a partnership pubblico-private.
Negli ultimi 10 anni c’è stata un’accelerata nella produzione di energie pulite che quest’anno arriverà a 7mila megawatt. Bisognerà attendere, però, il 2050 per assistere al sorpasso di solare e fotovoltaico sul carbone. Intanto, nei prossimi dieci anni, le rinnovabili contribuiranno ad aumentare la produzione energetica nazionale, che passerà secondo i piani da 52.104 a 77.834 megawatt. Il fotovoltaico avrà un ruolo prioritario garantendo alla rete nazionale ulteriori 6mila megawatt.
Sullo sfondo rimane sempre la questione del nucleare, fortemente voluto dall’ex Presidente Jacob Zuma, che prevedeva di potenziare l’impianto nucleare di Koeberg alle porte di Città del Capo, che avrebbe accresciuto di 9600 megawatt la produzione nazionale di energia nazionale. Un progetto mai andato in porto e attualmente accantonato da Ramaphosa, anche se l’attuale governo ha predisposto il funzionamento della centrale fino al 2044.
La pandemia ha avuto effetti anche sul comparto energetico. Inizialmente positivi, dato che il rigido lockdown imposto dal Governo sudafricano ha ridotto i consumi di aziende e industrie di circa 9mila megawatts riducendo la pressione su una rete elettrica in difficoltà. Ma l’arrivo dell’inverno e la contrazione dei ricavi dovuta alla minor vendita di energia da Eskom ai Paesi limitrofi hanno contribuito al ritorno del razionamento energetico in tutto il Paese. Anche il settore delle rinnovabili è stato colpito dato che numerosi progetti, soprattutto campi eolici, sono stati posticipati.
Negli altri Stati dell’Africa australe che compongono la SADC (Southern Africa Development Community) lo scenario varia a seconda del Paese. In Zimbabwe, l’attesa svolta dopo la fine della dittatura di Robert Mugabe, non ha portato i benefici sperati. La distribuzione energetica è addirittura peggiorata con blackout anche di 18 ore al giorno a causa della grave siccità che ha colpito il Paese e che ha quasi prosciugato le imponenti centrali idroelettriche di Kariba South e Hwange. La crisi monetaria e la prolungata mancata di valuta straniera nelle casse pubbliche hanno impedito al governo di comprare energia dai vicini Sudafrica e Mozambico.
Quest’ultimo è uno dei Paesi della regione con un grande potenziale di crescita, dato il ridotto accesso energetico della popolazione. Su 30 milioni di mozambicani solo il 30% si collega ad una fonte energetica. La scoperta, quasi dieci anni fa, in una regione del nord, di un giacimento di gas naturale potrebbe trasformare il Paese in una super potenza energetica. Molto dipenderà dalla capacità del governo mozambicano di neutralizzare una cellula dello Stato Islamico che, da due anni, causa morte e distruzione a pochi chilometri di distanza dagli impianti estrattivi.
Botswana e Namibia mirano, invece, a diventare Paesi-leader nella produzione di energie rinnovabili già nei prossimi anni. Con circa 300 giorni di sole all’anno, una superficie superiore alla Francia e solo 2,6 milioni di abitanti, la Namibia mira a ridurre la dipendenza energetica dal Sudafrica costruendo estesi impianti fotovoltaici. Un mix energetico in evoluzione secondo le decisioni e le caratteristiche dei singoli paesi sembra dunque l’ipotesi più concreta per il futuro prossimo dell’Africa australe; un futuro comunque molto dinamico.