La preparazione dell’incontro siciliano sulla Libia del 12 novembre è stata tutta in salita. Prima il progressivo ritiro degli ospiti internazionali in base ai quali era stata scelta la data, in primis Vladimir Putin e Donald Trump che il giorno prima hanno partecipato alle celebrazioni della fine della Prima guerra mondiale a Parigi. Poi, il balletto del generale Khalifa Haftar che con un estenuante tira e molla sulla sua partecipazione ha costretto gli organizzatori al cardiopalma. Alla fine però, la conferenza di Palermo è stata descritta come un successo da Ghassan Salamè, l’inviato speciale dell’ONU. Per due volte, l’Inviato Speciale dell’Onu, l’ha chiamata “una pietra miliare” per il complesso processo di stabilizzazione della Libia.
A riprova delle difficoltà incontrate, a Palermo i temi in agenda sono stati discussi esclusivamente durante tavoli tecnici. Inoltre, le quattro delegazioni libiche non si sono mai confrontate direttamente tra di loro. Non c’è stato alcun incontro con tutti i leader politici invitati. Pur atterrando in tempo per cena, il generale Haftar è arrivato a Villa Igiea – sede della due giorni – ha salutato il premier Giuseppe Conte e il Ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, ma è poi tornato in albergo. Per farlo sedere attorno allo stesso tavolo con Serraj, la diplomazia italiana ha dovuto organizzare un mini-summit dal quale ha escluso i suoi principali avversari, a livello nazionale e a livello internazionale. Questo escamotage ha anche permesso ad Haftar – con una formula in effetti un po’ bizantina – di dire che pur essendo andato a Palermo non ha partecipato alla conferenza. Ecco perché mentre sui nostri media si titolava sul successo della stretta di mano tra Haftar e Serraj, su quelli libici (in primis quelli della Cirenaica) Haftar negava di aver preso parte ai lavori, visto che nei fatti non si è mai seduto al tavolo con tutti gli invitati.
Nei fatti dunque non si è arrivati alla firma di alcun documento condiviso e non sono state prese decisioni operative. Anzi, proprio mentre a Palermo si cercava – per l’ennesima volta – di gettare le basi per fare la pace, a Tripoli sono ripresi gli scontri armati. È quindi probabile che quando Salamè parla di un successo si riferisca soprattutto al sostegno che il suo rivisto piano per la Libia ha ottenuto, da una comunità internazionale che, Turchia a parte, è apparsa certamente più coesa rispetto al passato. In alcuni istanti, anche la storica contrapposizione tra Italia e Francia è sembrata diluirsi.
Questo è stato reso possibile da un’agenda dei lavori che ha deciso di non affrontare di petto le questioni politiche, ma di parlare soprattutto – in due tavoli tecnici – di sicurezza ed economia, due dei tre pilastri del piano di Salamè.
Dopo i violenti scontri di Tripoli dello scorso settembre, si è infatti sentita l’urgenza di raggiungere degli accordi che garantissero la sicurezza della capitale, nella speranza di farla transitare dalle mani delle milizie a quelle di un’istituzione governativa. Dopo il raggiungimento dei security arrangements che hanno dato forma a questo piano, Salamè vuole compiere un passo ulteriore, replicando questo schema securitario in altre città del Paese. A Palermo ha cercato sostegno proprio per questa fase due, ottenendo diverse garanzie, soprattutto dagli europei, che, in modi diversi, si sono impegnati per l’addestramento del personale – resta da verificare con quanta serietà. Al tema – è stato detto, ma non messo per iscritto – verrà dedicata un’apposita conferenza, sempre a regia italiana, a inizio 2019.
La questione della sicurezza conduce a quella dell’esercito una delle questioni sulla quale c’è maggiore distanza tra Fayez Al-Serraj, premier dell’unico governo riconosciuto a livello internazionale, e il generale Haftar, l’uomo forte della Cirenaica che nei fatti non riconosce l’esecutivo. Secondo gli accordi di Shkirat del 2015, quando venne avviato il processo di pacificazione interno, il premier politico a Tripoli è anche responsabile supremo delle forze militari. Ma Haftar spera da tempo di comandarle.
Questo nodo è stato al centro degli incontri avvenuti nelle settimane passate: Al-Serraj a Bruxelles con funzionari dell’Unione Europea e della NATO, Haftar a Roma con Giuseppe Conte (entrambi all’inizio di dicembre): come conciliare i due poli del potere, quello politico a Tripoli e quello militare a Bengasi, senza che ne nasca un’altra carneficina? Il piano del generale Haftar, quello di diventare il comandante supremo dell’esercito nella nuova Libia, non può realizzarsi senza la “conquista”, pacifica o meno, delle istituzioni della capitale. La modalità con cui ciò dovrà avvenire sarà oggetto appunto della prossima conferenza. Pochi giorni dopo l’incontro con Conte, l’Italia ha operato la sostituzione dell’ambasciatore in Libia Giuseppe Perrone (persona non grata a Haftar) con Giuseppe Buccino – già ambasciatore nel Paese tra il 2011 e il 2015.
A dare man forte alle ambizioni del generale Haftar è un altro generale, il presidente egiziano Abd al-Fattah Al-Sisi che da tempo lavora a una riforma dell’esercito libico proprio sul modello dell’onnipotente esercito egiziano. È probabilmente il tentativo di trovare sostegno a questo piano durante i lavori di Palermo, l’elemento che più ha innervosito la Turchia, protagonista del momento di maggiore tensione: il Vice Presidente turco, Fuat Oktay, ha infatti abbandonato in anticipo i lavori.
Uno strappo, questo, nel quale si riflettono le profonde divisioni che da anni attraversano l’Islam sunnita, compagine nella quale convivono a fatica quanti – Egitto in primis – combattono la Fratellanza Musulmana, forzandola alla clandestinità e quanti – la Turchia, ma anche il Qatar – la difendono, dandole ospitalità.
Questione altrettanto complessa è quella dell’economia. Mentre a Palermo si discuteva di riforme, sui cellulari dei delegati libici arrivavano foto di carriole cariche di montagne di soldi che venivano trasportati al Borsino (la borsa parallela dei cambi di Tripoli) per essere cambiati al mercato del nero.
Il tutto, fanno notare i più cinici, avviene alle spalle della National Oil Company (Noc), l’autorità che gestisce i ricavi del petrolio. Non una cosa da poco in un rentier state. La Noc è alle prese con i suoi problemi. E’ divisa – come del resto la banca centrale – in due, tra Bengasi e Tripoli. La ‘Noc Bengasi’ sta seguendo una strategia articolata, finalizzata a destabilizzare la Noc di Tripoli, anche con l’esportazione illecita, contratti e blocchi. Forse anche per questo la sede di Tripoli è diventata un bersaglio per i nemici al-Serraj. Un rapporto firmato dall’ONU lo scorso luglio documenta diversi tentativi della “Noc Bengasi” di esportare greggio illegalmente, almeno a partire dall’ ottobre 2017. A giugno, nell’area di maggiore produzione di greggio c’erano stati diversi scontri armati, risolti poi (di fronte al crollo dell’export) da un accordo tra Tripoli e Bengasi.
Per aiutare la Libia ad uscire da questa confusione è necessario rinnovare le sue istituzioni economiche e finanziarie. Primo passo da compiere sembra quello di superare la diarchia tra due banche centrali e tra due enti petroliferi. Siccome sono stati avanzati dubbi sui flussi di denaro in entrata e in uscita, durante i lavori di Palermo, Salamè ha dichiarato che queste diverse parti hanno raggiunto un accordo per un audit da affidare a una società di revisione internazionale di prestigio. E poi vi sarà una gara tra i 4 giganti del settore (PricewaterhouseCoopers, Ernst & Young, Deloitte, KPMG). Alla vincitrice verrà chiesto di rendere trasparenti i flussi. Questo proprio per evitare che capi delle milizie o politici siano gli unici ad arricchirsi.
E’ grazie soprattutto all’elasticità dei formati nei quali si sono tenuti gli incontri tra gli invitati in Sicilia, che l’incontro di Palermo è riuscito comunque a dare una spinta positiva a un processo già in atto da tempo, grazie anche a un profondo lavoro diplomatico che si è affiancato a quello delle Nazioni Unite, al fine di rafforzarlo. Tanto però è ancora da fare, anche perché in Sicilia c’erano solo i rappresentanti “ufficiali”, mentre il ben noto problema della Libia è che ci sono diversi centri di potere, e questi faticano ad essere rappresentati nei summit internazionali.