Per molto tempo, soprattutto guardando al vortice siriano al centro della conflittualità mediorientale, abbiamo temuto di non poterci permettere “due Europe” – la nostra, incerta su tutto e incapace perfino di accordarsi su una linea comune ai suoi confini, e quella specie di “America all’europea” voluta da Obama per limitare gli impegni diretti di Washington nelle crisi. Ora rischiamo di non averne nemmeno una, di Europa.
L’Unione europea si sta avvitando sulle scelte nazionali al punto da perdere ogni capacità di agire all’esterno (e vedremo quanto ci sarà di realmente europeo nella probabile, futura missione libica che tanto ci interessa come italiani). Intanto, l’America è cambiata ancora da quando l’attuale Presidente vinse la Casa Bianca per la prima volta, quasi otto anni fa, ed è oggi percorsa da dubbi profondi sulla propria volontà di ingaggiare il resto del mondo in modo continuativo e coerente. Le nuove paure e forse le nuove tendenze sono incarnate non soltanto da Donald Trump e Ted Cruz sul versante repubblicano, e non solo da Bernie Sanders su quello democratico; la stessa Hillary Clinton fa presagire un atteggiamento poco propenso ad ascoltare gli europei conderandoli come veri partner, e questa è forse la cosa più grave.
In tale contesto, non è affatto certo che l’alleanza transatlantica possa sopravvivere a tante tensioni simultanee.
Obama ha sostanzialmente realizzato il suo “pivot” asiatico – appoggiandosi a vecchi alleati, come Giappone e Sud Corea, alleati ritrovati come le Filippine, e nuovi alleati come il Vietnam. Da alcuni mesi ha rimodulato (verso l’alto, pur con grande cautela) gli impegni verso il Medio Oriente e l’Europa. Nel primo caso, a causa del complesso Siria-Iraq, che non si può lasciare nelle mani del Califfato dell’ISIS (ma neppure delle guerre per procura tra Iran, Arabia Saudita, Turchia, Russia); nel secondo caso, Washington non vuole lasciare che la UE si spacchi e la sua frangia orientale torni ad essere stabilmente condizionata dall’interferenza russa. Le condizioni in cui si trova l’Europa non sono certo incoraggianti, tra pericoli incombenti di Brexit, rischi di Grexit (meno immediati ma non superati), e strappi di nazionalismo sulla questione dei confini.
È a questo continente che Obama ha parlato nel suo tour (dopo aver visitato un altro partner a dir poco problematico, l’Arabia Saudita): il suo messaggio è suonato quasi nostalgico, ricordando ai vecchi alleati l’ideale di un continente senza muri, unito dall’economia aperta oltre che dai valori della democrazia e della tolleranza. Insomma, un messaggio europeista. Contraddetto però, in qualche modo, dal formato degli incontri – come sempre ormai, un formato ristretto e informale, in questo caso il “quintetto” di balcanica memoria (fine anni ’90), di cui ovviamente l’Italia, oggi come allora, è fiera di far parte. Obama non è infatti andato in visita a Bruxelles, ma a Londra e Hannover: in fondo ciò non è strano ma naturale, perché prende atto della realtà dei processi decisionali europei. Ci siamo abituati al ruolo centrale dei governi nazionali e degli incontri ristretti al vertice, e Washington si è semplicemente adeguata alla prassi.
Le parole europeiste del Presidente americano sono dunque sensate, nonostante i tempi che cambiano. La strada da percorrere è probabilmente quella di ricostruire un assetto europeo funzionale, senza rinunciare alle radici storiche dell’integrazione e senza rinnegare il ruolo cruciale che ebbe l’alleanza con gli Stati Uniti nelle fasi formative del progetto comunitario. Si tratta di un percorso europeista ma non solo ispirato al passato – quel passato non stimola né convince più i giovani, i disoccupati, la classe media preoccupata, i Paesi di recente adesione, e quindi non è sufficiente. E si tratta di un percorso euro-atlantico, perché dovremmo aver capito (anche chi giustamente insiste per non isolare Mosca) che la Russia e i suoi progetti “eurasiatici” non sono il motore dinamico del futuro ma al più uno strumento tattico per coprire le debolezze del sistema-Putin.
Il 25 aprile, che abbiamo appena festeggiato, segnò una “liberazione” in cui ovviamente il ruolo decisivo fu giocato proprio dagli Stati Uniti. La storia, fatta sempre di luci e ombre, è scritta dai vincitori, si sa; ma trovarsi gli Stati Uniti in casa fu il migliore degli scenari possibili, per l’Italia, rispetto alle alternative. Lo fu anche per l’Europa nel suo complesso, e ciascun Paese ha vissuto il dopoguerra in modo diverso ma con l’idea comune di una comunità euro-americana di valori, interessi e istituzioni. Un’eredità da non dimenticare alla leggera, proprio nel suo stretto legame con l’evoluzione del processo di integrazione continentale. Anche per questo, dovremmo oggi prendere sul serio le preoccupazioni americane espresse da Obama: sono le parole di un amico, anche se un po’ distante e distaccato, rivolte a chi sta dimenticando come si può essere davvero europei.